II.
Carlo Alberto, all'esempio di
Pio IX, aveva innalzato lo stendardo italiano, ogni suo decreto aveva diretto
al bene della parte d'Italia che era da lui governata. Postosi su d'una tal via
non poteva egli, senza smentire i propri atti, non aderire alle brame dei suoi
popoli, che lo spingevano ad accorrere al soccorso dei Lombardo-Veneti. Sia per
impulso altrui, sia per quello del proprio cuore, fatto stà che il giorno 23
emanava il seguente proclama:
Popoli della
Lombardia e della Venezia!
«I destini d'Italia si maturano;
sorti più felici arridono agl'intrepidi difensori di conculcati diritti.
«Per amore di stirpe, per
intelligenza di tempi, per comunanza di voti, Noi ci associammo primi a
quell'unanime ammirazione che vi tributa l'Italia.
«Popoli della Lombardia e della
Venezia! Le nostre armi che già si concentravano sulla vostra frontiera quando
voi anticipaste la liberazione della gloriosa Milano, vengono ora a porgervi
nelle ulteriori prove quell'aiuto che il fratello aspetta dal fratello,
dall'amico l'amico.
«Seconderemo i vostri giusti
desiderii, fidando in Dio, che è visibilmente con Noi, di quel Dio, che ha dato
all'Italia Pio IX, di quel Dio, che con maravigliosi impulsi pose l'Italia in
grado di fare da sè.
«E per viemmeglio dimostrare con
segni esteriori il sentimento dell'unione italiana, vogliamo che le nostre
truppe entrando nel territorio della Lombardia e della Venezia portino lo scudo
di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana.
Carlo
Alberto»
Scorsi tre giorni partiva da
Torino per Alessandria, ove era radunato il maggior nerbo delle truppe, di cui
ne assumeva il supremo comando. Divideva quelle in due corpi; spediva le
avanguardie, ed accelerava la mossa degli sparsi reggimenti; indi stipulava col
governo provvisorio di Milano i seguenti capitoli:
«I. Le truppe di S. M. Sarda
agiranno da fedeli e leali alleati del governo provvisorio, ritenendo S. M. a
tutto suo carico gli stipendi in corso e stando invece a carico del governo
provvisorio ogni somministrazione di sussistenza. A tal uopo l'esercito
piemontese sarà assistito da' suoi commissari di guerra; potrà il governo provvisorio
aggiungere quei controllori che crederà del caso. Le richieste per la
somministrazione delle razioni di viveri e foraggi si giustificheranno mediante
boni firmati dai rispettivi comandanti dei diversi corpi, i quali saranno
mallevadori della loro esattezza numerica.
«II. Avendo il governo
provvisorio sopra istanza del signor generale comandante Lecchi espresso il
desiderio di avere degli ufficiali per la istruzione delle nuove truppe che si
stanno organizzando, il signor marchese Passalacqua - generale di S. M. -
accoglie la richiesta in quanto a quelli che non figurano nei quadri di
attività colla condizione che gli ufficiali assunti dal governo provvisorio
diventino ufficiali al servizio di questo.»
Il 29 marzo, accomiatandosi dai
suoi popoli, il Re varcava quel confine, che segnato aveva la tirannide,
seguito da 23,000 soldati d'ogni armatura. A Pavia veniva accolto fra applausi
indicibili, tra gridi di festa e fra le vie sparse di fiori. L'esercito sardo
sommava a 72,000 uomini, molte migliaia de' quali rimasero di presidio nei
paesi che furono occupati durante la guerra; molti i vaganti per capriccio, per
malattia, per superiore permesso, per dilatata licenza. Quell'esercito era ben
lontano allora da quell'organamento a cui il La Marmora seppe portarlo dopo
gl'infelici anni 1848 e 1849, e a cui si dovettero quelle stupende prove da lui
date in Crimea, a Palestro, a san Martino. La fiducia d'un'eterna pace
coll'Austria aveva fatte trascurare al governo di Torino le provvidenze di
guerra; e se le armi soperchiavano di gran lunga la ordinaria misura per sedare
le possibili intestine sommosse, non bastavano, sia nel numero, sia nelle
militari discipline, per porsi convenientemente in campo contro un nemico,
fuggitivo sì, ma sempre gigante com'era l'austriaco. Oltre a ciò i generali
mancavano di carte topografiche, e non conoscevano la parte d'Italia in cui
andavano a combattere. A un tale esercito bisognava un capo ardito, sapiente
delle cose di guerra, di que' generali che sanno in pochi dì creare i soldati,
che sanno loro infondere quell'impeto che sopperisce agli stretti ordinamenti.
