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Felice Venosta
I toscani a Curtatone e a Montanara

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  • VII
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VII.

 

In sulla sera del 27 maggio, Radetzky partiva da Verona con 35,000 uomini, una numerosa artiglieria e un traino da ponte, dirigendosi per l'Isola della scala. L'indomani a quell'ora istessa giungeva in Mantova, ed accampavasi presso San Giorgio. Durante il giorno, da Nogara e da Castellaro disertarono dugento soldati italiani allo incirca. parte con armi, parte no, e venuti in Sustinente e in Governolo presso il maggiore Fontana, tuttora stanziante coi Modenesi sulla sinistra del Mincio e del Po, a lui rivelarono il disegno del Maresciallo, cioè di piombare sulla divisione toscana e sterminarla; passare sulla ripa diritta del Mincio e distruggervi i magazzini ed i ponti; sgominare sulla linea le schiere piemontesi, e ripresentarsi trionfante in Milano, di cui i retrivi gli aprirebbero le porte, profittando dello scompiglio generale; lo accertarono che presso Rivoli stava forte nerbo di soldati per correre su Peschiera e chiudere il grosso dell'esercito di Carlo Alberto tra l'Adige ed il Mincio.

Fontana, senza porre tempo di mezzo, avvertiva delle cose udite il generale Bava, che allora stanziava a Custoza, e il generale De-Laugier, il quale aveva il quartier generale alle Grazie, e in pari tempo chiedeva istruzioni all'uopo. La legione modenese, comechè di molto assottigliata dalle malattie, dalla svogliatezza, prodotta da perverse mene e dall'inazione, isolata com'era e con poca speranza d'aiuti, pur era decisa a combattere e a tener saldo a qualunque costo.

Il foglio di Fontana trovava il De-Laugier già avvisato da Bava, il quale avevagli pur promesso un sollecito e valido soccorso. Il generale toscano, con pochissime truppe in paragone di quelle nemiche, non contando che 4,685 fanti, 100 cavalli, 6 cannoni e 2 obici sulla lunga linea da San Silvestro alle Grazie, senza precise istruzioni, senza precise promesse d'aiuti, sentiva di assumere una grande responsabilità. Ov'egli senza combattere si fosse ritirato su Goito, le più acerbe e più odiose critiche avrebbero il suo nome infamato. Aspettando di piè fermo gli Austriaci, esponeva i suoi ad un macello, ma salvava l'onore suo e quello della gioventù toscana pronta, come i soldati di Leonida, ad ogni sacrificio per l'Italia. De-Laugier decideva di star saldo.

È triste quanto glorioso il racconto della disperata lotta in cui durò quell'eletta gioventù; glorioso perchè dimostra quanto sia il valore italiano, infiammato dal santissimo amor di patria, dal sentimento d'indipendenza e di libertà; triste per le vittime, troppo chiare sventuratamente, che dovevano col sangue loro improntare nella storia quella indelebile pagina.

Il De Laugier, verso la sera del 28 maggio, riceveva dal Bava un altro dispaccio, in cui eragli detto, si apparecchiasse a difesa; e se malgrado ogni conato avesse dovuto cedere il terreno, si ritirasse in buon ordine verso Gazzoldo; indi, approfittando dei terreni tagliati, si conducesse sin sotto Volta, ov'era il suo corpo d'ordinanza.

De Laugier cominciò a dare le opportune istruzioni, ed intimò al maggiore Fortini, il quale aveva sparso il suo battaglione di volontari in Rivolta, a Sacca e a Castelluccio, di sorvegliare le sponde del Mincio, di distruggere al bisogno il ponte di Fossa Nuova e di difendere i ridotti dell'estremo paesello, per sostenere la ritirata ai compagni. Avvisò il Campia a Curtatone e il Giovannetti a Montanara di ciò che avrebbero dovuto operare tanto nell'attacco, quanto nella ritirata. Egli rimase alle Grazie con un solo obice; più tardi mandò anche quello col tenente Giovanni Araldi a Montanara, chiedendo di un pezzo da sei che non gli fu spedito.

Alle ore nove e mezzo della mattina del giorno 29 maggio, il nemico, forte di trentamila uomini con cinquanta pezzi d'artiglieria, inoltravasi pella strada di Mantova.

I bersaglieri dei volontari venivano tosto alle prese. Le nostre artiglierie rispondevano gagliardamente alle austriache. A Montanara e a San Silvestro, i liberi battaglieri, presso i quali l'ardente amor di patria suppliva al numero, saltavano le barricate e battevano allo scoperto.

De Laugier passava per di , e faceva richiamo al Giovannetti di tanta imprudenza. L'impavido colonnello rispondevagli: «Gl'Italiani debbono mostrare il petto al nemico. È viltà il nascondersi. Lasciamolo fare agli Austriaci

Infrattanto il capitano d'artiglieria Contri operava con una mano di cannonieri e di volontari un'ardita esplorazione sul fianco sinistro dei nemici. Egli s'incontrava con due battaglioni, ed apriva il fuoco ed il sosteneva per qualche tempo; alfine, non ricevendo aiuti, era obbligato a ripiegare. Ma, riforzato da due compagnie di fanteria, riprendeva la offensiva, e pel momento giungeva a discacciare la soperchiante colonna.

Il battaglione degli universitari, forte di duecento ottanta uomini, e comandato dal colonnello Melani, era stato posto come riserva a Curtatone. Se non che que' generosi, non resistendo al loro patriottico ardore, si cacciavano oltre il ponte, dove meglio ferveva la mischia, e rinforzavano i punti più ferocemente assaliti. Quivi moriva il capitano in quel battaglione Leopoldo Pilla, chiarissimo professore di geologia nell'Università di Pisa. Così tanti studi, tanta dottrina, tanto onore d'Italia distruggeva un colpo vandalico.

Nel centro non era meno l'entusiasmo. I razzi nemici avevano appiccato il fuoco ai cassoni delle polveri, e queste avevano orrendamente morti e feriti gli artiglieri e quanti erano vicini. Vedevi alcuni a correre sfigurati, dolenti, e strapparsi di dosso gli accesi abiti; altri, fatti anche più ebbri da quel supplicio, a surrogare alle riarse miccie i brani brucianti delle proprie assise, coi quali davano fuoco ai loro pezzi. Era ammirabile la condotta del caporale cannoniere Elbano Gaspari, il quale, rimasto solo in vita fra' compagni, rispondeva con tre pezzi d'artiglieria ai 22 degli Austriaci che aveva di contro; solo e ignudo per essersi dovuto togliere i panni che gli bruciavano addosso. Mirabile pure era la condotta dei due ufficiali sanitari, Zannetti e Burci, professori di molto nome, che avevano lasciato le loro clientele, gl'ingenti lucri, tutto per seguire nel campo la gioventù militante; il loro zelo operoso ove più ferveva la mischia ha pochi riscontri nella storia.

I promessi aiuti non giungevano; nessuno dei messaggeri mandati a Goito ritornava con liete notizie. La mitraglia nemica continuava a mietere spietatamente le file dei generosi; alle grida di entusiasmo era succeduto il silenzio, quel solenne silenzio indicante che quelli i quali combattono sanno di morire senza vincere.

Il De Laugier riceveva frattanto un foglio da Bava, in cui era detto che un reggimento di cavalleria era in Goito, che due altri erano poco lontani con una batteria di campagna, e che un'intera divisione di fanteria con due batterie accampavano a Volta. Il generale spediva un aiutante per chiedere un sollecito soccorso, e gridava ai suoi: «Coraggio, figliuoli, costanza; i Piemontesi non sono lontani

Il vigore si riaccendeva; si operavano prove d'indicibile eroismo. Il colonnello Chigi aveva una mano tronca da un colpo di mitraglia; pur lieto sorrideva, e, agitando in alto il moncone sanguinoso; sclamava: Viva l'Italia! Il Campia pur era ferito; molti ufficiali e soldati giacevano alla rinfusa morti o semivivi al suolo.

Battute le ali, battuto il centro, non giungendo soccorso veruno, era mestieri sgombrare il terreno. Senza riserve, senza artiglierie numerose, che valessero a tenere in distanza il nemico, era impossibile eseguire con ordine la ritirata. Le discipline erano infrante; le voci dei capi non venivano più udite. Ognuno, per naturale istinto di vita, cercava uno scampo. Il disordine e lo scompiglio erano da non dirsi.

Il capitano Malenchini giungeva fortunatamente a rannodare i suoi bersaglieri e qualche altro dei volontari, e teneva in rispetto l'irrompente nemico, il quale intendeva di tagliare la ritirata dalle Grazie.

Il professore Giuseppe Montanelli colle parole e cogli atti infiammava i compagni; e intanto che pietoso dava l'ultimo bacio di affetto ad un giovine amico, caduto morto a' suoi piedi, una palla lo feriva nella clavicola e cadeva. Il Morandini sorreggevalo, lo difendeva da un'orda di Croati, e veniva con esso lui tolto prigione; tenevano loro dietro in Mantova il Barellai e il Paganucci, giovani chirurghi, i quali, per mancanza di ambulanze, non avendo potuto salvare i feriti, vollero seguirli per aver cura di essi.

Bella prova di eroismo forniva l'aiutante Giuseppe Cipriani, il quale cedeva il proprio cavallo al generale De Laugier nell'atto che, stramazzato al suolo e calpesto dai suoi cavalieri in fuga, era per essere raggiunto da un drappello di ulani. Il Cipriani, uno dei gravemente offesi in Curtatone pella esplosione delle polveri, rimase sempre al suo posto; e comechè soffrisse moltissimo per la scottatura delle carni, fu uno degli ultimi a ritirarsi dal luogo del combattimento.

