IV.
Dal lago di Garda alle alture
tirolesi erano adunati cinquemila e più volontari lombardi, svizzeri e
genovesi, i quali si avevano a comandante un colonnello federale, originario di
Piemonte, per nome Allemandi. Le varie legioni erano capitanate dal Borra di
Brescia, ufficiale del già esercito italiano, cui i molti anni non avevano
punto scemate le forze fisiche e del cuore; dal Thannberg, giovine alsaziano
arditissimo; dal Tibaldi di Cremona; dal Manara, dal Trotti, dall'Arcioni, dal
Torres, dal Beretta, dall'Anfossi, dal Longhena, e da altri generosi figli
d'Italia. I soldati, che a que' capi dovevano ubbidire, erano audaci tutti, ma
mancavano di disciplina, di fermezza ne' propositi. Il governo, come
accennammo, avevali quasi abbandonati, facendo loro mancare vesti, munizioni e
vettovaglie. Tuttavia essi valorosamente combatterono alle Sarche, presso il
castello di Toblino, ed inseguirono il nemico verso Trento sin oltre Vezzano.
L'Allemandi, che vedeva quanto importante fosse di conservare i passi del
Tirolo, sia per tagliare da quelle parti la ritirata agli Austriaci, sia per
impedire che vi ricevesse nuovi rinforzi, chiedeva a Carlo Alberto quattro
battaglioni di truppe regolari con quattro pezzi d'artiglieria. Le sue istanze
non erano ascoltate; dopo lungo domandare, gli veniva detto che il governo provvisorio
di Milano, non volendo in quelle posizioni più oltre agire, gli ordinava si
apprestasse a portarsi a Brescia colle sue genti per ricevervi una regolare
riforma. Così nel corso d'un mese, dì per dì, dalla cacciata di Milano degli
Austriaci, que' reggitori della pubblica cosa decretavano l'abbandono del
Tirolo, concedevano agio al nemico di raccozzare nuovi armati al di là delle
Alpi, lasciavano indifesa la Venezia, scoperto il Friuli, libero il passo del
lago di Garda per Brescia. Incredibile cosa, ma pur vera.
Anco la grossa guerra era
infrattanto condotta con molta lentezza. Dopo una assai prolungata inerzia,
parecchie scaramucce di avamposti si erano operate dai Piemontesi in sullo
scorcio d'aprile. Essi avevano infugati gli Austriaci da Villafranca e avevano
occupata quella terra. Pel giorno 30 si decideva di dare una battaglia. Mentre
il generale Bes vigorosamente avrebbe respinto il nemico dai villaggi di
Pacenzo e di Cola, il generale Broglio avrebbe marciato verso Santa Giustina e
Pastrengo per impossessarsi di quelle posizioni; distruggere i corpi esciti da
Verona, e infine chiudere ogni comunicazione tra quella piazza e Peschiera.
Altre truppe venivano aggiunte in modo da formare un corpo di venticinquemila
uomini, che era affidato al supremo comando del generale Ettore De-Sonnaz.
Il 30 aprile era giorno festivo.
Il Re volle che, prima d'ingaggiare la battaglia, i soldati avessero ad udire
la messa, ciò che ritardò di molte ore i movimenti delle truppe. Tuttavia le
saggie disposizioni date dal De-Sonnaz, e il valore dei soldati riportarono
dappertutto completa vittoria. La brigata Piemonte, 3.° e 4.° di linea, era la
prima a misurarsi; essa spingeva il nemico, lo incalzava, lo proseguiva di
collina in collina; la brigata Cuneo, 7.° e 8.° di linea, comechè a rilento a
cagione del terreno accidentato, la imitava alla dritta. Pastrengo era preso
d'assalto con un entusiasmo senza pari. Gli Austriaci, disloggiati, si
riordinavano, e tentavano una vigorosa fazione sulla sinistra; e quel brusco
attacco poteva forse cangiare le loro sorti, se tre squadroni di carabinieri
non si fossero slanciati alla carica sulla collina, e non avessero colla forza
irresistibile dell'esempio trascinata a sè la fanteria. Allora gli Austriaci,
cinti da ogni lato, piegavano disordinatamente verso i ponti di barche
stabiliti a Pescantina e a Pontone. Battevano le quattro pomeridiane; senza
alcun pericolo si potevano inseguire i fuggenti, tagliare loro la ritirata, o
farne per lo meno un numero grande prigionieri. Ma Carlo Alberto, che, da
un'eminenza, aveva innanzi tutto assistito alla battaglia, e si era trovato
quindi, a vero dire, ne' più perigliosi punti, non seppe trarre profitto dalla
loro demoralizzazione, e si accontentò delle acquistate posizioni.
