VI.
Quelli che reggevano la cosa pubblica
in Toscana non avevano aggiunto altre truppe alle già spedite pel blocco di
Mantova. Cotesta città ne chiedeva ben altro numero di quello che ivi era. Le
frequenti scaramucce poi che esse sostenevano coi drappelli, che uscivano dal
forte per provvedere profende e vettovaglie, l'aria malsana dei luoghi andavano
giornalmente diminuendole. Il giorno dieci maggio, venuto l'ordine dal
comandante il primo corpo d'esercito di riprendere le primitive posizioni di
Curtatone e di Montanara, il battaglione di linea, sotto la guida di Ferdinando
Landucci, veniva vigorosamente attaccato presso Rivalta da trecento Tirolesi. I
Toscani, comechè pochi, li respinsero sino a Curtatone. Il Landucci, sempre
primo alla mischia, combatteva con estremo ardimento. Uccideva colla pistola un
nemico, che nella lotta lo stringeva per farlo prigione, si difendeva colla
sciabola da altri assalitori, ma riportava mortale ferita, e moriva alle Grazie
dopo sette giorni, mostrando sia nel combattere che nel novissimo istante del
viver suo animo ben temprato e italianissimo. Fu nella chiesetta delle Grazie
che il fiero e cittadino sacerdote Giambastiani, cappellano militare, ne disse
l'orazione funebre, e il capitano dello stato maggiore, Enrico Mayer, notissimo
letterato e cittadino di Livorno, ne dettò una bellissima iscrizione.
Il giorno 12, Gorzkowky ordinava
ai campagnoli, che abitavano presso la città, che disloggiassero immantinente e
si riducessero nell'interno. E l'indomani, poco oltre il mezzogiorno, quel
generale spingeva numerose colonne con molta artiglieria verso Montanara, San
Silvestro e Curtatone. Il colonnello Campia faceva quivi una gagliarda
resistenza, sapendo trarre profitto del valore dei nostri artiglieri, diretti
dal Niccolini e dal Mossele, della giustezza dei tiri dei bersaglieri volontari
e dei Napoletani civili; i quali continuamente respinsero le barche armate,
mostrantisi minacciose sul Mincio. In quella mischia erano feriti Cesare
Rossaroll ed Enrico Poerio.
Trovavasi a caso nel campo, per
ispezionare le scarse truppe, il ministro della guerra, De-Neri Corsini; egli
volle assistere a cavallo a quella fortunata fazione.
Il colonnello Giovannetti alle
grida di Viva l'Italia! attaccava il nemico sulla fronte di Montanara.
Il generale De-Laugier sosteneva con due compagnie la posizione avanzata di San
Silvestro. Il Giovannetti, approfittando dell'altezza del grano e della boscata
delle vigne, assaltava di fianco gli Austriaci, che ripiegavano sino al
camposanto; finchè, infugati da tutti i punti, si ritiravano nelle turrite
mura, seco trascinando parecchie carri di feriti e di morti. Pochi furono i
prigionieri fatti; ben più i disertori, dai quali seppesi la gravità delle
perdite sofferte dall'oste nemica.
In quella fazione si distinsero
il Lazzeretti, il Carminati, il Peckliner, il Michelazzi, il Simoncini, il
Bresciani, il Carchidio, il Geri, il Zanetti, il Molli, il Renard, il
Barzacchini, il Parra e molti altri. Noteremo pure il fatto d'un granatiere,
che merita di essere ricordato. Questi, che il soverchio dell'audacia aveva
lasciato solo in mezzo ad un drappello ungherese, veniva tolto prigione ed
avviato verso Mantova. In una rivolta, côlto il destro, faceva cadere un
nemico, l'altro disarmava ed uccideva, il già caduto malamente feriva, e colle
armi tinte del sangue straniero, ritornava fra i suoi.