Passato il ponte, che era minato, le confuse schiere si riordinavano, e lentamente potevano procedere verso Goito, ove giunsero sull'annottare. Quivi, oltre al consueto presidio toscano e napolitano di 940 fanti, 14 cavalli e due cannoni, sotto gli ordini del colonnello Rodriguez, nessun altro corpo trovavasi. Che aveva detto e promesso adunque il Bava? Quel generale s'era infatto recato in Goito; ma era ritornato a Volta, senza mandare un soccorso ai fratelli, che, credenti nella sua parola, facevano sacrificio della vita, col combattere un nemico numerosissimo e fornito di tutto: speravano che i loro cadaveri avrebbero spianata la via a debellarlo completamente. Bava ritornava a Volta, e tranquillamente si poneva a contemplare col canocchiale gl'incendi e l'eccidio dei generosi Toscani. La storia ha già rimeritato quel generale della sua condotta.

Sguernite le posizioni delle Grazie e di Curtatone, Radetzky spingeva forti colonne ad investire quel pugno di eroi, che, con una ostinatezza senza pari difendeva ancora i ridotti di Montanara. Ma alla furia dei colpi e alle grida dei nostri, gli Austriaci credevano che fossero truppe fresche allora allora sopraggiunte, e indietreggiavano; era d'uopo agli ufficiali porsi alla testa delle colonne, perchè le loro schiere disanimate tornassero all'assalto.

Poco oltre le ore quattro, il generale Lichtenstein si avvedeva che i casolari della Santa erano sprovveduti di armati, e, marciando per quella volta, sboccava sulla via maestra, e minacciava alle spalle i compagni del Giovannetti. L'intrepido Toscano contrastava palmo a palmo il terreno, finchè, vedendo indebolite le sue file, e scorgendo farsi ognora più spessa l'onda nemica, avvertito pure che le altre linee erano già state abbandonate ordinava la ritirata. Appena passata la porta di Montanara, quel nodo di prodi vedeva dinanzi a chiusa la strada di Santa Lucia.

Il colonnello si teneva sulla destra coi Napoletani e coi volontari, e spingeva un reggimento in colonna dietro l'artiglieria per difenderla. La spessa mitraglia lo sgominava; i cannonieri anch'essi saltavano il fosso a dritta, e spargevansi pei campi; il solo tenente Araldi, comechè ferito, rimaneva al suo posto. Incitato dal Giovannetti a ritirarsi, rispondeva: «Un buon artigliere, quando non può salvare i suoi pezzi, muore su di essi.» E trascinava a braccia con sessanta volontari i cannoni nella cascina ov'erano deposti i feriti, e quivi proseguiva un fuoco micidiale contro il nemico per più d'un'ora, finchè, da varie parti gli Austriaci entrati nella cascina, e que' pochi uomini dopo una disperata difesa, ridotti a soli dieciasette, feriti tutti, egli rimaneva prigioniero. Giovanni Araldi sarebbe stato morto di baionetta nemica, se un ufficiale degli ungheresi, il barone Lazzarini di Fiume, vedendolo a cadere sul pezzo, non fosse corso a lui per salvarlo.

Dopo parecchi tentativi, e sempre combattendo, il Giovannetti poteva imboccare in una traversa, che l'introduceva sulla via di Castellucchio, da cui proseguiva co' suoi, trafelati e stanchi, il cammino verso Marcaria e San Martino.

Il nemico non potè menar gran vanto della sua vittoria, scorgendo delusa ogni preconcetta speranza. Soltanto quattro cannoni andarono perduti per mancanza di cavalli che li trasportassero. Le bandiere furono tutte salve. Gli ufficiali Lavagnini e Andreini, che, con un drappello di soldati d'ordinanza le avevano in custodia, cinti da ogni lato, presso a cadere prigionieri, ritolsero le insegne dalle aste, e, celatele sotto la divisa, religiosamente le spartirono in Mantova tra i compagni. E quando furono liberi mostrarono ai loro conterranei quelle onorate reliquie, come memoria d'un infelice destino e della loro intemerata fede.

Nella giornata del 29 maggio 1848, gl'Italiani non vennero meno a stessi. Ricordandosi che in quel medesimo giorno, nel 1176, i loro avi, pochi di numero, avevano in Legnano combattuto e vinto i soldati del Barbarossa, fecero prove stupende d'abnegazione e di valore. Per tre volte fu suonato a raccolta; indarno. Tutti fermi nel proposito di far vedere al nemico quanto valesse il braccio dei figli d'Italia, tutti volevano morire sul campo. Ma alla fine, pensando come fosse migliore serbarsi a successi più prosperi, frementi si ritiravano, lasciando sul suolo zuppo di sangue, lacere membra, morti molti e feriti, e molti prigionieri. E nella morte e nella prigionia non ismentirono il nome italiano. Tutti sino all'ultimo gridarono: Viva l'Italia. Molti di essi e per ingegno e per dottrina erano le più belle speranze della patria: v'erano avvocati, medici, professori, artisti, studenti, che formavano la parte più eletta delle città toscane. Morirono venticinque di Firenze, sei di Pistoia; altri di Livorno, di Pisa, di Lucca, di Montepulciano, di Massa, d'ogni terra: molti in battaglia, alcuni nella ritirata, altri nella prigionia; tutti fieri amatori della libertà della patria.

Accenniamo que' giovani immortali, che, come i trecento di Sparta, insegnarono ai superstiti che per vincere bisogna saper morire; li accenniamo per causa di venerazione, e per ricordare ai nuovi campioni il sangue che spetta le loro vendette. Che gl'Italiani si rendano degni di coloro che dai primi albori del nostro risorgimento, hanno con prove indefesse o continue preparato le vittorie della nostra libertà, che come gl'immortali di Dario hanno sempre presentato la stessa fronte al nemico, allora sì che il completo affrancamento della patria diverrà un fatto compiuto.

 

Leopoldo Pilla, professore dell'università di Pisa, nacque a Venafro, patria del celebre capitano Giambattista Della-Valle, primo scrittore italiano di fortificazione, il 20 ottobre del 1805.

Gli scritti e gli esempi paterni di certo instillarono nell'animo di Leopoldo i primi amori della scienza, cui aveva a recare tanto lustro e decoro, e più le avrebbe arrecato incremento e copia di trovati e di utilità, se gli fosse bastata la vita, se una vitapreziosa non fosse stata con tante altre generosamente e debitamente esposta per la salute e la libertà d'Italia. Ed a che giova la vita, la scienza e la gloria quand'è schiava la patria? Le provincie e i reggimenti di cavalleria sentivano il difetto dei chirurghi da mascalcìa; sicchè sorgeva in Napoli un collegio di coteste discipline, per educarvi numerosa gioventù. Colà faceva i suoi studi il giovine Leopoldo Pilla, già inviato nelle lettere dall'archeologo Cotugno, e nelle scienze fisiche dal chiarissimo Niccolò Cavelli, e ne uscì ornato di buoni studi in fatto d'Ippiatria, di Zoologia e di scienze naturali. Ma non si sentì chiamato all'arte pur generosa di ricercare, e sapere, e curare i mali gravi delle bestie. Per la qual cosa più e meglio si volse alla terra; e coltivando poi gli studi geologici, egli presto s'accorse che assai difficilmente ne avrebbe potuto trarre frutto di vita, voleva, anche potendolo, vivere delle discretissime entrate della sua casa, tanto più ch'altro fratello e due sorelle avevano bisogno di ricorrere al patrimonio. Non lasciando dunque da parte i suoi lavori prediletti, vi congiunse gli studi di medicina, come secondari in vero e come espedienti di professione. Infatti il primo suo lavoro è quello della vita scientifica del citato Cavelli, ch'ei lesse nell'Accademia Pontaniana l'anno 1830. faremo le maraviglie vedendo un giovane com'era il Pilla, promettitore di sicura ed eminente riuscita nelle scienze naturali, vivere negli ultimi posti de' medici militari d'un ospedale. Imperocchè generalmente negli eserciti e allora più in Napoli, tenendosi in maggior pregio la vita de' cavalli e delle bestie da tiro, si affidava la salute del soldato a giovani, o a praticanti di pochissimo valore. Pure il Pilla, al cui animo gentile ripugnava di certo un servigio, che non avesse egli potuto ministrare con tutte le forze dell'ingegno e dell'animo, preferì anche in quell'officio il ramo piuttosto dell'amministrazione e della statistica. E in questo suo intendimento potè essere viemmeglio confortato, dappoichè risaputasi la sua passione e la sua valentìa nelle cose naturali, il generale che comandava allora supremamente le milizie napolitane, ed era vago d'impinguare il patrimonio co' negozi dell'allume, dell'ossidiana, delle acque termali, de' cappelli di certa materia vegetale, consultava sempre il Pilla. Cotesta meritata e pesata protezione, non che la sua bella fama, la quale di in cresceva rapidamente, lo fecero eleggere fra quei professori dell'arte salutare e delle scienze naturali, i quali furono dallo Stato spediti in Vienna e nella Germania per istudiarvi la malattia venuta in Europa dalle regioni asiatiche, che desolò l'Italia e sovrappiù Napoli e Palermo.

