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Giovanni Berchet Opere IntraText CT - Lettura del testo |
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XX
Sopra un manoscritto inedito degli autori del foglio periodico «Il caffé»
Agli scalini del duomo vendevansi qui in Milano, sono pochi dí, al prezzo fisso di dieci soldi il volume, tanti libri e libracci usati, quanti bastavano a formare alla rinfusa un mucchio, del diametro di forse otto passi ed alto un mezz'uomo e piú. Passava di lá casualmente uno degli estensori del nostro giornale, e, datosi a frugare per entro a quel caos di sapienza avvilita e di pazzie umane mantenute tuttavia in eccessiva onoranza dalla tariffa del venditore, trovò modo di spendervi dietro anch'egli, bene o male, uno scudo. Raccomandò il prezioso acquisto alle spalle d'un fattorino del libraio senza bottega, avviandolo alla contrada tale, casa tale, numero tale; e, sborsato il prezzo, entrò in duomo, probabilmente per farvi orazione: i maligni dicono, per pigliarvi il fresco. Sull'ora del pranzo tornato egli a casa, trovò il fagotto de' libri buttato in terra a piè della seggiolina della portinaia, che, sudicia né piú né meno di tutte le sue consorelle, pure non aveva voluto metter mano su di esso, per paura, diceva, d'impolverarsi, e soltanto si degnò di additarlo con un calcio allorché ne sopravvenne il padrone. La schifiltá della donna pareva essere una strana disarmonia in quella cameretta. Misurando con un'occhiata tutto il lercio dello stanzino e dell'abitatrice, un uomo filosofo avrebbe avuto di che fantasticare assai sulla ignobilitá corporale dell'umana razza e sul perpetuo ondeggiamento de' principi morali da cui muovono le nostre azioni. Una portinaia schiva d'imbrattarsi di polvere un dito! All'amico nostro, accostumato da molti anni a veder tante inconseguenze e incongruenze e contraddizioni razionali e morali e sociali..., bastò di ridere alcun poco del bislacco sussiego della donnicciuola. - Va' - le disse - l'anima tua è screziata come l'abito che porti indosso. - Era una vestetta rattoppata con piú cenci, l'un d'un colore l'un d'un altro. - Ma io non rido di te, rido dei molti a cui tu somigli. - Nel dir questo, egli, che s'era fatto allo sportello verso l'androne e vedeva la strada, mandò uno sguardo di allusione a tre bei carrozzini, che lesti lesti scorrevano allora appunto per di lá. Poi, rientrato, spolverò alla meglio i suoi libri, se li recò sotto 'l braccio, salí le scale e li depose sullo scrittoio. Il dí susseguente, l'amico nostro riandò i vari frontispizi, e gli nacque il pensiero gentile di dividere con alcuni suoi vicini la sapienza comperata. Studiò di proporzionare il dono ai bisogni di ciascheduno di essi: voleva anche in tale inezia essere utile al prossimo. E però, sbandita ogni idea, ogni apparenza di beffa, mandò sul serio come lettura proprio opportuna i seguenti libri ai seguenti individui. Ad un ricco giovinetto uscito non ha guari di collegio, una discreta traduzione italiana delle Lettere di lord Chesterfield al proprio figliuolo. Ad un classicista, gli Elementi delle cognizioni umane ad uso de' fanciulli (edizione di Parma), ed i due Galatei, l'uno di monsignor Della Casa, l'altro di Melchiorre Gioia. Ad un romantico, un libro stampato in Venezia del 1563 ed intitolato Pungilingua e trattato di pazienza di fra Domenico Cavalca da Vico Pisano (edizione citata dai compilatori della Crusca). Ad