Carlo Alberto, prendendo a sè il comando supremo delle truppe, fece grave
errore. Egli avrà avute tutte le buone qualità immaginabili; ma mancava di
spirito belligero, e d'attitudine per essere generale; era fiacco ed ignorante
affatto della strategia. Anco il suo stato maggiore, fatta una eccezione,
quella del generale conte Franzini, non era da più del supremo capitano.
Affinchè i nostri lettori possano convincersi come le sorti della guerra
fossero in cattive mani, diremo che il capo di stato maggiore, il conte Carlo
Canera di Salasco, era un gentiluomo di camera, di nobile prosapia, d'indole
timida e servile e di scarso ingegno. Egli spingeva la devozione verso la
persona del re sino all'estremo; perfin nel campo si credeva in obbligo di
continuare l'incarico di ciambellano, e sempre lo segui come l'ombra sua sia a
piedi che a cavallo. Parte della notte passava in veglia per redigere que'
bollettini che tutti hanno letto e prescrivere gli ordinamenti dell'esercito.
Travagliato dalla propria coscienza, egli non cessava dal chiedere al suo
principe lo dispensasse da cure, che domandavano altre teste che non fosse la
sua. Carlo Alberto non assentiva ai suoi desideri; e al cessare della prima
campagna, cessava l'alta funzione con fama di pessimo strategico e colla
fatalità d'aver dato il suo nome ad un armistizio coll'inimico, forse per la
forza dei casi inevitabile, però inviso ad ogni generoso cuore italiano.
Il giorno cinque di aprile il
quartiere generale era a Bozzolo. Una mano di arditissimi volontari, capitanata
da Griffini, aveva occupato il passaggio del fiume Oglio e disfattone il ponte
presso Marcaria. Verso sera fu spinto più innanzi un nodo di truppa regolare
delle tre armi, che occupò una casipola isolata lungo la strada di Mantova. A
notte fitta, i cacciatori nemici, approfittando della spensierata sicurezza in
cui si credevano i nostri, si avanzarono carponi verso quella casipola,
attaccarono que' negligenti soldati e li posero in fuga. Una quarantina d'ulani
li inseguì, facendone prigionieri nove, e togliendo loro otto cavalli che
furono tradotti in Mantova. Quel primo scontro si poco felice, le frequenti
paure al più lieve rumore notturno, il continuo trarre degli schioppi senza
saper dove, nè contro chi, appalesavano chiaramente come le truppe piemontesi
ignorassero i primi elementi dell'arte militare.
Il giorno sette il grosso
dell'esercito muoveva per Goito, collo scopo di forzare il passo tra la fortezza
di Mantova e quella di Peschiera. Il giorno 8, in sul meriggio, la prima
divisione mosse con molta ansia contro gli Austriaci, i quali si erano
asserragliati nel paese ed avevano minato il ponte. Dopo accanito contrasto i
nostri facevano estremo impeto, entravano in Goito a viva forza, abbattevano
ogni ostacolo, ponevano in fuga il nemico; il quale, sgominato da tanto ardire,
correva precipitosamente al ponte per difendersi sull'altra linea del fiume.
Anche quivi la resistenza fu lunga e ostinata; ma i nostri rimanevano
vincitori.
Le perdite dal nostro lato, tra
morti e feriti, sommarono a quarant'otto uomini. Caddero eroicamente il
maggiore Maccarani del Real-Navi e il giovine tenente Wrigt, inglese di
nascita. Si distinsero particolarmente il generale d'Arvillars, il generale dei
volontari Griffini, il colonnello Alessandro Ferrero della Marmora2, il
tenente Franchetti, il Milanesi, caporale d'artiglieria.
