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Pierangelo Baratono
Il beato Macario

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  • La vita coniugale
    • XIV
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XIV

 

Civiltà, frutto miracoloso di quella robusta pianta, che si chiama Progresso! Nel tuo nome non delitti si compiono, bensì opere buone e feconde. Prima che tu ti lasciassi distaccare, rigoglioso pomo, dall'albero, gli uomini malvagiamente coltivavano il loro orgoglio e i vizi della lor carne peccatrice. E nessuno altrui assomigliava: ma c'era il guerriero ardimentoso e il mercatante irrequieto e il nobile aedo e la cortigiana ricca di facondia e di vezzi. Oggi, o Civiltà, gli uomini hanno addentata la tua polpa succosa: e si assomigliano tutti. E i guerrieri non vedon più la battaglia; e i mercatanti non solcan più i mari; e gli aedi barattan parole d'oro con scudi di argento; e le cortigiane apron le labbra solo per domandar la mercede. Nessun orgoglio alimenta più i vizi, poiché í grandi vizi più non esistono. Esiste, invece, un idolo adorato da tutti e da tutti ubbidito al par della legge: e si chiama Civiltà. Ed è il bastone del pastore Destino, che guida il gregge degli uomini, finalmente livellati, verso l'ovile di un'altra livellatrice: la Morte.

Ma se i tuoi pregi sono molti, o Civiltà, molti sono anche i tuoi inconvenienti. Per te un rapinatore di borse, disdegnando i pochi spiccioli dei viandanti, apre alle casseforti dei risparmiatori il tranello di una solida Banca; per te, i pavoni dall'ampia coda e dall'esigua cervice, abbandonato il natio cortile e strappata una penna al loro stesso corpo, si trasformano in rappresentanti della pubblica opinione. E per te Clorinda, sposa civilizzata e progressista, adoprando i frammenti del maritale programma per preparare i riccioli della chioma, irride a Macario e lo astringe a citar la legge ed i testi.

Donna, tu sarai fedele al tuo consorte.

— Sarò fedele, ribatté ella, se tu lo meriterai.

— E in che modo potrò meritarlo?, chiede Macario.

Mostrandoti gentile verso la tua sposina.

— E quali prove domandi della mia gentilezza?

— Voglio uscire, ogni giorno, in cocchio; e voglio andare, ogni sera, a teatro; e voglio che tu, al ritorno, mi aiuti a toglier la veste di gala e ad indossare l'abbigliamento notturno.

— Così sia!, conclude Macario.

Seduta entro suberba carrozza, la coppia felice percorre i grandi viali. E, al suo passaggio, le donne e gli uomini arroventan gli sguardi, quelle per strinar gli abiti e questi per incendiare il cuore di Clorinda. Da ogni parte, giovani languidi e adulti pacati e olezzanti vegliardi salutano con profonde scappellate e con misteriosi cenni e con sorrisetti arguti la sposa, mentr'ella si sventola civettuola e con misteriosi cenni e con sorrisi e cenni e un lieve chinar del capo risponde. E sembra fata, che attraversi un campo di spighe, piegate dal soffio del vento. Ad ogni tratto di strada, poi, Clorinda impone che il cocchio si fermi e, chiamato a sé un qualche amico, con lui sottovoce confabula, sporgendosi tutta all'infuori. La sua inguantata manina è prigioniera, durante il colloquio, di due mani virili; la doppia ciliegia della bocca, quasi fosse oasi di riposo nella conversazione, è sfiorata di tempo in tempo dall'ape di una bocca di maschio. E inutilmente Macario urta del gomito e comprime il piede della consorte: e inutilmente si contorce sul sedile e sbuffa, sudando.

— Ne ho abbastanza delle tue scarrozzate, egli dichiara nel rincasare. Se veramente il cocchio e i saluti e i colloqui e le api ti premono, scegli, come accompagnatore, Mardocheo.

Stretto amabilmente l'accordo, i due sposi vanno a teatro. Sono soli nel palco: sono felici. Ma per pochi momenti. L'uscio si schiude lieve; e un visitatore appare, festosamente accolto da Clorinda.

— O Ettore, piccioncino mio, entra, entra pure!

Scambio di convenevoli, scambio di paroline dolci, scambio di paroline dolci, scambio di occhiate ardenti. E Macario, relegato nel fondo del palco, dice il rosario.

Poi, Ettore se ne va; e l'uscio si schiude di nuovo.

— O Anselmo, coniglietto del mio orto, entra, entra liberamente!, esclama Clorinda.

Il giuoco dei convenevoli e delle paroline ripiglia. E ripiglia, anche, il rosario.

Poi, Anselmo se ne va; e l'uscio si schiude ancora.

— O Belisario, tigre della foresta mia, entra, entra pure!, grida Clorinda con impeto.

Convenevoli, paroline, sguardi. E rosario.

Poi, il visitatore se ne va; e l'uscio si riapre subito.

— O Giocondo, ippopotamo delle mie acque, entra, entra liberamente!, squittisce ilare Clorinda.

Rosario.

E, dopo Giocondo, venne Annibale «bertucetta del cuor di Clorinda»; e, dopo Annibale, venne Clodoveo «leone assetato del sangue di Clorinda»; e, dopo Clodoveo, venne Spiridione «micetto di Clorinda micetta»; e, dopo Spiridione, giunse, finalmente, l'ora di rincasare.

Ouf!, concluse Macario: se vuoi recarti a teatro, padronissima. Però scegli, come accompagnatore, Clemente.

Poi, fedele al patto concluso, si accinse a servire da cameriera. Ma le cameriere son donne: e, quindi, poco sensibili alle grazie del loro sesso. Macario, invece, era uomo. E come avrebbe potuto, un uomo, scioglier da aerei veli nudità terrene e slacciare giarrettiere allacciatrici e sentir nelle mani un tepore di scarpini minuscoli e nelle narici il cipreo olezzo e nelle pupille le rosee tentazioni e nelle carni i mille e mille stimoli della carne, senza cadere più e più volte lungo il vertiginoso cammino?

— Troppo faticosa è la parte della cameriera, sentenzia alla fine Macario. Un'altra volta, ti prego, chiama Beniamino.




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