La giornata di Pastrengo fu la
prima battaglia campale, in cui gl'Italiani diedero saggio del loro valore e
dell'intelligenza nell'eseguire le disposizioni del supremo generale.
Tra le più note virtù che in
quel dì si appalesarono, noteremo il capitano d'artiglieria Paolo Riccardi, che
poneva in rotta un grosso corpo nemico, disponendo saggiamente e con molto
ardimento i suoi cannoni; — il maggiore Alfonso Lamarmora, il quale alla testa
di uno squadrone di lancieri e d'una mezza batteria a cavallo, infugava,
sgominandola, prima una colonna di fanteria nemica poscia altra di cacciatori;
— il capitano Delavenay, che con un piccolo drappello di granatieri savoiardi
si avanzava arditamente contro una compagnia di Austriaci, che avevano sorpreso
uno squadrone de' nostri, disposto in iscaglioni. Il nemico resisteva, egli lo
assaliva colla baionetta; e, afferrato il braccio del capitano, lo faceva
prigioniero co' suoi. Ufficiali e soldati morirono da prodi. Cadde tra i più
cari e rimpianti il giovane marchese Gerolamo di Bevilacqua, da Brescia, ricco
di dovizie e di amor patrio, pochi dì prima assunto al grado di ufficiale nel
reggimento di cavalleria Piemonte Reale; egli cadde mentre già i nostri
gridavano vittoria. Avuto il comando dal suo capitano d'infugare un nodo di
nemici, egli si slanciava furiosamente alla testa de' suoi soldati, e,
spiccando un gran salto per sopra una siepe, si dirigeva verso il cimitero di
Pastrengo. Il fatto era coronato di lieto successo, non era morto che un
trombettiere. Imperocchè gli Austriaci lasciavano la riva destra dell'Adige, e
i Croati, rannicchiati dietro una cascina posta sopra un poggio, erano stati
obbligati a snidar di colà per la maestria delle artiglierie nostre, le quali
avevano smantellato quel riparo. E ad uno di codesti Croati, mortalmente ferito
vicino ad un albero, Bevilacqua si avvicinava appunto per pietà guerriera e per
dirgli di rimanere pur tranquillo in potere degl'Italiani. Esso avvicinavasi
con un sentimento di benevolenza; ma l'altro, scaricandogli contro
l'archibugio, che carico aveva fra le gambe, freddamente l'uccideva. Così a 25
anni moriva per la causa italiana Gerolamo Bevilacqua, lasciando di sè
ineffabile dolore nella famiglia, desiderio perenne negli amici, nella storia
il nome di un Martire.
La forza santificata dal diritto
respingeva sui campi lombardi la forza compagna alla violenza ed
all'oppressione. I casi della prima trovavano un eco sopra ogni labbro, sopra
ogni pagina di giornale, e destavano un palpito di sublime fierezza entro ogni
cuore italiano. Ma sollevando il pensiero all'altezza dei tempi progrediti,
possiamo asserire che le vittorie riportate dai nostri sull'austriaco non
valevano quelle apparentemente più modeste, che riportavano su loro medesimi,
vogliam dire su quell'istinto naturale che ci spinge a lavare l'offesa colla
vendetta. Mentre da una parte si sapevano i crudeli trattamenti a cui venivano
sottoposti i nostri prigionieri, noi siamo lieti di contrapporre al quadro
dolente due episodi, non unici, durante quella campagna.
Nella battaglia appunto di
Pastrengo i due eserciti erano travagliati da un'ardentissima sete. Ricacciati
gli Austriaci dappertutto, alcuni dei nostri erano giunti a procacciarsi una
secchia d'acqua, e vi stavano affollati intorno, avidissimi d'immergervi le
riarse labbra. Ma una voce si sollevò: «Portiamola ai prigionieri.» Tutti
applaudirono al generoso invito, e gli Austriaci non tardarono ad essere i
primi a spegnervi la sete. Il primo Bonaparte fu applaudito quando, salutando
un convoglio di prigionieri, sclamava: Honneur au courage malheureux! Ma
noi abbiamo ferma credenza che il fatto dei nostri si lasci di gran lunga
addietro la vantata generosità del saluto e del detto dell'imperatore dei
Francesi.