uno sposo recente, un grosso volume e mezzo scucito, intitolato Nouvelle manière de defendre et de fortifier les places irrégulières à l'usage de ceux qui ne sont pas géomètres, par P. I. de Bellersheim. Ad un illustrissimo borioso, le Osservazioni di Francesco Redi intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi. Ad un postulante, L'uomo di corte di Baldassar Graziano (traduzione dallo spagnuolo). Ad una signora attempatella, un libro sconosciutissimo, intitolato L'arte di congedarsi a tempo, stampato in Venezia, l'ultimo anno della repubblica. Inviati al loro destino i libri suddetti, l'amico nostro ne ritenne per sé il restante; salvo che portò egli stesso di sua mano negli archivi del Conciliatore un grosso volume di manoscritti, legato in pergamena e della forma d'un libro parrocchiale, sdebitandosi cosí della promessa, che aveva fatto a se medesimo, di regalar qualche cosa anche a' veri amici suoi. In quel punto gli estensori del Conciliatore erano occupati in rifare alcuni periodi al giornale, che doveva uscire di lí a poche ore. E però non badarono per allora piú che tanto né al nuovo ospite de' loro archivi, né alla storia del come esso era pervenuto in potere del donatore. Questi fu rimunerato grettamente dai donatari con un «mille grazie» secco secco; ma, ponendo mente alla circostanza, gli parve che il guiderdone fosse anche troppo, e si tenne contento. Non passò per altro una settimana che ai pochissimi estensori rimasti in Milano a tirare il carro, mentre che tutti gli altri se ne stanno oziando alla frescura in amene campagne, su pe' colli di Brianza od in riva a qualche lago, cadde sott'occhio il volume de' manoscritti e nell'animo la voglia di scartabellarlo. Il frontispizio dice precisamente cosí: Miscellanea di cose accadute a' miei tempi, dove c'è dentro un poco di tutto. E piú sotto: «Io, prete don Anastasio Caramella, cappellano titolato in Verderio superiore, ho messa insieme questa miscellanea per mio uso ed esercizio, incominciando il giorno di pasqua dell'anno 1759 e seguitando fino al giorno di san Giuseppe del 1771, nel quale il dolore per la morte della mia buona Maddalena mi ha fatto rinunziare al mondo ed alle vanitá». Chi fosse questa Maddalena, la quale vivendo faceva un po' mondano don Anastasio, non è occorso a' sottoscritti di potere indovinare. Ma non hanno lette ancora che poche carte della Miscellanea. Apertala a metá del volume, vi trovarono un capitolo che s'annunzia cosí: Elegia comico-seria ed in prosa, composta da due degni signori che scrivono nel foglio periodico «Il caffé». Letta avidamente l'elegia, i sottoscritti pensarono subito che lo stamparla sarebbe stato un far cosa gradita al pubblico; da che oggidí gli scrittori del Caffé (morte essendo e seppellite le brutte invidie de' loro contemporanei) ottengono quella giusta venerazione che si meritano, ed ogni cosa che sia frutto di quegli ingegni viene letta con altrettanta compiacenza quant'era l'astio inverecondo col quale a' tempi loro sprezzavasi. Nel manoscritto non è registrato il nome dei due compositori dell'elegia. In alcuni passi le idee e lo stile farebbero sospettare ch'essa fosse fattura di Pietro Verri; in piú altri, del di lui fratello Alessandro. E forse è opera di tutt'altri; forse un solo individuo ne fu l'autore; forse... anche... chi sa? I sottoscritti non vogliono avventurare nessun giudizio: decida il pubblico. Ecco l'elegia ricopiata tal