I terreni meridionali fra' più ricchi d'Italia, richiedevano una gioventù studiosa de' naturali tesori; più erano que' tempi che l'Italia, e in ispecie la parte di mezzodì, potevasi contentare di tenere solo il campo dell'agricoltura e della pastorizia. Più non era stagione di esclusioni e di sapere privato, in cui chiamavansi i minatori sassoni e stiriani per aprire e coltivare le miniere di Calabria. Anche ai ministri meno veggenti si presentava il bisogno di avere non già per vanità e per pompa una cattedra nel pubblico Studio di Napoli; ma più e più geologi e mineralogisti, i quali avessero potuto disaminare e scorrere e studiare la natura, più che sulle pagine, nelle viscere de' nostri terreni, quasi lasciati vergini e sconosciuti al martello e alla trivella del ricercatore.

Per le quali considerazioni il ministro dell'Interno indusse il Pilla a lasciare quel posto di chirurgo militare, alla cui gloria davvero non aspirava, poteva aspirare il geologo, e a mostrarsi cittadino veramente utile ed operoso, in que' tempi d'industria nazionale, nelle ricerche e nelle aperture delle miniere; tanto più che, morto di recente il vecchio professore dell'Università, poteva un più che l'altro ascendere meritamente a quell'offizio. Dovette egli credere a cotesta spacciata protezione, la quale non era punto quell'altra, più povera forse, ma subita e pronta e franca del soldato; era la protezione tronfia, magnificante, abbottonata dell'uomo di Stato, secondo i tempi infausti e codardi. Gli si voleva mostrare il posto vuoto, perchè la scienza fosse stata cortigiana e stesse inchinata innanzi al superbo ministro, e intanto il Pilla rimaneva senza l'antico officio modesto, e senza il magnanimo soccorso annunziato.

Si accorse dunque, come aveva già avuto sempre in animo, dover meglio fondare sul favore del popolo e dell'universale, che su quello del famoso Mecenate; talchè non si addormentò su' guanciali delle promesse de' Grandi, ma guardò alla scienza e alla sua fama, e nel 1836 fece un viaggio nella Sicilia e nella Calabria per studiare l'attacco degli Appennini, come lo dimostrano certe sue scritture.

Gli studiosi di scienze naturali, massime di geologia, non erano molti in Italia; Pilla ne aprì uno studio; anzi, come annunzio più solenne e come più solenne malleveria del suo valore nell'insegnamento, lesse nella grande sala dell'Accademia Pontoniana, fra ripetuti e grandi applausi, un Discorso accademico intorno ai principali progressi della geologia ed allo stato presente di questa scienza.

L'insegnamento suo privato ebbe grandissimo successo. E volendo tornare utile a' suoi cittadini, quand'era appunto il tempo di non aver bisogno del braccio altrui e dell'altrui predominio nelle imprese di scavazioni, di combustibili e di minerali, e sentendo già il bisogno d'ogni affrancamento dallo straniero e della libertà della patria, faceva pubbliche nel 1841 alcune Conoscenze di mineralogia necessarie per lo studio di geologia, dove in ogni pagina contiensi quanto è necessario a preparare lo studioso alle cognizioni geologiche.

Intanto all'occhio del governo pareva troppa vergogna fare sì lungo tempo rimanere chiusa la cattedra pubblica di mineralogia; e alla fine il Pilla vi nominava professore, ma professore interino solamente.

La Corte toscana allora era in Napoli: le tradizioni di civiltà, la estimazione maggiore in che tenevansi in quella Italia di mezzo le discipline e i pubblici studi, la minore gelosia e la veruna paura che, a differenza di Napoli, ispiravano colà gli uomini sapienti e dediti alla gloria d'Italia, e forse un certo tributo di omaggio alla casa di Carlo III, che aveva onorato il cittadino di Stia, Bernardo Tanucci; tutte queste cose insieme fecero dall'Università di Pisa dimandare al Gran Duca d'invitarvi delle capacità eminenti, in ispecialità nella geologia, nella chimica e anche nella medicina frenologica; vieppiù indotti i Toscani dalla decrepitezza del professore di chimica, cui erasi concesso il riposo, e dalla divisione delle due cattedre di zoologia e di geologia, non meno che dalla scarsezza che allora facevasi colà sentire in cotesti campi scientifici, di uomini egregi.

Il Pilla, prima di lasciare Napoli, recossi dal ministro dell'Interno per ringraziarlo delle sue parole, e prendere congedo. Quegli, con modi del tutto sconci, osò dire al professore: Eh dovreste ricordarvi ch'io vi tolsi di mano il lavativo!

Non terremo presso alla vita del Pilla durante gli anni che fu professore a Pisa. Diremo come, quando i comizi scientifici italiani succedevansi di anno in anno, egli, che lieto vi vedeva il bene delle scienze, e lietissimo ne scorgeva le conseguenze morali e politiche della divisa Italia, non mancò di farvi risuonare la sua voce o mandarvi le sue scritture.

Sul cominciare del 1846 il ministero toscano, dov'erano ministri un Homburg e un Paucr, voleva aprire il passo a' Gesuiti, e si provava a stanziarvi le suore del Sacro Cuore, tenute come antiguardo della milizia gesuitica, e già raccettate dalla contessa Buturlin, sotto il gradito e onorevole nome di suore della Carità. Gli amici e protettori della Compagnia stimarono esser Pisa il primo asilo più acconcio; ma il popolo e l'Università se ne sdegnarono forte, sicchè ì professori sottoscrissero una dignitosa petizione, e fu tra essi il Pilla, comunque vi fossero stati negativi il Mori, i due Savi, il Padelletti e Del Padule.

Ma a' mali morali si aggiunsero quelli di natura, dacchè un'ora dopo il mezzodì del 15 di agosto di quello stesso anno una romba simile a quella di lontana bufera, annunziava un flagello che doveva contristare buona parte di Toscana. Succedeva un tremuoto, ch'empieva di terrore e di rovine quel tratto di paese, che si distende fra Orbetello, l'isola D'Elba, la Lunigiana e la montagna di San Marcello. E Leopoldo Pilla pianse quel caso e ne studiò le cagioni, e ne raccolse i fatti, recandosi in vari luoghi, e più specialmente in Orciano, popolata di 800 abitanti, la quale divenne un mucchio di sassi, e in Castelnuovo della Misericordia, dove rovinarono trentatrè case rusticali; pubblicandone una importantissima descrizione, venduta a beneficio de' danneggiati. passò molto tempo, che pose a stampa il primo volume del suo Corso compiuto di Geologia, il cui secondo volume non si poteva ancora pensare dovesse apparire postumo nel 1849.

Fra' pochi, cui parve sicura la morte gloriosa sui campi di Lombardia, si fu di certo Leopoldo Pilla. Il quale, eletto capitano d'una compagnia del battaglione universitario, stimolando al cammino e alla guerra il governo e la scolaresca, fu solamente tranquillo alla vista del nemico. E presago di sua prossima fine, tant'era acceso al combattere, appunto al quartiere generale delle Grazie, il 22 maggio scrisse di sua mano il suo testamento, per provvedere a innocente e caro bambino di tre anni, che portava il suo nome medesimo. E furono queste le sue solenni parole:

 

«Siccome la vita e la morte è nelle mani di Dio, così trovandomi nel campo toscano nella santa guerra della Indipendenza Italiana, e potendo mancare a' vivi, esprimo in questo foglio la mia ultima volontà in parte: Lascio a Giuditta Nocentini, ed alla sua sorella Teresa, tutto il danaro contante che si trova chiuso nella scrivania dentro alla mia stanza di studio a Pisa, e di più il letto più grande della mia casa con tutte le suppelletteli annessevi. Dichiaro che il bimbo Leopoldo Nocentini, che è custodito dalla prelodata Giuditta, è mio figliuolo. Lascio a questo bimbo tutte le suppellettili di casa, fuorchè i libri scentifici, e di più i soldi, di cui posso rimanere creditore dal governo, a condizione che egli rimanga sempre in casa della prelodata Giuditta, la quale gli ha fatto ufficio di madre. Raccomando questo bimbo al governo, se mai la mia opera e le mie fatiche hanno potuto essere in qualche modo utili alla Toscana

 

Tardi fu chiamato a combattere il battaglione universitario, dov'era un fremito generale di guerra; e quando si fu giunti al bivio fra le Grazie e Curtatone, dove si rimase fermi per più di un'ora, il capitano Pilla era fra' primi a gridare di doversi e volere accorrere prontamente. E parecchi de' militi, mancando alla disciplina, lasciarono un'ora innanzi il battaglione; ma il Pilla, il quale avrebbe pur voluto farsene guida, rattenuto dall'idea della riverenza alle leggi militari e dell'esempio, rimase dolorosamente obbediente.

Lieto egli della vita di guerra, ritornato da Peschiera, di cui volle osservare i lavori dell'assedio, invitò il 28 alle Grazie i suoi amici carissimi e compagni d'arme Ginnasi e Fonseca, uno che cadde pur vittima alla domane e l'altro prigioniero. E nel giorno appunto della pugna stava Leopoldo sopra un rialto con Mossotti: gli scolari pregavanli di ritirarsi perchè troppo esposti. Ma vi sono delle ore supreme della vita, in cui l'uomo generoso non vive la vita propria, che un granello di piombo può sperdere, ma la vita nazionale, contro cui non hanno nessun potere i passeggieri trionfi della tirannide e dell'usurpazione. Poco dopo, una scaglia gli fracassò l'antibraccio destro, e gli lacerò corrispondentemente il basso ventre. Lo raccolse il Bini, che gli era innanzi nell'abbarrata, al cui orecchio giunse un grido e si voltò. Accorsero poscia il Livi e altri due scolari, i quali lo posero su moschetti; e passando per quell'usciolino medesimo, pel quale pochi minuti prima era entrato il battaglione, lo menarono sull'argine destro dell'Osone, avendo a sinistra le Grazie, dove lo lasciarono colla speranza e quasi colla certezza che un'ambulanza lo avesse raccolto.