——
Noi ebbimo ad accennare
all'improvvido richiamo dei volontari dal Tirolo. Essi rientrarono in Brescia
laceri e scalzi; pochi erano i forniti di cappotti o di mantelli; e quella
povertà di vestiti, que' visi incotti dal sole ed emaciati dai patimenti;
quell'andare spavaldo, che assume comunemente chi ha sacrificati i propri
interessi e rischiata la vita a pro della patria in faccia a coloro che
cooperano coi soli voti a quei sacrifici e a que' rischi, invece di renderli
bene accetti alla popolazione, li faceva malvisi ed insultati. Domandarono di
far parte dell'esercito regolare; e la domani erano passati in rassegna dal
colonnello piemontese Cresia. Quell'ufficiale, anzichè parlar loro d'Italia,
della santa guerra combattuta, pronunciò parole enfatiche sul Piemonte, su
Carlo Alberto, sulla disciplina dell'esercito regio. I volontari, a que' detti,
risposero tumultuariamente che essi volevano bensì combattere, ma per l'Italia
tutta, e non agli ordini di un re. E al grido di Viva il Re promosso dal
Cresia, risposero con Viva la Repubblica! Il governo provvisorio seppe
tuttavia rappattumarli; li vestì convenientemente, li ordinò alla meglio, e,
postili sotto gli ordini del generale Durando, fratello all'altro che trovavasi
alla testa delle truppe papaline, li dirigeva pel Caffaro a trattenere l'impeto
dei nemici tra i claustri delle Alpi.
Gli Austriaci campeggiavano in
Vai di Ledro; essi sapevano che que' volontari, per naturale incuria, mal
custodivano i loro posti, e che nei dì festivi si davano tempone, per cui
l'indomani giacevano briachi e bisognosi di quiete.
In sull'albeggiare del 22
maggio, i nemici, silenziosi si avanzarono verso i nostri. I primi a vedere le
colonne austriache furono i volontari di Beretta e quelli d'Anfossi, i quali si
davano a precipitosa fuga. Fortuna volle che il tenente Guerini tenesse fermo
colle sue artiglierie e rispondesse al cannoneggiare e alla fucilata del
nemico. Il generale, avvisato a Vestone del disastro, accorreva col suo stato maggiore.
In Sant'Antonio s'imbatteva nei fuggenti; egli snudava la spada, minaccioso li
incalzava, e, spingendo gli uni sugli altri, riusciva a riordinarli.
Luciano Manara, avvertito
anch'esso a tempo, muoveva co' suoi da Salò, toglieva seco le guide del Tirolo,
comandate da Thannberg, e, passando per Rocca d'Anfo, si riduceva a
Sant'Antonio, ove la via si biforca, l'una scendendo al palazzo del Caffaro,
l'altra ascendendo al monte Suelo.
La mischia ricominciava e durava
due ore; finchè il soperchiante nemico, portatosi sul fianco sinistro lungo le
pendici, rendeva dubbia e micidiale la difesa del Caffaro e di Lodrone. Il
colonnello Monti, capo di stato maggiore, disegnava allora di occupare
sollecitamente le alture del monte Suelo, le quali, dominando la valle, offrono
la chiave di tutta quella linea. Ciò fatto, gli Austriaci, che alla lor volta
pur vi salivano, venivano cacciati al basso. Una legione, ch'erasi arditamente
avanzata sullo stradale di Rocca d'Anfo, fulminata dai nostri, dovette
rivalicare il fiume, ove parecchi annegarono. Un'altra, che, presa la via
montana, la quale da Lodrone conduce a Bagnolino, minacciava pur sempre la
nostr'ala sinistra, veniva respinta anche da questo lato dal secondo
battaglione del reggimento bresciano, accorso frettolosamente da Ricco-Massimo.
L'azione durò sino al declinare
del sole colla perdita di venti de' nostri tra morti e feriti; e lasciato Val
Bona, il Durando rimaneva nei conquistati quartieri di Sant'Antonio e di San
Giacomo sul monte Suelo.