quale dalla Miscellanea del cappellano. Ma no: bisogna che i lettori sappiano in prima una cosa, e la si dica. L'elegia è preceduta da una Notizia storica, compilata da don Anastasio. Sono descritte brevemente in essa le circostanze che diedero occasione al componimento patetico. E sono circostanze tali, che per una bizzarria dell'accidente somigliano in qualche modo a quelle in cui trovansi gli estensori del Conciliatore. Siffatta analogia, è da confessarsi, contribuí anch'essa a far nascere il pensiero di pubblicar l'elegia, e con essa anche la Notizia storica nella sua genuina semplicitá. S'è detto «analogia d'alcune circostanze». Badate bene, o lettori, ai termini; perché gli estensori del Conciliatore non amerebbero d'essere creduti sí presuntuosi da voler paragonare se stessi agli illustri scrittori del Caffé. Sanno bensí in coscienza di aver comune con essi la intenzione; ma l'ingegno poi e le forze..., queste sono altre cose. «Non omnia possumus omnes», soleva dire ogni tratto il barbiere di Tom ]ones. Oh! un barbiere ci vorrebbe che lavasse il muso a certi israeliti della nostra penisola, de' quali dicesi che per avere imparate a mente quattro frasacce del Pataffio di ser Brunetto, siensi fatti tronfi come la rana della favola, e vadano gracchiando contro le opere del Verri e del Beccaria, e le chiamino «miserie», perché non vi trovano sapor di lingua. Sapor di lingua! E che sapete voi mai, o israeliti, d'altro sapore fuor di quello dell'oca? Don Anastasio dunque lasciò scritta, o lettori, una Notizia storica. Vedetela qui; e, se vi piace, ringraziatene gli editori, che finalmente stanno zitti e lasciano parlar don Anastasio e suoi poeti.
L'estate di quest'anno 1765 fece un gran caldo in Milano; ed io, che mi trovava lá giú, bruciava che pareva in un forno. In un giorno di luglio, non mi ricordo se giovedí o martedí, ma era giorno di grasso, fui invitato a pranzo la prima volta a casa della marchesa donna Antonia, signora piena di degnazione, che solamente mi fece venire, e non mi conosceva, perché io era amico di molti di que' sapienti che scrivevano il Caffé, e quel dí pranzavano dalla signora marchesa; ma solamente due di essi in effetto, perché gli altri erano scappati fuori in villeggiatura, tanto era indiavolata e scottava la cittá. Que' due buoni signori raccontavano tra una portata e l'altra d'aver veduti stracciati per la strada alcuni fogli del Caffé, e parevano in collera. Ma io credo che facessero finta, perché di quando in quando si guardavano e ridevano, ed erano insomma di buon umore. Anzi narravano tutti gli insulti che ricevevano dalla bassa canaglia, e che fino sentivansi chiamare «Societá dei pugni»; ed era come se parlassero di gloria e trionfi. Che fiore di galantuomini proprio esemplari! In fine della tavola tirarono fuori e lessero una poesia o prosa, che avevano fatta sui loro guai. E l'uno diceva: - Stampiamola; - e l'altro: - No; - e sí e no, e sí e no. E infine non ne fecero niente; perché la marchesa, donna di giudizio, diceva che non bisognava darsene per intesi, e che sempre era succeduto cosí, e che sempre sarebbe succeduto l'eguale a chi scrivesse proprio come la pensava; e che poi bisognava contentarsi di chiappar la lepre col carro, e lasciar tempo al tempo. Ma quella elegia mi piacque tanto, che pregai di darmene una copia. Ed ebbero la bontá di esaudirmi. Ed ecco, è l'elegia seguente. Peccato che non l'abbiano messa sul Caffé!