 

Ferdinando Landucci, maggiore nelle milizie stanziali, nacque a Pescia nel giorno 4 dicembre 1791, morì alle Grazie il 17 maggio 1848, per ferita riportata nel combattimento del giorno 10.

 

Armando Chiavacci, nacque a Pistoia il 18 agosto 1818, morì a Montanara il 29 maggio. Fin da quando fu istituita la guardia nazionale in Pistoia, Armando fu fra' più volonterosi ed accesi sostenitori di essa. Laonde egli colla signora Bracciolini ed altre signore concittadine, e con altri che meglio potevano esser di esempio, si recò a Firenze nella memoranda giornata del 12 settembre 1847.

Nel marzo del 48 egli, fatto foriere, si diresse alla frontiera passando per San Marcello, piano Asinatico e l'Abetone; ma nell'animo suo combattevano potentemente gli affetti della famiglia e gli affetti di patria, ai quali risolutamente pospose ogni altro. Ma scoraggiato dalla lentezza del procedere, dalla discordia tra comandanti e comandati, e dalla poca disciplina, lasciò il suo corpo, desiderando trovarne uno ove fosse maggior ordine e vigoria di comando. E sul cominciare dell'aprile tornava a Pistoia ed a Firenze a rivedere la madre inferma e la sorella: poi il 6 del medesimo mese prendeva lo schioppo e il sacco dalle mani dell'Odaldi e dal gonfaloniere di Pistoia; e con alcuni altri della compagnia Bellorini si volgeva a Bologna per arruolarsi in quella del modenese Piva, antico soldato napoleonico. E il 10 di aprile scriveva da Revere ad un suo amico grandissimo: «Nel vedere il Po e quelle immense pianure, nel calcare questo suolo desolato ed afflitto, mi sono sentito compreso da entusiasmo e da orgoglio indefinito, pensando che anch'io sono qua, e che presto coi Napoletani, Romani, Lombardi potrò io pure combattere e versare il mio sangue pel santo riscatto.» E il 20 di aprile scriveva: «Sono in Montanara e sto benissimo: spero di battermi, e allora starò meglio

Il suo cuore era generosissimo, e di impeto subitaneo, benchè facile ad essere vinto e ragionevolmente persuaso. Quand'era risoluto davvero ad una impresa, sentivasi impaziente, durante il tempo che pur era necessario ad ottenere lo scopo. Dopo di che ognuno intenderà che non altro che la fortuna (la quale mai non gli era stata amica) lo avrebbe potuto salvare da essere vittima della guerra. Un soldato cittadino come lui generoso, tenero, impetuoso, impaziente, infiammato dell'amor della patria e della gloria italiana, doveva pei primi cadere il 29 nell'impari tenzone sulle abbarrate pur troppo deboli di Montanara, ferito in fronte da palla di moschetto.

 

Luigi Pierotti, volontario, nacque a Pistoia nel 1818, fu ferito mortalmente alle Grazie il 29 maggio, e morì all'ospedale di Castiglione delle Stiviere, ai 7 di giugno 1848.

 

Alberti Bechelli, volontario, nacque a Pistoia agli 8 di dicembre 1828, morì a Curtatone il 29 maggio.

 

Luigi Barzellotti, volontario, nacque in Pian Castagnaio, morì il 29 maggio a Curtatone. Ferito volle pur continuare a combattere; il professore di matematiche di Pistoia, che gli caricava il moschetto, e dicevagli di ritirarsi, lo vide cadere a terra tronco del capo che una palla di cannone gli aveva portato via.

 

Pietro Parra, volontario, era nato a Pisa; era giovane; era ricco; ma non per questo era felice. Imperciocchè egli aveva un'anima nobile e sentiva che gioventù e ricchezza sono perle vanamente sprecate per chi appartiene ad una famiglia di schiavi, per chi si sa figlio d'una Nazione, che non può levar la testa nel consesso delle Nazioni. E convinto di questo supremo dovere, gemente com'era la Toscana sotto la sferza d'una polizia tirannica ed onnipotente, univasi con animo pronto alle politiche manifestazioni che avevano luogo in patria contro le mene de' Gesuiti e dei Gesuitanti. de' liberi sentimenti faceva vanto, quieto e tranquillo nelle pareti domestiche, dove l'amore della famiglia lo circondava, tra' fondatori del giornale l'Italia; cosicchè quella libertà che ne' giorni del pericolo aveva coraggiosamente sostenuta, non adulò poi vilmente, quando mostrarsi libero divenne facile coraggio, e il santo nome di patria suonò senza merito sulle labbra di tutti. Ma per l'Italia parve un giorno solenne, parve giunto il momento di frangere con uno sforzo generoso il giogo di dieci secoli; e l'idea d'indipendenza si mostrò vicina a ricevere la conferma dal fatto.

Il 22 marzo, Parra partì coi volontari, lasciando il suo grado di capitano per stringere un moschetto. Ma quelle milizie cittadine, per altrui colpa, tergiversavano nelle montagne di Lunigiana, e per incerti ordini; sicchè a lui che la causa italiana, non la municipale Toscana, era surto a difendere, parve quella un'angustissima sfera d'azione; e lasciando i compagni corse ai campi di Lombardia col fratello Antonio, con Luigi Fantoni e Giovanni Frassi. E annoverato nella colonna dell'Arcioni volò verso il Tirolo, ove prima pareva doversi incontrare il nemico.

Ma volto appena verso Rezzato, la malattia di suo fratello lo costringeva a tornare in Brescia, per deciderlo a riprendere la via di Toscana, e provvedere sotto il patrio cielo alle cure di mal ferma salute. I due fratelli si separarono, e fu straziante l'addio, come se un mesto presentimento dicesse loro, non doversi rivedere mai più. Intanto la legione toscana aveva passato il Po, e stava a campo sotto Mantova; talchè si prevedeva da tutti, avrebbe essa avuto luogo a sostenere ardue e luminose fazioni di guerra. Parra allora, in compagnia di Giuseppe Montanelli, volle tornare fra' suoi, dai quali soltanto lo aveva diviso il pensiero, che potessero non esser serbati alla gloria della battaglia.

Giunse al campo di Curtatone, dov'era stanziato il battaglione pisano; e benchè non iscritto a nessuna compagnia, divise la dura vita e le costrizioni morali che alle anime generose sono il più duro sacrificio, poichè per esse è momento di festa quello nel quale ferve più accesa la mischia. Era di poco giunto al campo toscano, quando la prima scaramuccia ebbe luogo il 5 di maggio, alla quale accennando; scriveva a sua madre, che stava allora in Desenzano «Appena giunti qua, abbiamo portato fortuna

Presente allo scontro vittorioso del 13 di maggio, d'altro non si lamentava che d'aver dovuto restare a guardia della trincera, invidiando chi da bersagliere si era avanzato ne' campi, inseguendo più da vicino il nemico. Comunque fosse, egli ebbe parte in quella gloriosa giornata; e qualche tempo dopo andò a Desenzano per abbracciarvi la sorella e la madre, e insieme con Montanelli potè stare all'assedio di Peschiera, ed avere, com'esso diceva, la consolazione di vedere due bombe scoppiare a' suoi piedi. La sorella e la madre volevano trattenerlo ancora, ed esso sentì la forza del dovere maggiore di quella dell'affetto, e il 25 di maggio partì pel campo.

Intanto sorgeva l'alba del 29; le scaramuccie, gli scontri, che avevano avuto luogo fino allora, cedevano il passo ad una vera, a una disperata battaglia, dove, come vedemmo, il valore d'una mano di Toscani osava tener fronte per sette ore all'urto delle migliaia, al fulminare delle artiglierie austriache.

Egli, incorporato in quel giorno alla compagnia Malenchini, fu sempre per tutto ove maggiore incalzava il pericolo: vide per tre volte piegare gli Austriaci, li vide tornare rinforzati all'assalto, e quando la disperata resistenza dovette cessare, per le munizioni scoppiate, per le artiglierie sguarnite, quando si dovette volgere a ritirata, che fruttò più d'una vittoria, alla voce di Montanelli, il quale gridava a pochi: «Dobbiamo morire ma non ritirarci,» lo seguì al posto disperato del Molino, e , mentre accanitamente ferveva la mischia, che oramai non era più che parziale, una palla lo colpiva nella fronte, e, stendendolo senza vita su' campi sanguinolenti, gli cingeva alla fronte la corona del martirio.

 

Torquato Toti, volontario, nacque il 18 febbraio 1823 in Val d'Arno, morì il 29 maggio a Curtatone.

 

Roberto Buonfanti, volontario, vero sacerdote del Vangelo, nacque il 20 novembre 1826 in Lamporecchio, morì, credesi, il 29 maggio a Curtatone. Ove giaccia la sua spoglia mortale s'ignora. Forse che la mano del nemico la compose nel sepolcro. Neppur breve nota indica al passante il nome di lui. Ma che ci cale? Anco le ossa di Francesco Ferruccio non sappiamo ove sieno; non pertanto la fama lo consacra fra gl'immortali, alla gloria delle opere grandi, all'eternità.