In quella medesima fazione,
ricercando alcuni dei nostri nella giberna d'un prigioniero, ed affrettandosi
questo a dar di mano alla borsa per offrir loro alcune swanzighe, gli
venne risposto: «Tienti il tuo danaro, noi non sappiamo che farne, vogliamo
soltanto le cartucce.»
Mentre gl'Italiani dalla mente
immaginosa e poetica cantavano inni a gola piena sulla riconquista della
patria, quasi attendendo il rinnovamento di que' prodigi registrati nella
storia degli Ebrei, il generale Nugent, quello stesso che un anno dopo moriva
sotto le mura di Brescia, alla testa d'un corpo d'armata valicava senza
ostacolo l'Isonzo, muovendo per alla volta di Palmanova. Erano 20,000 uomini
che il ministero di Vienna aveva potuto radunare e spedire in Italia durante le
incertezze di Carlo Alberto e gli errori del governo di Lombardia.
Oh! se quel re, serbando le
mitezza dell'animo per tempi più lieti, si fosse mostrato capace di risoluzioni
forti ed ardite! Se i generali, meglio scienti di quanto valessero, non
avessero abbracciato ogni mezzo per ispegnere il primo entusiasmo, nè gettato
il discredito sull'insurrezione popolare! Oh almeno, se gl'Italiani tutti
adatti alle armi, invece di farsi abbagliare da mendaci propositi, fossero
sorti alla voce dell'onore ed avessero avviluppato e ristretto gli stranieri
entro una cerchia di baionette, l'Italia sin d'allora si sarebbe costituita;
avremmo Roma e Venezia; Nizza e Savoia non sarebbero state vendute, e non
saremmo all'arbitrio dell'uomo del 2 dicembre.
La fortezza di Palmanova era
presidiata da un buon nerbo di difensori lombardi, veneti e piemontesi; ciò
saputosi dal Nugent, stimando che lo Zucchi, lor comandante, si sarebbe battuto
sino all'estremo, volse le sue genti perso Udine. Presidiavano questa città due
compagnie di fanteria; 500 civici mobilizzati, parte con fucili da caccia,
parte armati di lancie; una compagnia di granatieri mandati da Venezia
senz'armi, e pochi artiglieri di marineria con quattro cannoni da 6. E questo
pugno d'Italiani, sprovveduto d'ogni argomento di guerra, teneva per sei ore
continue testa alle falangi austriache, e le fugava con non lievi perdite.
Cresciuto l'animo nei civili, volevano esporsi ad una sortita che dalle
autorità municipali e dall'arcivescovo non era assentita. Durante la notte i
reggitori del paese, presi da paura, vilmente cedevano al nemico; e i
cittadini, nel leggere, in sull'alba dell'indomani, affisso pei canti il turpe
trattato, ad imprecare contro i traditori del paese, a sottrarre le armi e le
robe alla cupidigia nemica, e a fuggire il loco natio per non cader vittime
della vendetta dei fortunati.
Nugent non imitava punto la
moderazione e la lentezza dei nostri generali. Esso opprimeva, taglieggiava,
spandeva dappertutto il terrore, e proseguiva la sua corsa verso il
Tagliamento. Il ponte era quivi troncato per un quarto della sua lunghezza; ma
egli lo traghettava su piccole barche. I volontari della libertà e le scarse
truppe, che difendevano la sponda, dopo breve resistenza si ritiravano,
contando far mano non sulla Livenza, ma sulla Piave.
In Treviso si adunavano, oltre i
volontari, un migliaio d'uomini di truppa regolare, e due legioni di egual
numero, una delle quali comandata dal conte Livio Zambeccari, di Bologna. Poco
lungi stavano i settemila pontifici e diecimila volontari di Roma, delle
Marche, dell'Umbria, i primi guidati da Durando, da Ferrari i secondi.
Quelle schiere non potevano
bastare ad infrenare i passi di Nugent, che, giunto d'improvviso a Conegliano,
aveva spinti i suoi avamposti sulla riva sinistra del fiume. Soprammodo
difficile è la difesa di una tal naturale barriera; impossibile quando si hanno
di contro forze di molto superiori, e una lunga linea da sorvegliare.
