V.
La pubblica opinione aveva già
mormorato sull'inutile tentativo fatto sopra Peschiera. Il ministero muoveva
istanze perchè le mosse offensive si continuassero; i gazzettieri prorompevano
in biasimi più o meno aperti, a seconda del partito a cui appartenevano, sulle
cose operate cotanto a rilento, sulla persona che le dirigeva, e sul nessun
pro' ritirato dalla vittoria di Pastrengo. Carlo Alberto leggeva que' fogli,
entrava in gravi pensieri, e ordinava che l'esercito uscisse dall'incriminata
immobilità. Alcuni segreti messaggi spediti da Verona al quartiere generale,
davano speranza che gli abitanti di quella città sarebbero insorti all'apparire
dei nostri nelle vicinanze; dicevano altresì che cinquemila Lombardi avrebbero
disertato; ed aggiungevano che le truppe ungheresi, conscie di ciò che accadeva
nella loro patria, non avrebbero preso parte al combattimento.
Il Re, a quelle voci, senza
molto precisare il come ai capi delle schiere, comandava si eseguisse
l'indomani, 6 maggio, una ricognizione offensiva sotto Verona. Nelle prime ore
del mattino, le truppe si mossero dai rispettivi campi di Pastrengo e di Goito,
o s'avanzarono scaldate da molto entusiasmo. Le due genti s'incontrarono vicino
al villaggio di Santa Lucia, da una parte e dall'altra si combattè con impeto
grande. I nostri furono sempre vincitori; ma il Re, vedendo che niun movimento
avveniva in Verona per parte dei cittadini, ordinava verso sera la ritirata.
Cotesta impresa, malamente
diretta e senza assieme, senza la menoma conoscenza del terreno, con uno spreco
di sangue, come se da essa avessero dipenduto le sorti supreme d'Italia, colmò
di stupore il nemico, il quale tolse un'alta idea del valore italiano, e
impensierì i nostri sulla imperizia dei capi e sull'imprevidenza del corpo sanitario.
Un migliaio di soldati d'ogni
grado e d'ogni arma rimase fuori di combattimento. Perirono tra gli altri
gloriosamente il colonnello del 5.° fanteria, cavaliere Ottavio Caccia, il
quale, traforato il petto da una palla, proferì negli estremi singulti: «Come
io sono felice di morire per la mia Italia!»; il luogotenente dei cavalleggieri
Aosta, cavaliere Alfonso Balbis di Sambuy; il marchese Carlo Del-Carretto,
spento sul cannone di cui dirigeva il fuoco; il marchese Pietro Colli, pur
ufficiale d'artiglieria; il tenente nel 5.° reggimento Bernardino Polombella,
ed altri molti.
Possano presto gl'Italiani
alzare in Santa Lucia una pietra monumentale a tutti i nostri fratelli, i quali
vi caddero colla spada alla mano per la libertà d'Italia. Allora scomparirà la
lapide che il 6 maggio dell'anno 1858 fece lo straniero collocare nel cimiterio
a perpetuare la memoria di que' fra i soldati del reggimento Sigismondo, che
perirono in quella fazione; e tanto più che quella pietra rammenta una vergogna
nostra: que' soldati erano italiani combattenti per la tirannide!
Fra i fatti parziali in quel dì
operati, vogliamo ricordare quello del soldato Descamps dell'artiglieria a
cavallo, il quale rimase al suo posto, comechè una scheggia di mitraglia gli
avesse strappate due dita; — quello del capitano d'Yvoley, il quale, non
curando una grave ferita già riportata, continuò a combattere sino al punto in
cui un altro proiettile venne a fracassargli l'osso della gamba. Vogliamo
ricordare altresì l'atto generoso e pio del tenente di Loc-Maria, il cui cuore
nella ritirata fu scosso alla vista di parecchi soldati giacenti sul campo alla
mercè de' Croati; ond'egli, con pochi de' suoi, malgrado il grandinare delle
palle, li raccoglieva e li faceva salvi per tempi migliori.
Alcuni giorni prima della
fazione di Santa Lucia, i Toscani, dilatando il campo d'operazione sino al
villaggio di San Silvestro a due miglia da Mantova, avevano, presso Chiesanova,
ingaggiato il fuoco con parecchie compagnie ungheresi del reggimento Gyulai. La
ricognizione era diretta dal magg. Belluomini, vecchio soldato che le nevi di
Russia avevano risparmiato all'Italia. Breve fu la resistenza; i nemici vennero
presi ed infugati; ed alcuni ardimentosi giovani li inseguirono sin sotto le
mura di Mantova. Due giorni dopo, essi ricomparvero in numero di mille contro
gli avamposti di San Silvestro; da cui ben presto volsero ignominiosamente le
spalle; e in numero di duemila contro il campo di Curtatone; quivi si trovarono
a fronte del secondo battaglione del 10.° di linea napoletano, che, gittando
grandi urli, si cacciarono loro addosso. L'avanguardia austriaca si pose a
fuggire; ma in quell'istante sboccarono da una prossima via altri uomini in
colonna serrata, aventi veste di velluto e cappello piumato alla foggia dei
volontari lombardi, i quali, preceduti da una bandiera tricolore, andavano
gridando: «Viva Pio IX! Viva l'Italia!» I Napoletani ed i Toscani li
stimarono fratelli, risposero al gradito saluto, e corsero per abbracciarli.
Allora quegli sciagurati scoprirono un pezzo d'artiglieria, diedero fuoco e
fuggirono precipitosamente. I nostri li rincorsero per trarre vendetta di sì
nero tradimento. Quella mancanza di lealtà è degna di vili assassini e non di
soldati. Ma da quelle orde che insozzano l'Italia ne abbiamo veduto a
commettere di peggiori.
La Valtellina, ricca di belle
tradizioni, manifestò essa pure il suo entusiasmo per la causa nazionale. Ma
non a sole parole si limitò quell'entusiasmo. Le nevose giogaie dello Stelvio
furono presidiate da quei generosi e gagliardi valligiani. Infrattanto che
avvenivano i fatti per noi narrati, varie fazioni ivi pur ebbero luogo; e le
compagnie Lavizzari e Arrigosi sostennero sempre glorioso il nome italiano. Da
tutte le relazioni che abbiamo sotto gli occhi risulta che que' prodi figli
delle Alpi combattevano ad un tempo e le bufere alpine e la rabbia tedesca, e
sopportavano i disagi di quegli inospiti siti con una fermezza che altamente
onora il loro nome.
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