Il felice successo della
giornata di Goito, mentre indeboliva la temuta fama di possanza dell'esercito
nemico, incuorava sopramodo i nostri. Il giorno 9, il generale Broglia, colla 3a
divisione, dirigevasi verso le alture che signoreggiano Monzambano. Gli
Austriaci, all'avvicinarsi delle colonne italiane, fuggivano dal paese, e,
riparando nella sponda sinistra, appiccavano il fuoco al ponte. La prima
batteria a cavallo, sotto gli ordini del maggiore Filippi, allontanò di quasi
mille metri gli opponenti dal Mincio, affine di ristabilire il ponte, su cui
passavano di corsa buon nodo de' nostri. Se lo stato maggiore avesse conosciuti
i luoghi avrebbe saputo rispondere all'ardore dei soldati, che volevano ad ogni
costo inseguire i fuggenti. Ma quello doveva tenersi in una saggia moderazione,
e anzichè eccitare le truppe le infrenava. Il colonnello Mollard, alle due e
mezza dello stesso giorno occupava Borghetto. L'indomani le truppe della
libertà prendevano posizione sulle alture dinanzi il castello di Valeggio; e il
giorno 11, riposti in assetto i ponti fatti saltare in aria dal nemico, tutte passavano
il fiume.
La facile vittoria ringalluzziva
i nostri, e li faceva meno oculati e guardinghi; come quelli che ormai non
temevano punto d'un nemico sbaragliato e fuggente. Ed era quello il momento che
un generale esperto in cose di guerra avrebbe afferrato per ispingere innanzi
le sue colonne, e approfittare in un tempo e dell'entusiasmo che le infiammava
e della paura in cui ancora erano invasi gli Austriaci. In quella vece Carlo
Alberto fissava il suo quartiere generale in Volta, e pago si teneva delle
posizioni che gli erano state cedute con tanta facilità. La prima operazione
del re a Volta fu, dietro consiglio di taluno, di tentare un movimento verso
Peschiera; poichè, venivagli detto, il presidio di quella fortezza avrebbe
tosto ceduto all'avvicinarsi delle sue truppe vittoriose. Se non che le mura di
Peschiera non erano quelle di Gerico; nè era più il tempo che a suon di tromba
cadevano i fortilizi. I Croati, che la presidiavano, erano soltanto 1800; ma,
gente predona e selvaggia, avanzata alle vendette di Milano; essi non sentivano
punto lo scoraggiamento nell'animo, bensì la speranza, nel resistere alla mala
fortuna, d'infestare di bel nuovo le strade e i paesi, di appagare la non mai
sazia ferocia col saccheggio e col sangue.
L'ufficiale parlamentario trovò
adunque illusoria la facile reddizione della piazza; ed il Re, che, durante
l'inutile tentativo, era rimasto ne' punti più bersagliati dalle palle nemiche,
si ritraeva di là lasciando la brigata Pinerolo a stringere il blocco della
fortezza.
Le truppe di Mantova, sfornite
di viveri, andavano infrattanto battendo i campi, le cascine, i paeselli,
predando quanto meglio cadesse loro nelle mani e malmenando spietatamente que'
terrazzani che non erano lesti a darsi alla fuga. Carlo Alberto, a togliere
questi miseri campagnuoli dallo strazio che il nemico di loro faceva, e
fors'anco per pulire Rivolta e le Grazie dagli Austriaci, e facilitare il
congiungimento delle proprie ordinanze colle modenesi, romane e toscane, che
avevano di già varcato il Po, ordinava per la notte del dì 11 una grande
ricognizione verso quella fortezza.