Il generale Durando ne aveva una
lunghissima dal Cadore alla Foce e colle poche sue truppe. Laonde dava soltanto
quelle disposizioni che avessero potuto, non già respingere, ritardare almeno
le operazioni di un nemico abile e forte. Il Nugent esitava qualche giorno in
Conegliano e in Oderzo; distaccava armati a Ceneda, a Serravalle, e spingeva
nodi dei suoi sino a Mel sulla Piave; finalmente, udendo come i Romani si
avanzassero, cacciava un grosso corpo tra Belluno e Feltre, dirigeva tremila
uomini sulla prima città senza incontrare opposizione, e faceva lo stesso
sull'altra che, senza condizione veruna, pur gli apriva le porte. Durando
ripiegava su Bassano affine di asserragliare la valle del Brenta; e siccome il
nemico, perseguendolo da Feltre, non aveva che due strade, quella di Primolano
e l'altra di Pederoba, poneva mille e duecento uomini nel primo paese,
ritenendosi seco tremila; l'altro era custodito dai Romani di Ferrari, il quale
era in Montebelluna e in Narvesa col principale nerbo.
Nugent, che aveva frastagliate
le sue schiere pei paesi rioccupati, mandava quattromila nelle due strade. In
Pederoba fu breve la resistenza; le truppe ripiegarono sopra Cornuda, ove
Ferrari si recava sollecitamente con tremila uomini. Le truppe di Nugent
attaccava quel generale la sera dell'8 maggio; e le milizie civili, comechè
nuove alla guerra, resistevano intrepide al tempestare delle bombe e dei razzi e
all'impeto della cavalleria. La notte poneva fine al combattimento; ma l'alba
appariva appena, che gli Austriaci lo riaccendevano; e i nostri lo sostenevano
con maraviglioso ardire. Nelle prime, file, esempio di raro coraggio, era il
Gentiloni di Filottrano, che i compagni animava colle parole e cogli atti. Il
Ferrari aveva, durante la notte, spediti messaggi premurosi al Durando,
pregandolo di accorrere subito. Questo generale per lettera gliene dava
assicurazione; dicendo che le sue truppe si sarebbero incontanente poste in
marcia per Crespano; e i volontari, certi d'un pronto soccorso, tenevano fermo,
mentre la morte mieteva molti di loro, tra cui l'aiutante maggiore Danzetta,
operosissimo e prode. Poco oltre il mezzogiorno giungeva altra lettera del Durando,
la quale diceva queste ormai celebri parole:
«Generale — Crespano — Vengo
correndo. — Durando.
Ma il Durando non venne. In
tutta la campagna quel generale cercò sempre di sfuggire gli Austriaci, tenendo
una condotta delle più inesplicabili e senza scuse; eppure egli andò impunito;
poichè, vuolsi, gli fosse tenuta buona la discolpa, di avere seguite le
istruzioni del governo di Roma al cui stipendio era dal 1847, cioè da quando i
Romani vollero ufficiali piemontesi pel riordinamento delle loro milizie.
Nugent infrattanto era venuto
sempre più rinforzando le sue posizioni con nuovi battaglioni; e tuttavia le
milizie nostre avevano tenuto fermo; ma svigorite dalla veglia della notte
precedente, dal continuato combattere, dal digiuno, e non vedendo a giungere i
soccorsi, esse cominciarono a diradare il fuoco e a cedere il terreno. Allora
Ferrari comandò si effettuasse il movimento di ritirata. Erano le cinque e un
quarto pomeridiane. La marcia fu ordinata, se non tranquilla. Gli Austriaci,
che avevano patite di molte perdite, non osarono inquietarle.
I nostri giunti a Montebelluna,
non trovandovi truppa stanziale, gridarono ad alta voce essere ingannati dal
Ferrari, traditi dal Durando, venduti al nemico; e tanta paura e tanto
disordine entrò in quelle legioni, che pocanzi avevano sì gagliardamente
combattuto, che, sciogliendo il freno della disciplina, si diedero a fuggire
verso Treviso. Fu giuocoforza al Ferrari seguire le improntitudini dei suoi e
col resto della sua divisione abbandonare la Piave. Egli sperava confortare gli
animi, contenere la corsa, riordinare i volontari, e riprendere Montebelluna
prima che il nemico potesse occuparla. Senza porre tempo di mezzo, egli
partecipava i lamentevoli eventi al Durando acciò lo soccorresse; scriveva al
generale Guidotti di difendere colla sua brigata i posti occupati, o si
ritirasse su quel punto che stimasse il migliore; ed eguale ordine trasmetteva
al colonnello Gallieno. Inutile cura; il primo si poneva ad eseguire delle
marce e contromarce a suo talento senza recare soccorso al compagno; i secondi
erano già in marcia precipitosa verso Treviso. Veduta ormai vana ogni
resistenza, Ferrari dirigevasi anch'esso per quest'ultima città.