 

Domenico Vincenti, volontario, nacque in Santa Reparata di Corsica nel 1828, morì il 29 maggio.

 

Riccardo Bernini, volontario, studente di medicina, nacque a Livorno nel 1827, morì alle Grazie il 29 maggio, colpito nel petto al di delle barricate che egli saltò per andare incontro all'inimico.

 

Giovacchino Biagiotti, volontario, nacque a Firenze nel 1829, morì a Curtatone il 29 maggio. All'urto poderoso delle falangi austriache, fra' primi che opposero disperata resistenza fu Giovacchino. Il quale, quando il valore tornò vano sul numero, sdegnoso di sopravvivere, con pochi de' suoi, fra il piombo e le scaglie che gli strisciavano sul capo, passò le abbarrate; restò dal combattere finchè, fulminato dalle batterie nemiche, cadde morto sul campo. E infatti il chiarissimo chirurgo supremo Zannetti, incapace di esagerare i fatti, lo chiamava giovane coragiosissimo ed ardente.

 

Raffaelle Zei, volontario, studente di medicina, giovane di raro ingegno, nacque a Firenze il 16 novembre del 1829; ferito di molti colpi il 29 maggio a Curtatone, morì nel campo nemico. Come quella del Buonfanti, ignorasi ove giaccia la sua salma.

 

Giuseppe Ginnasi, volontario, nato a Imola nel 1827. Nel 1848 trovavasi all'università di Pisa; e allo scoppiar della guerra di Lombardia muoveva col battaglione dei suoi condiscepoli, e si trovò alla mischia il giorno 29. Quando vide che già da qualche ora combattevasi e il suo battaglione rimaneva inoperoso, corse dove il pericolo era maggiore, cioè ai posti avanzati della sinistra, ove era una mano di Napoletani sotto gli ordini del tenente Fonseca. Combattè da prode, quantunque la natura non lo avesse fornito di grande coraggio: ma lo incitavano il sentimento, il dovere, l'amor della patria e il farsi degno della mano di una carissima vergine. — Colà una scheggia di granata lo ferì primamente alla fronte, e tosto che l'ufficiale ebbelo con una pezzuola medicato alla meglio, ritornò al fuoco. Altri, dopo la ferita, avrebbe stimato terminare il proprio ufficio: non così il Ginnasi. Anzi pieno d'ira nel veder morto il fratello della sua sposa, il suo maestro, l'amico, uno dei più splendidi intelletti d'Italia, raddoppiò di valore. Ma ecco cominciava la ritirata, rimanevano soli quei pochi, il tenente voleva abbandonare il posto. Si ripararono poi dietro una casa, e di continuarono a far fuoco, caricando i moschetti sotto le scale, quando una palla di stutzen colpì nel petto il Ginnasi e lo gittò sul terreno. fu possibile raccoglierlo, imperocchè, incalzati vieppiù, si ebbero gli altri a ridurre in una casa ed abbarrarla: donde udirono i lamenti del povero moribondo che diceva ripetutamente: «Ungheresi, uccidetemi

 

I fratelli Sforzi. — Temistocle Sforzi nacque in Livorno il 24 luglio 1826. Fu di ingegno pronto e vivace, di animo schietto e generoso. Negli anni più giovani frequentò le pubbliche lezioni di San Sebastiano, e poi la scuola privata d'eccellente Istitutore. Proclive assai al divertimento seppe però spregiarlo quando il dovere lo esigeva, e lo dimostra il felice esito con cui subì tutti gli esami sì nella Università di Siena, che in quella di Pisa, ove attese allo studio delle scienze naturali. — Nell'anno appunto in cui doveva conseguire la laurea, scoppiò la guerra della Indipendenza; e come aveva posposto al dovere di studente i sollazzi che tanto allettano l'età giovanile; così al dovere di cittadino sacrificò non solo gli agi e le mollezze delle quali in tempi ordinari era anche troppo curante, ma eziandio il piacere per lui grandissimo di essere spesso in seno della famiglia; e si espose a perdere (come pur troppo perdè) un avvenire lieto, quale lo facevano presagire il buon esito de' suoi studi, e un mediocre censo domestico. Ottenuto, dopo replicate istanze, il consenso del padre, partiva da Pisa col battaglione universitario, ansioso di difendere colle armi quella indipendenza che aveva gridato nelle feste di settembre. Chi ha conosciuto il gracile temperamento e le abitudini di Temistocle Sforzi, dice, non potersi niuno immaginare come egli abbia potuto sopportare i disagi del cammino e del sereno.

Pure nulla di ciò lo turbava; giunto in Lombardia, non di altro si lagnava, che di essere lontano dal fuoco, e invidiava gli altri due fratelli che erano nel luogo dell'azione. In data del 5 maggio scriveva alla famiglia da Marcaria, accennando lo scontro del 4, e soggiungeva: «Forse Aristide avrà veduto i nemici, ed avrà con essi cambiata qualche palla, e noi, del Battaglione Universitario, che dovremmo esser l'anima de' volontari, ci tengono qua a poltrire almeno dieci miglia distanti dal campo.» Le quali parole, alteramente disdegnose, ei ripeteva al suo capitano e parente, professor Puccinotti, ed al suo amico d'infanzia e compagno di studi, Azzati. E nel 16 maggio, da Castellucchio, chiedeva al padre un permesso scritto e autenticato dalle Autorità competenti, onde, in caso di scioglimento del battaglione universitario, entrare nella Civica fiorentina «per potere essere utile alla patria, per la quale sinora ho sofferto senza riportarne onore veruno, mentre tutti gli altri corpi di volontari, almeno sanno per prova che cosa sieno le moschettate

Il pericoloso onore che tanto agognava, lo ebbe finalmente nel 29 di maggio. Colpito nel ventre da una palla di cannone, spirò dopo pochi momenti; e fu il primo a morire nel passaggio del piccolo ponte di comunicazione fra le due parti del campo, rimanendo ferito dal medesimo colpo l'altro milite Brachini di Siena.

 

Aristide, l'altro fratello di Temistocle, nacque in Livorno il 16 giugno 1830. Fino dalla sua infanzia mostrò intrepidezza non comune, anzi disprezzo del pericolo e del dolore. — Agli studi letterari mostrava preferire una vita più attiva e faticosa. Chiese ed ottenne di entrare nella Marineria di Guerra Sarda, ma gli avvenimenti del 1848 gli fecero cambiare proposito.

Partì da Livorno come milite civico colla prima colonna comandata dal capitano Mussi, comunque si sentisse spezzare il cuore lasciando la madre che lo guardava stupefatta, avendo da qualche tempo smarrito il senno e la ragione. In età di non ancora diciotto anni sopportò tutti i disagi delle marce mai nelle sue lettere accennò a lagnanze; la traversata dell'Appennino, fatta con un temporale orribile, non strappò dalla sua penna che espressioni di compiacenza: «ora posso dirmi soldato perchè ho potuto tollerare questi disagi senza risentirne danno.» — Anzi, quanto più pativa e più si avvicinava ai pericoli, tanto più si innamorava della vita militare, e quindi chiedeva al padre il permesso di arruolarsi nel primo Reggimento di linea. Ottenne finalmente il sospirato consenso, e nonostante il difetto di età, fu scritto nella 6.a compagnia del 2.° battaglione, colla quale combattè il 13 maggio a Curtatone, mostrando un ardore che da molti era tacciato, e forse con ragione, di temerità, scusabile per altro in lui giovanissimo.

Piacque ai superiori di ordinare in altro modo il Reggimento; ed egli fu allora collocato nella 4.a compagnia del battaglione medesimo. Con questa si trovò a Montanara il 29 maggio, e dopo distinte prove di valore, cadeva mortalmente ferito da un colpo di moschetto. Così periva Aristide Sforzi innanzi di compiere il diciottesimo anno, lasciando immersa nel lutto una famiglia, che doveva piangere la perdita di Temistocle nello stesso giorno a Curtatone, e deplorare ancora la prigionia di un fratello degli uccisi, Napoleone.

 

Cesare Taruffi, volontario, nacque a Firenze il 6 gennaio 1832, morì a Montanara il 29 maggio.

 

Giuseppe Amidei, volontario, nacque a Massa Marittima il 28 agosto 1823. Sebbene allevato in povera ma onesta famiglia, sebbene educato al lavoro ed al grave lavoro dell'incudine e del fuoco, sentì che oltre al babbo e alla mamma, eravi una mamma più ancora venerabile, la patria: oltre ai doveri di cristiano e dell'officina, eranvi quelli non meno sacri del cittadino e della patria. E perchè avesse meglio inteso i suoi doveri, imparò a leggere e scrivere. Maggiore di sei figliuoli, tre fratelli e altrettante sorelle, egli avrebbe voluto esser di conforto a' bisogni della famiglia col suo amato genitore. Il quale, incuorandolo di certo a ben fare quando, era chiamato come milite della guardia nazionale, agli esercizi e ai doveri della pace, seppe con ammirabilissime parole accommiatarlo, abbracciandolo piangendo, e dicendogli: «Sai, il tuo dovere ti chiama; e se fossi più giovine, volerei anch'io in soccorso della patria. Ultime parole che il giovine ascoltò, e che il padre gl'indirizzò. Imperocchè al 29, combattendo con animo fierissimo all'estrema difesa del Molino, fu ferito nel braccio sinistro, e condotto a Castiglione delle Stiviere, sopportando coraggiosamente i patimenti della ferita, d'altro lamentandosi che d'esser posto nell'impossibilità di pugnare, in quell'ospedale il 11 di luglio diede l'anima a Dio.