Elegia comico-seria ed in prosa
Vieni colla querula lira, o bionda Elegia; e sparsa di lagrime sciogli le chiome... - No, no; questa prosa somiglia troppo i soliti versi: cominciamo di nuovo. - Fa' la toelette una volta, o vecchia Elegia, se ti restano chiome. E se, dai mille anni in poi che tu spandi i torrenti delle tue lagrime sulle arcadiche cetre, ancora te ne rimane una stilla, vieni, o pietosa, nel caffé di Demetrio61 ad imprestarmela per tante disgrazie. Chi sará mai cosí dotto aritmetico da poter numerare tutti i miei nemici? Chi sa dirmi donde l'odio, gli strapazzi, gli sdegni contro di me, che non gli ho veduti pur mai! Ignoro il mio delitto. Studiando, scrivendo, operando col coraggio dell'onestá, ho forse violati gli altari, tiranneggiata la patria, venduta l'innocenza? Ho forse offesi tutti coloro che scrivono ed operano senza il coraggio dell'onestá? Oh! condonate l'errore giovenile: io sognava Lacedemone, ed era in Babilonia! - Ahi! ahi! ahi!... - ho sclamato tre volte per riverenza delle nove muse, quando vidi l'atroce spettacolo! Vidi (credetelo, o posteri) il foglio arditamente sincero, il foglio che tien desta l'invidia, quand'ella piú s'affanna a persuadere che dorme, il mio povero Caffé lacerato in mille brani, bruttato nel fango delle strade. E l'asino grave, e lo stupido bue, e l'armento servile delle pecore lo calpestavano passando! Sento ancora i ragli di gioia, i muggiti di trionfo, i belati di compiacenza. Oh vergogna, oh sventura irreparabile! ahi, ahi, ahi!... Dimmi tu, o solo compagno rimastomi in tanta guerra, come potremo difenderci? Ecco primo venirne contro il rotondo signor Cristoforo, ingegnosissimo, terribilissimo per grandi occhiali sul naso e impolverata parucca62! Ei m'accenna col dito alle turbe e grida: - Quegli è il colpevole, quegli il ribelle che ardisce resistere all'autoritá, stimare i moderni, non adorare gli antichi. Guai se il mondo uscisse di pupillo e l'ascoltasse! Urlate, o turbe: fischiate, percuotete, uccidete. Lo scellerato pretende che si ragioni! - E le turbe, che non ragionano e non intendono, mi guardarono minacciose; ed io, traendomi in disparte, risposi: - O gente degna delle «ghiande saturnie», placatevi e calpestate questo male sparso Caffé. - Venne Adonio, il damo per eccellenza; Adonio, il condottiero profumato della schiera degli eunuchi. Costui, recandosi tra le mani l'ultima raccolta di Ana, cercò tra le pagine un epigramma, e mi trafisse. Ahi, ahi, ahi... Oh mio mal prodigato Caffé! Ma chi mi giunge a sinistra dietro le spalle? Ecco la schiera bruna che bulica come un formicaio. Veggo lo scrittorello, colui il quale vende ognora a gran prezzo ciò che val nulla: se stesso ed i suoi giudizi. Veggo il vecchio Codro, cadente sotto il peso de' suoi volumi in foglio; né la rabbia basta a dargli forza per lanciarmeli contro. E te pure non dimentico, o poetastro, celebratore de' pranzi illustri; e te pure, o Vafrino, piaggiatore de' grandi, che ti sei fatto un patrimonio colla loro vanitá. Ma voi chi siete, pallide facce, tutte fosche di neri capegli, ora immote verso il cielo, ora inclinate mestamente alla terra? Ah sí, vi riconosco, Piloncino e Tartuffo, ipocriti di virtú, falsatori di religione. E i vili si strinsero le destre, e congiurarono cosí: - Costui né si vende né si compra; ma con un tocco ardito della sua penna sbalza dai volti le maschere e snuda la veritá. Dunque pèra il superbo, pèra il nemico della patria, pèra il disprezzatore de' grand'uomini, il novatore mostruoso, l'esecrato filosofo pèra. - Sí, calpestate il male sparso Caffé, o fallaci e crudeli dispensatori delle «ghiande saturnie». Abborritemi, vendicatevi. Ma prima ponete una mano sul mio petto, e sentirete che questo cuore batte tranquillo. Il giorno non è lontano