Il Nugent, non trovando
opposizione veruna da parte di Durando, e degli altri corpi, muoveva le sue
genti per a Treviso in tre punti diversi, Il Ferrari dava disposizioni per la
difesa; ma alcune sue truppe, andate in ricognizione sulla via di Spresiano,
sorde alle voce del dovere e dell'onore, allo apparire degli Austriaci, ripiegavano
in tumulto per colpa di alcuni capi, a cui il governo di Gregorio XVI aveva
dato gradi supremi in grazia di turpi e nefandi meriti. Quel fatto
demoralizzava sempre più le schiere stanziate in Treviso ed in ispeciale modo i
papalini. Per cui Ferrari, radunato sollecito consiglio, proponeva di lasciare
nella piazza un presidio di 5,000 uomini, i migliori che avesse tra i
granatieri, i reggimenti de' volontari e i corpi franchi, e trarre seco il
rimanente, di notte per la via di Mestre, la sola sicura. Ma il grosso delle
sue genti, preso dal timor panico — malattia contagiosa che così facilmente si
apprende nelle giovani schiere di recente battute — non voleva partire
adducendo a ragione non voler commettere una viltà coll'abbandonare un paese
che il nemico stringeva come d'assedio. Oltre a ciò, un forte nodo di giovani
trevigiani asserragliava la porta della città per impedirne la uscita.
L'indomani, dodici maggio, venne ritentata la prova e riescì; il colonnello
Lante rimase a comandante la piazza colla guarnigione di sopra accennata; la
popolazione, sommante a quindicimila abitanti, pareva animata dal più nobile
ardore; e la città circondata da muraglie era per lungo tratto inaccessibile a
cagione delle paludose sponde del Sile. Facevano parte eziandio del presidio
trecencinquantuno Italiani di tutte provincie, venuti da Parigi a Genova, con
armi ed a spese del governo provvisorio di Francia e guidati da Giacomo
Antonini, di Novara, capitano nelle napoleoniche schiere; colonnello in quelle
della Polonia; eletto poi dai suoi, generale; uomo valente, arditissimo; ma di
poco ingegno e di non specchiata moralità.
Il corpo del Nugent era in buona
parte composto di Transilvani e Croati, gente brutta, ingorda e ladrona, uscita
dalle povere sue contrade per far numero e forza, ed opprimere con ogni
crudeltà, con ogni preda il paese infestato da' suoi passi. E' campeggiavano
sui prati tra Visnadello e Fontane, e spingevansi qua e là a drappelli, rubando
nei vicini villaggi. Lo stesso giorno che il Ferrari si dirigeva per a Mestre,
il generale Guidotti, col moschetto alla mano, quasi semplice milite, volle
fare una sortita coi pochi che consentirono seguirlo. «Soldati, aveva detto, il
generoso italiano, il primo posto del pericolo è quello dei vostri generali;
noi non vi diciamo di avanzarvi inverso l'inimico, vi diciamo soltanto di
seguirci.» Ciò detto si slanciava solo in mezzo alla via, a pochi passi dagli
Austriaci; e per tre volte faceva fuoco sull'oste vicina, con ardimento che è
quasi incomprensibile al coraggio umano. Rotto il cuore dall'angoscia, voleva
morire. Invano Ugo Bassi il raggiungeva a cavallo per esortarlo a non esporsi a
certo pericolo. Egli fu irremovibile, e gridò ancora: Vincere o morire!
Nè fu lontano l'avveramento del presagio. Colpito in mezzo alla fronte, cadde
riverso sul terreno, e le sue ultime parole suonarono: Italia e libertà.
Un grande cittadino perdette la patria, e un guerriero fortissimo l'esercito
romano. Guidotti portò in cielo intemerata e bella la palma del martirio.
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