 

Giuseppe Fusi, volontario, dottore in medicina, nacque a Massa Marittima il primo di novembre 1831, morì il 29, valorosamente combattendo, colpito da una palla di cannone nel momento in cui stava piegato per evitare lo scoppio d'una bomba vicina.

 

Raffaele Luti, bersagliere, nacque ai 24 ottobre 1826 a Sant'Angelo. A 19 anni andava all'Università. La medicina, come scienza d'affetto, ministero di carità e scuola di verità, gli piacque meglio, e l'abbracciò non come mezzo venale di brancicarsi così materialmente, ma come scopo santissimo da intendervi anima, ingegno, vita, tutto stesso.

Andato a Pisa, anzichè sfrenarsi a una vita sollazzevole e lieta, parve raccogliersi più che mai nella sua abituale melanconia, melanconia mista a una certa alterezza, che ai pusilli pareva superbia, e non era; era invece sentimento della dignità dell'uomo, era tensione continua dell'anima a cose alte e generose. Parlava poco, ma con posatezza soave, con un senno, spesso sovra l'età; co' maggiori di ei si teneva in silenzio, i ciarlatani tanto di caffè che di trivio che allora allora erudivano, anche d'uno sguardo li avrebbe degnati.

Una madre tenerissima lo richiamava ogni tra gli affanni di un dolore disperato; la salute stessa cominciava a pericolare. Qual cosa più potente in un'anima buona delle preghiere d'una madre? Povero Raffaello! Si hanno sott'occhio le lettere sue d'allora; chi sa le lagrime di cui le bagnava! che sforzo gli sarà costato lo scrivere al tuo fratello Luigi, che pur lo pregava a tornare: «Chi sente l'onore, non macchia la vita di quest'obbrobrio. Intendo l'angoscia d'una madre e d'un padre; il pensiero mi strazia l'anima, e mi adiro col mio destino, che non mi diede genitori simili a quelli che scrivono a' figli: «non tornare a casa, se non onorato; tutto sacrifica alla patria.» Però se gli altri seguitano col conforto della famiglia, io col disconforto, ho un merito doppio, peno doppiamente: consola e persuadi. Cosa difficile, comprendo, parlare all'affetto, perchè, perdio, non si può parlare alla ragione

Queste parole ei le scriveva da Reggio il giorno di Pasqua, 23 aprile, le quali parole ogni giovane italiano vorrebbe saper dire a 22 anni; ed esse come valgono ad onorare una vita intiera, così le vogliamo scolpite a ricordanza di sì caro nome, a vergogna delle ignave e stolte superbie, ad eccitamento di maschie virtù, in luogo sacro ai martiri della patria.

 

Alberto Acconci, bersagliere, nato a Pisa il 9 dicembre 1828. Alberto nell'allontanarsi dalla casa paterna sentiva palpitare il suo cuore diviso in due affetti. — La speranza di salvare la patria, il dolore di aver lasciato i suoi cari genitori. Vinto però dal suo primo dovere, la mattina del ventidue marzo 1848 si unì alla Civica pisana, salì nel convoglio della ferrovia lucchese, e, giunto a Lucca, si diresse a Pietrasanta, da Pietrasanta a Fivizzano, e quivi, unitosi al battaglione senese, traversò gli Appennini.

Colà il padre gli scriveva perchè ritornasse in patria presso l'adorata famiglia, la quale non attendeva che il momento di riabbracciarlo. Ed egli rispondeva in questo tenore: — «Se ella è mio padre, non mi discorra di tornare adesso, che vi è qualche pericolo. Fino dalla mia prima età ho sognato questo momento, e adesso che è giunto non dovrei approfittarne?» — E soggiungeva — «Dica da parte di tutti coloro che sono qua con me, quei tali che ci chiamano vagabondi, dica loro, che se non si crepa tutti, torneremo, e sapremo loro rispondere, che il vile ha sempre bisogno di una scusa per nascondere agli occhi di tutti la sua dappocaggine.» — E più sotto ancora: — Sento con piacere che stiate tutti bene, ed io pure starei, se il desiderio di rivedere la mia famiglia non mi facesse alcuna volta stare di cattivo umore: ma per ora ci vuol pazienza. Iddio mi darà forza, e mi farà combattere per la salvezza dalla mia bella Italia, e se a Lui piacerà, ritornerò sano e salvo a rivedere i miei.»

Giunto a Mantova, dopo varie scaramuccie avute coi nemici, il tredici maggio 1848, Alberto Acconci non solo si distinse per il suo coraggio, quanto ancora per la sua destrezza delle armi: ed il ventinove, combattendo da valoroso, facendo animo a' suoi amici, e difendendosi colla maestria di un vecchio soldato, cadde sventuratamente prigioniero.

Ognuno può immaginarsi il dolore, l'angoscia e la disperazione che regnava nella famiglia Acconci dopo il giorno ventinove. Eglino credevano estinto il loro figlio, e ne avevano ben donde, poichè stettero un mese e mezzo nella più crudele incertezza e nell'assoluta mancanza di sue notizie. Finalmente parve che il cielo volesse mettere un termine al loro dolore, e la mattina del diciassette luglio 1848 giunse una lettera di Alberto diretta a suo padre, che lo ragguagliava della sua prigionia.

Egli scriveva da Budwei quando giunse l'ordine di trasferirsi a Theresienstadt.

Giunto in quel luogo (facendo quasi sempre a piede quel viaggio per non togliere sui carri un posto a chi egli nella sua delicatezza credeva ne fosse più degno), ricevè lettere di sua famiglia, scrisse varie poesie, e si mostrò cogli amici pieno di coraggio e di rassegnazione. Ma, oh fatalissima circostanza! o fossero i disagi del lunghissimo tratto di strada che aveva percorso, o fosse il cattivo vitto, o il clima variabilissimo e costantemente umido di quel luogo, una sera dopo qualche malessere provato durante il giorno, gli comparve una febbre. La credè una effimera, e giudicò non essere necessario il riguardo. Nel secondo e terzo giorno la febbre tornava, ma non essendo accompagnata da gravi sintomi, pensava di superarla senza bisogno di costituirsi ammalato. — Io desidero morire presso di voi, diceva a' suoi compagni, piuttosto che andare all'ospedale. L'ospedale mi fa orrore... non so perchè... ma sento che ci ho una grande avversione. — Il quinto però essendo più forte la febbre, cedè alle istanze di tutti i suoi amici, che gli promisero di assisterlo e di mai abbandonarlo, come infatti fecero, e fu condotto all'ospedale.

Alla sordità si aggiunse l'insonnio continuo, quindi il vaniloquio, un delirio placido, e finalmente dopo due giorni di continuo sopore, il diciassette agosto 1848, spirò fra le braccia de' suoi più cari amici. Prima che fosse entrato in delirio, diceva spesso ai suoi compagni: — Io sento che è giunta l'ultima ora, eppure assicuratevi che morirei più volentieri, se fossi sicuro di lasciare l'Italia libera. Ah! potessi almeno rivedere i miei genitori, i miei fratelli; i miei parenti!... quando sapranno la nuova della mia morte.... mi amavano tanto!... infelici!... e dovrò morire lungi da loro senza rivederli mai più!... Ah! per pietà, che eglino non lo sappiano!... io sono certo che ne morirebbero di dolore! — Dopo di ciò, uscito fuori di non si udiva che proferire queste interrotte parole: — Madre mia!... Padre mio!... mia bella Italia!... morte ai Tedeschi!...

 

Achille Becheroni, bersagliere, nacque in Poggibonsi il 5 ottobre 1817. Spuntati i giorni sereni del risorgimento italiano, e suonata l'ora del riscatto, partì, caldo d'amor di patria, nella seconda compagnia del primo battaglione dei volontari. Giovine pieno a ribocco d'onore, ma educato alla bellezza e alla pace delle arti, era assai inquieto, e passò dal primo al secondo battaglione nella compagnia dove erano tenenti Federico Fabbrini e Ferdinando Materassi. Poco dopo fece altro mutamento per combattere nei bersaglieri, e per essere insieme con altri artisti. E avendo affrontati con ardore tutti i disagi della insolita vita, il 29 maggio 1848, ferito mortalmente, da due palle nel basso ventre a Montanara, morì, dopo 24 ore, nelle stanze dell'ambulanza di Mantova, di morte gloriosa e onorata, e fra il compianto de' suoi compagni d'arme, che con lui eran caduti vivi, nelle mani dell'inimico.

 

Pietro Pifferi; bersagliere, nacque in Arcidosso di Val d'Orcia nell'anno 1828. Quando scoppiò la guerra patria si arruolò nella quinta compagnia del secondo battaglione. Il 29 fu ferito alla coscia destra e menato all'ambulanza; ma essendo pieno il luogo, venne collocato sulle stanghe per salvarlo dall'inimico che sopraggiungeva. però si sottrasse alla morte, chè piombò la cavalleria ungherese; ed il soldato Baroncelli, ordinanza del capitano Giannelli, il quale anch'esso era fra i feriti, dette al Pifferi il suo moschetto, ed egli con fermezza e coraggio indescrivibile lo scaricò addosso ai nemici. Della qual cosa irritati gli ungheresi, si dettero a menare in tondo e alla cieca i loro squadroni su tutti quegli sventurati, e più sul Pifferi, che fu orribilmente mutilato e quasi ridotto in pezzi.