Ai primi albori, il generale
Bava, alla testa di 12 mila uomini, muoveva da Gazzoldo dirigendo le sue truppe
per Sarginesco, per Castellucchio e Montanara, affine di attaccare di fianco il
nemico, ove avesse cercato di difendere l'argine dell'Osone; altre truppe
dirigeva da Sacco per Rivolta e le Grazie per coglierlo di fronte; altre di
Ceresara per Rodigo e Borghetto per procedere sino a Curtatone, ed altre infine
da Piubega per Ospitaletto, affine di starvi come riserva, ed entrare, nel
bisogno, a prender parte alla ricognizione.
Scopo di quelle mosse era, come
si vede, di battere di fronte e di fianco gli Austriaci, esploranti le
campagne, di tagliar loro la ritirata, e portarsi quindi immediatamente sotto
le mure di Mantova. Il nemico non fu côlto all'improvviso; egli era stato
avvisato di que' movimenti dalle accurate e indefesse spie che aveva saputo
sguinzagliare dappertutto. Si ritirò in fortezza, sostenendo, verso Belfiore,
un breve scontro coi bersaglieri, che gli tennero dietro sino alle porte.
Fallito quel tentativo, Bava
faceva ripiegare i battaglioni. Sotto Mantova rimaneva una divisione di 5000
mila Toscani, volontari e stanziali, sotto il comando del generale d'Arco Ferrari,
il quale, già buon soldato sotto il primo Bonaparte, era dagli anni e dagli ozi
reso ormai svigorito ed inutile. Ai Toscani s'era aggiunto il 10.° reggimento
di linea Abruzzo, che Ferdinando di Napoli aveva mandato in aiuto al granduca
di Toscana.
Sin dal 18 aprile una legione
volante di Modenesi, sotto gli ordini del maggiore Lodovico Fontana, aveva
traghettato il Po presso San Benedetto per presidiare Governolo, posizione
importantissima non lontana da Mantova.
La scelta del Fontana a capo di
que' soldati fu ottima. Uomo di natura semplice, onesta, attivissima, egli
aveva apprese le militari dottrine nel battaglione del duca di Modena, e
desunte dal proprio cuore le politiche credenze. Il suo coraggio, la franchezza
dei modi lo facevano stimare dai conterranei; il suo piglio soldatesco, le
libere parole lo rendevano l'idolo delle schiere, che il governo provvisorio
avevagli affidate. Consistevano queste in ottocento volontari, in
duecentoventicinque soldati d'ordinanza, in trentacinque dragoni a cavallo ed
in trenta cannonieri con tre pezzi d'artiglieria da campagna ed un obice. A
cotale forza erano uniti cinquanta bersaglieri mantovani, guidati da Longoni,
distinto ufficiale al servizio del Piemonte; fra que' bersaglieri erano i
genovesi Nino Bixio e Goffredo Mameli. Saputosi come alcuni nodi di nemici
ponessero a ruba ed a sacco il vasto paese, che era loro dato di campeggiare,
alcuni fra i Modenesi, divorati dalla sete di combattere, chiesero a Fontana di
poter volteggiare verso il forte, e ai predoni in cui s'imbattessero di far
pagare caramente le loro ribalderie. Partirono quegli arditi in numero di
trecento. Giunti a Castellaro vi si fortificarono, riconoscendo quel luogo
importante per intercettare le comunicazioni di Mantova con Verona e Legnago.
L'indomani a sera, avvertiti che due compagnie di cacciatori austriaci erano
giunte a Castelbelforte, partirono in numero di duecento per tentare di
sorprenderle e farle prigioniere. Albeggiava appena, quando presso il paese si
scontrarono in loro, già deste ed in marcia per a Mantova. Attaccatele senza
porre tempo di mezzo, dopo mezz'ora di accanito combattimento, le costringevano
alla fuga, facendo loro soffrire parecchie perdite, ed inseguendole per buon
tratto di strada.
Frattanto i rimasti a Castellaro
venivano sorpresi ed assaliti da un battaglione ungherese con cavalleria e
cannoni; e, benchè presi all'improvviso per la mala guardia che intorno a sè
facevano, si difesero per un'ora, e si ritirarono poscia ordinati verso
Governolo. Il temerario ardimento dei nostri divenne esca al nemico alla
vendetta.
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