che la pianta felice da noi collocata ne' campi d'Esperia porterá piú copioso il suo nobile frutto; il suo frutto che non manda fraganza, se nol tormenti col foco63. E voi pure tormentateci, o gente saturnia! Ma noi, alleati col Tempo, atterreremo su queste pianure i vostri boschi di querce; né piú vi sará dato d'imprigionare tra l'ombre le menti dei mortali. Perché una forza irresistibile di perfezionamento è nella nostra natura, e progredisce e trionfa; e, simile al fato, conduce i volenterosi, e i repugnanti strascina. Ma di chi la gloria, di chi? Amici del nostro cuore, che sudate con noi nell'altissima impresa, non lasciateci or soli frammezzo ai turbini. Ove siete, che fate? Due di voi, io lo so, compiacendo al lor genio, si ascondono nelle solitudini. Allato allato delle vostre predilette, seduti a sera sull'erta della collina, seguite con occhio innamorato le stelle remote, e alla presenza delle bellezze del cielo parlate le speranze d'una vita migliore. Intanto noi tra le mura infiammate della cittá scriviamo la notte, scriviamo il giorno, e appena abbiam tempo di mandare un sospiro. Dove sono gli altri? ahi! dove sono? Voi correte in caccia le campagne, o saltate i fossati, o veleggiate sui laghi ascoltando i canti verginali di che sull'alba risuonano le sponde, o cercate i semplici costumi tra le montagne dell'Elvezio vicino... Ma ricordatevi di noi, che siamo qui soli! E tu pure, altero e ritroso ingegno, che fai? Né amoreggi, né viaggi, né scrivi, e godi il tuo sommo diletto lasciando correre il pensiero negli aerei campi dell'Idea64. Ozio è questo, o fratelli: Piloncino ne ride, e noi due ne piangiamo, improvvisando la nostra elegia. Oh, povera Elegia! Ora t'innalzi, ora strisci nella polvere, e non somigli a nessuna. Guai se t'abbatti in qualche grave maestro, che voglia riscontrare le tue forme sul modulo de' precetti!65. Il feroce trarratti per gli orecchi al cospetto delle muse, e domanderá vendetta contro il padre dell'orribile mostro. A lui cosí dirai tua ragione: - O grave maestro, cui piacciono le centomila ricantazioni de' lamenti ovidiani, colui che m'ha fatta, sappilo, non somiglia l'errante modellatore lucchese: egli non mi foggiò di fragile gesso nella forma cavata da un altro, perché l'ignaro moltiplicasse le copie! Sono rozza, ma scolpita sul vivo; deforme, ma forte; sono un ente di piú nella natura.
Tale è l'elegia che abbiamo trovata nel manoscritto di don Anastasio e che pubblichiamo con tutta fedeltá. Le note da noi sottopostevi ne parvero opportune per la maggiore intelligenza del testo. Se nel libro regalatoci rinverremo altre cose meritevoli di essere tolte all'oscuritá, i nostri lettori non ne saranno defraudati.
I due estensori Grisostomo - P.
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61 Demetrio era un caffettiere greco, nella cui bottega gli autori del Caffé hanno finto che avvenissero le loro conversazioni. 62 Di questo signor Cristoforo si veggono piú menzioni nel giornale del Caffé. Sovranamente comica è la di lui disputa in favore degli antichi contro quello fra gli estensori che si firmava «A.». 63 Intende la pianta del caffé, e per essa simbolicamente la filosofia, alla quale sono necessarie le persecuzioni per farsi infine conoscere e sentire da tutti. 64 Non crediamo ingannarci nel riconoscere in questi tratti il Beccaria, uomo altamente contemplativo, ma poco inclinato all'attivitá. Piú dubbie sono le indicazioni degli altri colleghi a cui si rivolgono le esortazioni degli elegisti. 65 È noto che nel Caffé si sono combattute con molta forza le false regole e le frivolezze de' pedanti e de' poeti italiani. Veggansi singolarmente i due discorsi Sui difetti e Sullo spirito della letteratura. |
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