 

Alessandro Ceccherini, bersagliere, nacque a Pisa da genitori popolani nel 1824; ferito mortalmente il 29 a Montanara, morì a Mantova i primi di giugno.

 

Pietro Sarcoli, volontario nei bersaglieri, nacque in Massa Marittima il 26 giugno 1817. Giovane serio per natura, e sempre prudente e morigerato, ei non tenne come pompa vana l'officio e l'abito di milite nella guardia nazionale; finchè all'annunzio della guerra, prima di scriversi soldato volontario co' suoi compagni, avuta la notizia che potesse la fortezza di Ferrara essere assalita, vi si recò rapidamente, e non essendosi poi verificato quest'assalto, raggiunse in Viadana la compagnia, dov'erano annoverati i suoi carissimi Massetani. Il Sarcoli il 29 era distaccato con dieci uomini ad un posto avanzato. Quando i nemici sopravvennero, e col numero soverchiarono i nostri; egli non si volle ritirare. Proseguì colla baionetta spianata contro gli Austriaci e fu trucidato.

 

 

Paolo Sacchi, nacque a Bibbiena. Appena scoppiata la guerra s'inscriveva nella settima compagnia dei volontari. E quanto amor di patria sentisse e di quanto coraggio avesse pieno l'animo solennemente il dimostrò a Curtatone il 29, quando i suoi soldati, restati privi di cartucce per l'incendio de' cassoni di munizione, egli andava a cercarne nelle tracolle dei morti in mezzo a una grandine di palle e di razzi, sempre mantenendosi il medesimo fino a che una palla d'archibugio non gli passò una coscia. Egli dapprima voleva disprezzare la ferita, e a chi amorosamente dimandavagli: «che! sei feritorispose: «non è niente, non è niente» e intanto si fasciava dove sgorgava il sangue. Ma non potè durare lungamente, e quindi trasportato in una casa poco distante sulla destra del lago, fu con altri fatto prigioniero e menato all'ospedale di Mantova.

Forte e robusto, potè in pochi giorni essere a tale da muovere per la Germania, ed era a Theresienstadt, quando vennegli la lieta novella del cambio dei prigionieri. Partì immantinente ma quella vita che era rimasta salva in cotanti pericoli non potè superare una febbre cagionata anche dalla riapertura della ferita, che gli sopraggiunse in Budwei; e così in terra straniera rimase il di 22 di agosto il corpo trafitto di Paolo Sacchi.

 

Clearco Freccia, volontario, nato nel 1831 a Noceto. Lasciato lo scalpello correva nel 1848 a combattere le battaglie della patria indipendenza. Il 9 di maggio il battaglione in cui era inscritto dividevasi colle stanze fra Rivalta, Sacca e Castelvecchio; e Clearco, volendo correre i maggiori pericoli, e non esser fermo di presidio, si unì a' bersaglieri, comandati e ammaestrati dal valoroso maggiore Beraudi piemontese in Monteggiana sulle rive del Po.

Così combattè strenuamente il 29 nel campo di Montanara, e mortalmente ferito insieme al Becheroni, furono entrambi menati prigionieri in Mantova, dove all'alba del 30 insieme spirarono nelle stanze di osservazione nell'ospedale, senza un abbraccio e una lagrima pietosa de' fratelli e degli amici.

 

Francesco Barzacchini, volontario, nacque il 21 luglio 1821, in Campiglia, morì a Montanara il 29 maggio.

 

Francesco Pierallini di Bibbiena, soprannominato il Grillino, fu figlio unico di onesti pigionali. E quantunque, giovine di diciannove anni, fosse sostegno ai vecchi genitori col guadagno che ritraeva come garzone di postiglione, cioè come stalliere, pure quando Milano e Lombardia si scossero, sentì anch'esso il bisogno di consacrare all'Italia la sua vita. E non ebbe pace finchè non partì per Firenze con altri volontari del paese; ma giunto al deposito, non fu arruolato perchè mancante del permesso paterno. Laonde ripartì il medesimo giorno per Bibbiena, e si presentò al povero padre che, quasi previdente dell'avvenire, non voleva accordargli il suo consenso; ma dovè cedere quando scôrse la ferma risoluzione del giovane italiano, di togliersi la vita primachè esser scherno dei suoi compagni e de' suoi concittadini. Col desiderato permesso ripartì lietissimo, e ricomparve al deposito colla massima sollecitudine: ed ivi fu arruolato, e fin da quel momento diceva di esser diventato il giovane più felice della terra. Al campo, questo popolano fu esempio di valoroso ed ubbidiente milite, ed amore della sua compagnia. Il giorno 29 maggio 1818 fu il primo, cui una palla di moschetto colse mortalmente alla fronte; e di subito spirò fra le braccia del suo compatriota tenente Ghilardi.

 

Virgilio Bernardini, volontario, nacque il 1832 a Convalle in quel di Lucca. Alla battaglia di Curtatone, dopo la prima ora di fuoco, salito sul parapetto della trincea, sdegnando di parare il suo corpo, fu colpito in fronte da una palla, e cadde, gridando più volte: Viva l'Italia!

 

Giuseppe Solimeno, nacque in Marciana il 10 febbraio 1806, ferito mortalmente il 29 maggio, morì il 1 dicembre 1848 dopo dolorosa malattia, sopportato colla massima rassegnazione.

 

Giuseppe Nerli di Siena, deposto il grado tributatogli nella milizia cittadina, si distaccava dall'amorosa madre, volava ai campi di Lombardia. Ultimo negli onori, primo ai rischi e ai disagi, intrepido e feroce nel conflitto, pio, umano modesto, docile, mansueto fra i suoi, ei presto rendevasi modello ai guerrieri della libertà; e ben tale suonava e suona sempre il suo nome fra quanti durarono con lui quella infelice e gloriosa guerra. Nel 29 maggio rimasto con un solo compagno tra i nemici ferri, rispettabile ai nemici stessi per indomito valore, fu preso alfine e fatto prigione. Sopportò dignitoso i quattro mesi di sua cattività; fu paziente nella malattia contratta fra i travagli del campo; ma il cordoglio dei pubblici casi vinse le sue forze usate già con tanto abbandono. Attaccato dalla miliare, dissimulò alla povera madre il corso pericolo, e sperò, nella breve tregua avuta dal fiero morbo, tornare a lei consolatore del lungo affanno. La infelice gli corse incontro al ritorno, lo abbracciò vaneggiando, e nelle care sembianze ravvivate in quell'ultima gioia, non lesse, delusa! la imminente ruina. La cruda lue, appresa sordamente agli organi respiratori, insorgeva di nuovo, e dopo poca lotta, già puro e disposto a miglior soggiorno, spegnevalo tra le braccia di quella desolata.

 

Roberto Menabuoni, nacque il 19 luglio 1827 in Livorno. Lo scoppio della guerra lo chiamava nei campi lombardi ove difatti si inviava fra i primi il giorno 21 marzo 1848, quantunque afflitto da dolori reumatici acquistati poche notti avanti, allorquando nel compiere l'ufficio della ronda cittadina gli avvenne di scoprire ed inseguire alquanti malfattori. Partiva esso col primo battaglione livornese, comandato dal Mussi, e precisamente colla prima compagnia del capitano Dupuis. E ad un amico, il quale avendo stabilito di partire egli pure fra militi, lo impegnava ad aspettarlo per partire poi insieme solo due giorni dopo, il Menabuoni risolutamente rispose: «Ho dato la mia parola d'onore e parto oggi.». valsero a ritenerlo neppure le calde esortazioni della famiglia, e specialmente del padre. E partì, tribolando pel dolore alle gambe; del quale però in breve restò libero, come egli stesso dopo non molti giorni scriveva. E coi Napoletani si trovò il 4 maggio al fatto di San Silvestro; ed ivi si segnalò per valore ed ardire, tantochè poco mancò non fosse ferito, come avvenne al suo compagno d'armi è d'affetto Riccardo Lacomba, che cadde il primo nelle mani del nemico. Il 29 era nella linea aperta de' bersaglieri di Montanara, aspettando con ansia di scaricare il suo archibugio già preparato, allorchè disgraziatamente fu colpito per negligenza da ferita mortale che subitamente il freddò. Lo piansero italianamente i suoi cari; e del padre suo desolatissimo non vogliamo tacere una bellissima azione, che meglio si scorgerà nelle due lettere seguenti:

 

«Cittadino ministro,

«Quando la patria ha d'uopo di soccorso, ciascuno faccia quel che può. Il sottoscritto perdè un figlio per l'italiana indipendenza: ebbene, sia pace all'anima sua.

«Oggi, tanto esso, quanto la di lui famiglia, ascoltano le grida dell'eroica Venezia e le destinano la piccola somma di lire fiorentine cinquanta, inviandole a voi, cittadino ministro, acciò, unite alle altre sovvenzioni, possano essere di qualche utile a quei valorosi italiani.

«Con distinta stima si pregia di essere

«Livorno, 8 gennaio 1849.

«Di voi, cittadino ministro dell'interno

«Umil. devot. servo

«Bartolommeo Menabuoni»

 

Il ministro F. D. Guerrazzi rispondeva il giorno 10:

 

«Cittadino,

«Leggiamo nei libri santi, come il Signore, di tutte le offerte, gradisca principalmente l'obolo della vedova e dell'orfano; e la patria sopra ogni altra, in verità io ve lo assicuro, avrà accetta la vostra offerta, che io chiamerei volentieri il dono del dolore. Non temete, no, che la vostra moneta vada confusa con le altre; ella vince di splendore quella dell'oro, perchè sfolgorante di ardentissimo amore e di sacrificio cittadino.

