XIV
Civiltà, frutto miracoloso di
quella robusta pianta, che si chiama Progresso! Nel tuo nome non delitti si
compiono, bensì opere buone e feconde. Prima che tu ti lasciassi distaccare,
rigoglioso pomo, dall'albero, gli uomini malvagiamente coltivavano il loro
orgoglio e i vizi della lor carne peccatrice. E nessuno altrui assomigliava: ma
c'era il guerriero ardimentoso e il mercatante irrequieto e il nobile aedo e la
cortigiana ricca di facondia e di vezzi. Oggi, o Civiltà, gli uomini hanno
addentata la tua polpa succosa: e si assomigliano tutti. E i guerrieri non
vedon più la battaglia; e i mercatanti non solcan più i mari; e gli aedi
barattan parole d'oro con scudi di argento; e le cortigiane apron le labbra
solo per domandar la mercede. Nessun orgoglio alimenta più i vizi, poiché í
grandi vizi più non esistono. Esiste, invece, un idolo adorato da tutti e da
tutti ubbidito al par della legge: e si chiama Civiltà. Ed è il bastone del
pastore Destino, che guida il gregge degli uomini, finalmente livellati, verso
l'ovile di un'altra livellatrice: la Morte.
Ma se i tuoi pregi sono molti, o
Civiltà, molti sono anche i tuoi inconvenienti. Per te un rapinatore di borse,
disdegnando i pochi spiccioli dei viandanti, apre alle casseforti dei
risparmiatori il tranello di una solida Banca; per te, i pavoni dall'ampia coda
e dall'esigua cervice, abbandonato il natio cortile e strappata una penna al
loro stesso corpo, si trasformano in rappresentanti della pubblica opinione. E
per te Clorinda, sposa civilizzata e progressista, adoprando i frammenti del
maritale programma per preparare i riccioli della chioma, irride a Macario e lo
astringe a citar la legge ed i testi.
— Donna, tu sarai fedele al tuo
consorte.
— Sarò fedele, ribatté ella, se
tu lo meriterai.
— E in che modo potrò
meritarlo?, chiede Macario.
— Mostrandoti gentile verso la
tua sposina.
— E quali prove domandi della
mia gentilezza?
— Voglio uscire, ogni giorno, in
cocchio; e voglio andare, ogni sera, a teatro; e voglio che tu, al ritorno, mi
aiuti a toglier la veste di gala e ad indossare l'abbigliamento notturno.
— Così sia!, conclude Macario.
Seduta entro suberba carrozza,
la coppia felice percorre i grandi viali. E, al suo passaggio, le donne e gli
uomini arroventan gli sguardi, quelle per strinar gli abiti e questi per
incendiare il cuore di Clorinda. Da ogni parte, giovani languidi e adulti
pacati e olezzanti vegliardi salutano con profonde scappellate e con misteriosi
cenni e con sorrisetti arguti la sposa, mentr'ella si sventola civettuola e con
misteriosi cenni e con sorrisi e cenni e un lieve chinar del capo risponde. E
sembra fata, che attraversi un campo di spighe, piegate dal soffio del vento.
Ad ogni tratto di strada, poi, Clorinda impone che il cocchio si fermi e,
chiamato a sé un qualche amico, con lui sottovoce confabula, sporgendosi tutta
all'infuori. La sua inguantata manina è prigioniera, durante il colloquio, di
due mani virili; la doppia ciliegia della bocca, quasi fosse oasi di riposo
nella conversazione, è sfiorata di tempo in tempo dall'ape di una bocca di
maschio. E inutilmente Macario urta del gomito e comprime il piede della
consorte: e inutilmente si contorce sul sedile e sbuffa, sudando.
— Ne ho abbastanza delle tue
scarrozzate, egli dichiara nel rincasare. Se veramente il cocchio e i saluti e
i colloqui e le api ti premono, scegli, come accompagnatore, Mardocheo.
Stretto amabilmente l'accordo, i
due sposi vanno a teatro. Sono soli nel palco: sono felici. Ma per pochi
momenti. L'uscio si schiude lieve; e un visitatore appare, festosamente accolto
da Clorinda.
— O Ettore, piccioncino mio,
entra, entra pure!
Scambio di convenevoli, scambio
di paroline dolci, scambio di paroline dolci, scambio di occhiate ardenti. E
Macario, relegato nel fondo del palco, dice il rosario.
Poi, Ettore se ne va; e l'uscio
si schiude di nuovo.
— O Anselmo, coniglietto del mio
orto, entra, entra liberamente!, esclama Clorinda.
Il giuoco dei convenevoli e
delle paroline ripiglia. E ripiglia, anche, il rosario.
Poi, Anselmo se ne va; e l'uscio
si schiude ancora.
— O Belisario, tigre della
foresta mia, entra, entra pure!, grida Clorinda con impeto.
Convenevoli, paroline, sguardi.
E rosario.
Poi, il visitatore se ne va; e
l'uscio si riapre subito.
— O Giocondo, ippopotamo delle
mie acque, entra, entra liberamente!, squittisce ilare Clorinda.
Rosario.
E, dopo Giocondo, venne Annibale
«bertucetta del cuor di Clorinda»; e, dopo Annibale, venne Clodoveo «leone
assetato del sangue di Clorinda»; e, dopo Clodoveo, venne Spiridione «micetto
di Clorinda micetta»; e, dopo Spiridione, giunse, finalmente, l'ora di
rincasare.
— Ouf!, concluse Macario: se
vuoi recarti a teatro, padronissima. Però scegli, come accompagnatore, Clemente.
Poi, fedele al patto concluso,
si accinse a servire da cameriera. Ma le cameriere son donne: e, quindi, poco
sensibili alle grazie del loro sesso. Macario, invece, era uomo. E come avrebbe
potuto, un uomo, scioglier da aerei veli nudità terrene e slacciare
giarrettiere allacciatrici e sentir nelle mani un tepore di scarpini minuscoli
e nelle narici il cipreo olezzo e nelle pupille le rosee tentazioni e nelle
carni i mille e mille stimoli della carne, senza cadere più e più volte lungo
il vertiginoso cammino?
— Troppo faticosa è la parte
della cameriera, sentenzia alla fine Macario. Un'altra volta, ti prego, chiama
Beniamino.
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