Infrattanto Carlo Alberto aveva
abbandonato il suo quartier generale per assistere al bombardamento di
Peschiera. Cinque pezzi del forte furono smontati, e un violentissimo scoppio
avvisava l'incendio di una piccola polveriera del forte Mandella. Diversi punti
della città erano in fiamme. Il Re, mosso dalla pietà per quegli abitanti,
mandava il maggiore Alfonso La Marmora a proporre onorevoli accordi al
comandante della cittadella; e siccome al suo lato cadevano a furia le palle
nemiche, un uffiziale di stato maggiore se gli accostò per dirgli: «Maestà, la
vostra vita è in pericolo qui; non è egli questo un posto per voi.» Ed egli
preoccupato e distratto forse dalla sorte dei miseri, che dimoravano nella
città assediata, rispondeva: «È vero: eccolo!» E spronando il cavallo lo
arrestava venti passi più oltre. Intanto il La Marmora tornava colla risposta
del general Rath, il quale aveva detto, che la breccia non essendo pur anche
aperta, nè le munizioni esaurite, non poteva senza mancare all'onor militare
consegnare il posto che gli era stato affidato. «Vi rimanga finchè il suo onore
sia salvo» rispondeva Carlo Alberto; ed ordinava per l'indomani si attivasse il
fuoco di tutte le batterie.
La direzione suprema
dell'assedio era stata affidata al duca di Genova, secondogenito del Re,
giovane istruito, valentissimo e assai bene amato dal padre suo, e
prematuramente tolto all'Italia; il generale Chiodo comandava il corpo
degl'ingegneri, il generale Rossi l'artiglieria e il generale Federici la
quarta divisione che assediava la cittadella.
Verso il 15 di maggio, il
generale Nugent aveva tentato e tentava ogni prova per far sì che Durando
lasciasse le sue posizioni dietro la Brenta, e accorresse alla difesa di
Treviso e de' miseri abitanti delle vicinanze, i quali dagli Austriaci erano danneggiati
a tutta possa; ma quegli indovinando la segreta cagione di tanti eccessi, si
ristava immobile e vigilante. Non però molto, chè cedeva alle vive dimostranze
del governo di Venezia.
Pauroso delle sue sorti per la
voce che il nemico volesse ad ogni costo occupare Treviso, per aver libera la
diretta via di Udine a Verona, e così stringere dappresso la città della
Laguna, Durando, cedendo in mal punto, si portò da Piazzola a Moriano, e di là
a Quinto per passare il Sile, e attaccare di fianco il nemico, che il presidio
della città avrebbe combattuto di fronte. Gli era per l'appunto ciò che il
Nugent agognava; imperocchè appena ebbe sentore delle altrui mosse, tolse il
campo, e per Castelfranco e Cittadella avviossi per a Vicenza.
Durando era avvertito di quella
subita partita a Mogliano; dirigeva immantinente su Mestre la sua avanguardia,
comandata dal colonnello Gallieno, il quale nella sera del dì 19 giungeva per
la strada ferrata in Vicenza co' suoi tre battaglioni. Il giorno di poi, al
tocco, gli Austriaci si annunciavano a Lusiera col fumo degl'incendi. Un'ora di
poi il fuoco di moschetteria era vivissimo sulla prima barricata fuori la porta
di Santa Lucia; quindi, a porta Padova e a porta San Bortolo. Dopo cinque ore
di combattimento che a noi valsero la perdita di dieci morti e settanta feriti,
il nemico validamente respinto e inseguito, si ritirava sul suo corpo
principale. Il giorno dopo giungeva il Durando col resto delle sue schiere. Lo
avevano preceduto il generale Antonini colla sua legione, il colonnello
Cavedalis con una provvista di munizioni, ed il Manin ed il Tommaseo
espressamente venuti di Venezia.
La guerra contro Vienna era sì
santa; la inesperienza militare, il temerario eroismo, il valore frugavano
siffattamente le vene e i polsi de' nostri a non farli tranquilli e lieti che
nell'azione. Per acquietare tali brame, Durando permetteva all'Antonini di
muovere ad una ricognizione. E più tardi egli stesso esciva per sostenerlo
nella temeraria impresa colla colonna Galateo, le compagnie scelte degli
Svizzeri, uno squadrone di dragoni e quattro pezzi d'artiglieria.
Alla distanza di due miglia da
porta Castello il primo trovò un grosso corpo nemico, il quale proteggeva la
marcia di tutto il convoglio che aveva preso la via di Verona. Il combattimento
fu oltremodo ostinato e durò sino all'imbrunire. Perdemmo un centinaio d'uomini
tra morti e feriti; la colonna la più danneggiata fu quella dell'Antonini, il
quale, spintosi con molta imprudenza e bravura alla testa de' suoi sul
Bacchiglione, n'ebbe molti uccisi e annegati, ed egli il braccio diritto
portato via da un pezzo di mitraglia.
Nel ritirarsi di là per far la
congiunzione colle truppe di Radetzky, il generale La Tour Taxis, surrogante il
Nugent malato di febbre in Udine, scontravasi in San Bonifacio col maresciallo,
il quale era scontentissimo de' fatti suoi per aver con poca energia attaccato
Vicenza, posizione strategica ch'ei voleva possedere, come quella a cui fanno
capo tutte le vie del Tirolo e del Friuli, che menano all'Adige. Egli ordinavagli
di tornare indietro alla testa di 18,000 uomini e di quaranta pezzi
d'artiglieria.
Il generale Taxis giungeva a
Vicenza in sull'annottare del dì 23; e, senza dare riposo alle truppe, le
scagliava contro la città per impadronirsene di sorpresa. Alcuni posti
importanti cadevano in suo potere. Ma i 10,000 armati dell'interno, accorsi
frettolosamente, ne li ricacciavano colla punta dalle baionette. Oscura la
notte e tempestosa; pioveva acqua a dirotto; piovevano bombe e razzi anche a
dirotto, che danneggiarono parecchi edifici ed in particolare modo quello della
Posta, ove un proiettile caduto nella camera abitata dal generale Antonini, al
quale avevano amputato il braccio, lo avrebbe ucciso con quelli che lo
attorniavano, se, scivolando dal poggiuolo della finestra, non avesse scoppiato
nella sottoposta corte.
All'alba, le artiglierie
vicentine collocate presso il casino Carcano, dominante il campo di Marte e la
stazione della ferrovia, venivano rafforzate da due pezzi delle batterie svizzere
dirette dal buon colonnello Lentulus, il quale ne smontò due all'inimico. Vano
il numero contro il valore de' nostri e la vigilanza degli abitanti, che
sfidavano ogni pericolo per ispegnere gl'incendi e per recar munizioni dovunque
abbisognassero. Verso le dieci ore del mattino, una sortita trovava debole
resistenza negli avversari; cadevano in nostro potere alcuni prigionieri, fra i
quali parecchi ufficiali. Già un distaccamento di veneti aveva occupato
Cittadella, ove trovavansi parecchi feriti. In sul mezzodì il fuoco era
interamente cessato e i più arditi inseguivano i Croati per più di sette miglia
verso Montebello, ove questi depositarono all'ospedale dodici carrettoni di
feriti; altri feriti coi morti li avevano posti qua e là nelle case di campagna
in prossimità del luogo della battaglia, e bruciatili al solito nella ritirata.
La nostra perdita sommava ad una settantina d'uomini fuor di combattimento;
quella dell'inimico fu calcolata quasi a due mila.
Un tentativo cotanto dannoso
impensierì il vecchio maresciallo senza punto indebolire la possanza dell'animo
suo. Egli guerreggiava una guerra sventurata e rea; ma aveva nelle file del suo
esercito capi, che non facilmente piegavano nelle avversità; le sue genti
imbaldanzivano nei ladronecci e nello sfogo di tutte le passioni. D'altra parte
scorgeva la nessuna sagacia militare ne' generali avversi, il nessun vantaggio
ritratto dall'empito, dalla destrezza e dalla intelligenza degl'Italiani,
assoldati o volontari, e la sfiducia e lo scoramento che la mancanza di buoni
ordini metteva in essi; notava la indifferente attitudine delle popolazioni
lombarde, tranne quelle che abitavano le città più cospicue, in faccia alla
nazionale rivoluzione, ed a' necessari effetti che ne derivavano; a furia d'oro
abilmente sparso in Milano aveva ordito una trama, da cui operava concertati
favori. Immaginò allora un'impresa arditissima, che, scambiando di un tratto le
sorti della guerra, poteva rifarlo possessore di tutto il paese perduto. I
rischi erano molti, siccome pur molte le probabilità di successo.
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