«Il cuore vostro di uomo forte vi ha consolato della morte del figlio; e poichè voi siete di coloro che si mostrano capaci di virili conforti, io vi dico che non si muore cadendo per la patria, ma si vive nella memoria degli uomini e nelle sedi più beate del cielo, dove si accolgono le anime elette. Credete, o, buon cittadino, a questa religione; imperciocchè, se tale fu la religione di Cicerone, di cui porge testimonianza nel sogno di Scipione e di Tacito, come si legge nella Vita d'Agricola, perchè non dovrebbe essere la nostra, dopochè con bene altri precetti e con divina certezza ce la rivelava Gesù Cristo, amico di ogni oppresso, nemico di tutto oppressore

 

Ulisse Renard, nacque a Firenze nel 1823. Quando sorsero le voci di guerra, e si andava da molti con ampie parole tentando gli animi de' giovani più arditi, Ulisse rispondeva con brevi, ma vere e sentite parole: «quando sarà il momento di combattere, non s'avrà che ad annunziarmelo soltanto, e non sarò secondo a nessuno.» Infatti lasciò subitamente Castiglion Fiorentino, appena intese le prime mosse, e partì volontario in uno de' battaglioni. Fu a' diversi fatti combattuti il 4, il 10 e il 13; e nella giornata del 29 aveva ricevuto tre ferite, una al piede, due al braccio, e pure non andava all'ospedale. «Ritirati» gli dicevano i compagni e gli uffiziali; ma egli rispondeva, bastargli ancora la vita, e tutta volerla dare all'Italia libera. Un cannone era per cadere nelle mani dell'inimico: vi volevano audaci cittadini e soldati per salvarlo, e primo tra essi andò il Renard; ma presso venne colpito mortalmente da una palla nemica e cadde sul campo.

 

Liberato Molli, nacque in Arezzo nel 1822. Come architetto e ingegnere fu sempre adoperato alla tumultuaria costruzione e al mantenimento delle deboli trincee del campo in Montanara; ma non volle mai per viltà, per avarizia, pur di fatica, per aumento di provvisione lasciar la veste del caporale; sicchè, ora costruiva ed ora vigilava, quando ristaurava e quando proteggeva i campali baluardi; e ne prese cotale infreddatura, che il 25 di maggio fu obbligato dal chirurgo maggiore Chelli di cavarsi presto sangue e starsene qualche tempo guardingo in letto. E scriveva appunto in que' momenti di ozio una lettera al Pierotti, in cui, fra altro, così diceva: «Se mi sono prestato e mi seguito a prestare per le fortificazioni, lo faccio colla paga solita cha passano a' comuni, e ho rifiutato l'aumento, non dovendo esser lo scopo d'un buon figlio d'Italia l'interesse, ma sì vero la buona volontà d'occuparsi pel felice esito della santa causa per cui siamo mossi. Pur troppo si va dicendo che parecchi di noi stanno qua per speculazione, non già io e la maggior parte.» E in questa medesima lettera proponevasi di disegnare la chiesa e il posto delle Grazie, sicchè dimandava seste e righe e occorrenze da disegno. Ei lasciava subitamente l'ospedale ambulante per trovarsi alla già preveduta zuffa. Era appunto sui parapetti di Montanara, quando il furiere della sua compagnia, Leopoldo Pierotti, dicevagli: «Smetti, Liberato, oramai sono buone quattr'ore che fai fuoco. — È il mio dovere, rispondeva, dammi un solo bicchier d'acqua, che ho arsa la golaAndava subito l'amico, ma ritornato, una palla coglieva in fronte il Molli, il quale spirò sul suo parapetto.

 

Paolo Caselli, nacque a Firenze nei primi del 1831. Mentre a Curtatone ferveva la pugna, gli ufficiali della compagnia, a cui apparteneva, dissero animosamente: «Giovanotti, chi di voi ha audacia e valore lo mostri: deggionsi portare le cariche a' nostri posti avanzati, che già cominciano a difettarne.» E Caselli, presane buona quantità, arditamente si spinse innanzi. Ma più non tornò fra' suoi, e veduto il bisogno pugnò nell'antiguardo e perì da forte.

 

Pietro Simoncini, nacque a Fucecchio. Nel 13 maggio fu ferito a Curtatone nella parte superiore dell'avambraccio sinistro, per cui fino al 29 luglio seguente stette all'ospedale di Villafranca sotto il chirurgo Burci, professore nell'Università pisana.

Ripatriò il 3 di agosto 1848, ricondotto dal suo fratello Giovacchino (chè se arrogi Francesco, erano al campo tre fratelli) e si mise sotto cura rigidissima; perocchè per due consulti fu minacciato della mutilazione. Ma poscia dalla estrazione di diversi frammenti e schegge degli ossi radio e ulna, si erano formate delle caverne intorno del condotto fistoloso, le quali facevano deposito, ed in alcune di esse rendendosi difficile lo scolo, chè le materie dovevano ripassare contro il proprio peso, si rese indispensabile la contro apertura, dietro cui migliorò assai. Sempre però accusava offeso il braccio; ma infine riprese servigio, e poteva considerarsi guarito.

Ebbe a patire carcere in Samminiato dopo la ristorazione in seguito di processo; perocchè alla fin fine divennero sospetti colà tutti quelli che avevano combattuto per l'Italia. E per dolore, e per le conseguenze della ferita, nel febbraio dell'anno 1851 si rimise in letto, e agli 8 di luglio ad un'ora pomeridiana morì.

 

Pio Foresti, nacque in Casale il 19 gennaio 1813. Ai primi rumori della rivoluzione di Milano abbandonò ogni cosa per offerire il suo braccio alla guerra santa; e, vinta la ripugnanza de' genitori, che, come unico figliuolo, lo persuadevano a rimanersene a casa, si arruolò volontario nella legione Torres. — Giovane alto di statura, di colorido pallido, ma di fibra gagliarda, e d'indole aperta e risoluta, non tardò a dare prove di singolare bravura e di molta perizia nelle fazioni campali, per cui fu promosso al grado di maggiore della legione. — Ma quella milizia andò in breve soggetta a sinistre vicende, e ai 17 di aprile Pio Foresti scriveva da Goito al vecchio suo padre le seguenti parole:

 

«La legione Torres, nella quale io era maggiore del secondo battaglione, venne disfatta sotto Mantova tre giorni fa, ed in pochi ci siamo ritirati con marcia retrograda qui a Goito. — Molti sono i partiti che mi vengono offerti: — prima però d'accettare voglio intendermela col comitato del governo provvisorio di Milano.

«Spero per altro di aver tempo a fare una gita a casa per passarvi le feste di Pasqua. — Se però non potessi, e dovessi invece trovarmi presto nuovamente in faccia al nemico, ella non si turbi perciò, perchè, passando anche nel numero dei più, sarò lieto abbastanza di aver data la mia vita alla patria.

«Tanti saluti a tutti, ed in ispecie alla cara mamma.

«— In fretta addio.—

 

La Pasqua di quell'anno cadeva ai 23 di aprile; ma Pio Foresti non potè adempiere il voto di rivedere i suoi, perchè, essendosi riordinata la legione Torres, egli tornò a correrne le sorti e ad affrontare il nemico. E innanzi Mantova, nella fazione di San Silvestro, Pio Foresti, combattendo, cadeva il terzo giorno di maggio trafitto da una palla che gli passava da parte a parte il petto, senza poter mettere altre voci che Italia mia!

 

Enrico Lazzeretti, nacque in Montepascoli il 17 maggio 1827. Fece prodigi di valore nel combattimento del 13 maggio a Curtatone, sicchè meritò la medaglia da Carlo Alberto. Ed oggi la famiglia, che tien conto delle virtù cittadine di Enrico, le quali sono le prime virtù del mondo, conserva religiosamente quella medaglia d'argento, e, più che la medaglia, le parole del decreto, per aver sostenuto con molto coraggio l'assalto del nemico, riportando nell'azione una ferita al lato destro del torace.

Giovanetto com'era, chiamava, morendo, la madre, e diceva al Buonamici, che ne raccoglieva l'ultimo sospiro: «Ella non voleva lasciarmi partire; la desolata sappia almeno ch'io sono spirato col suo nome carissimo sulle labbra e con quello d'Italia

 

Francesco Lotti, nacque a Pisa nell'anno 1818. Allo scoppiare della guerra si scrisse volontario nella prima compagnia del battaglione pisano comandata dal capitano Ferdinando Ruschi, e combattè valorosamente in tutta la giornata del 29 insino all'ultima ritirata: allora nel saltare una fossa fu colpito al fianco da una palla dirizzatagli da un Croato, rimanendo supino su quel ciglio, e proferendo un ultimo addio al fratello, ch'ei consegnava morente al suo compagno d'arme Giovanni Donzelli, ch'insieme con lui fu più fortunato nel saltare quell'ostacolo.

 

Leopoldo Fedeli, nacque a Siena il 1 aprile 1825. Egli esercitava la professione di stipettaio; nella quale si mostrava intelligente ed operoso; sicchè i lavori che uscivano delle sue mani, erano non solo eleganti nelle forme, ma esattissimi e netti. