III
Fu entro una camera d'albergo
che Macario giovinetto si accostò, per la prima volta, agli amorosi misteri. La
stanza era angusta, trasandata e d'umil mobilio; ma la specchiera, appesa ad
una parete, si mostrava ampia e tersa e di gran pregio: e aveva, anche, il dono
della favella, tant'è vero che cominciò a dire:
— Odi, o garzone. Che tu rimanga
lì imbambolato a guardarmi, poco o nulla m'importa; ma che tu faccia codeste
smorfie, no, veramente, non è tollerabile. E odi ancora. Molti macachi, ho
conosciuti: e, tuttavia, mai ne vidi alcuno, che ti valesse. Ritorna,
figliuolo, ritorna nella foresta e scegli, come alloggio, una pianta. Giuro che
gli altri scimmiotti ti eleggeran subito principe. Che pensi? Di diventare
vezzoso facendo codeste boccacce? Sbagli, sbagli, o garzone. O, per lo meno,
rischi di metterti sopra una falsa strada.
La specchiera doveva esser
gonfia di parole; e avrebbe continuato a discorrere un pezzo. Ma, in buon
punto, le furon troncati da Macario il sermone e il respiro.
— Oh, dunque, cosa puoi
rimproverarmi? Se ancora dimostro qualche impaccio da bennato giovine di
provincia, e tu incolpane Undimilla vergine che, sino a ieri, mi tenne
vincolati il corpo e la volontà. Ho diciott'anni, diciott'anni, comprendi? E
sono venuto nella grande città, provvisto di un gruzzolo e di saggi consigli,
appunto per svincolarmi e disimpacciarmi. Il gruzzolo me lo diede mia madre; e
i saggi consigli li devo a un venerando esculapio, il quale, dopo aver
esaminato accuratamente il mio fisico, parlò in questi termini all'anima: «I
palliativi, nelle malattie gravi, sono dannosi e non utili. E poiché la tua
malattia, causata dalla privazione del vero farmaco e dall'abuso dei
palliativi, è gravissima, occorre che tu apparecchi subito le valigie per
andare lontano di qui alla ricerca della guarigione. Conosco i tuoi timori e
gli scrupoli: e, per ciò appunto, ti mando fuori dalla tua terra, ove il
rimedio costituirebbe scandalo e, quindi, peccato». «Ma qual è il farmaco?»,
chiesi. «È l'amore!», sentenziò il savio medico. «Ma l'amore non si risolve
sempre in peccato?», obiettai timido. «No, figliuolo, se non è esposto a nudo e
non dà scandalo».
La specchiera traballava tutta,
così intenso era il suo sforzo onde contenere le risa. Ma, ad un tratto,
ridivenne seria e immobile.
— Scusi, vuol essere svegliato
per tempo, domattina?
La voce, che passava a traverso
l'uscio, aveva un suono fresco e squillante: voce di donna, e di donna giovane.
— Entri! Così, potremo
intenderci meglio.
La porta si aprì. E rimase
aperta solo il tempo necessario per dare passaggio a un corpo non troppo
voluminoso, anzi piuttosto mingherlino, ma, in compenso, eccessivamente
irrequieto.
— Per favore, non chiuda. Devo
scappar via subito. Ho mille incombenze da sbrigare. Sa! L'albergo è grande, ed
io son così piccola!
— Abbia pazienza. Chiudo per
evitar la corrente. E ho bisogno di spiegarle tante faccende. Per esempio, il
caffè, al mattino, mi piace con un poco di latte: oh, poco poco, perché non mi
rammenti un biberone della mia infanzia! Ma con molti biscotti: moltissimi,
anzi.
— È goloso, il monello!
— Così. E mi fanno gola anche le
ciliege, se somigliano alle sue labbra!
— Stia fermo! Oh, quanta furia!
— Non è mia la colpa, se non ho
tempo da perdere.
— Si spieghi.
— Mi spiego. Devo trovare senza
indugio il farmaco che guarisca una grave malattia.
— Quale malattia?
— Abuso di palliativi. E un
savio esculapio mi ha detto che c'è un solo rimedio: l'amore.
— E si rivolge a me, per questo
farmaco?
— Il venerando esculapio ha
soggiunto che l'amore esige luogo acconcio a evitare ogni motivo di scandalo ed
una vivace pedagoga.
— Che le impartisca un corso,
possibilmente accelerato, di lezioni.
— Ecco! Proprio così!
— Stia fermo! Ouf! La finisca!
— Finirò se la pedagoga vorrà
cominciare.
— Badi che le lezioni costano un
occhio.
— Si spieghi.
— Mi spiego. Ogni fatica merita
premio. Anche le pedagoghe, dunque, hanno diritto a un compenso. E se, poi, si
tratta di un corso accelerato...
— Capisco. Ma potremmo
riparlarne più tardi!
— Piano! Oh, i miei capelli. Piano,
per carità! Guai se l'albergatore sospettasse!
— L' albergatore?
— Sì... No! No! N...
L'ultimo «no» rimase entro la
strozza, sopraffatto dal brusco sbatacchiar della porta. Un urlaccio, una fuga
rapida della servetta: poi, l'uscio si richiuse.
E si riaprì soltanto dopo che
Macario, vergine e martire, ebbe deposto, sopra la palma aperta di una mano
d'ostiere, il prezzo di un ammaestramento, che nessuno gli aveva impartito.
|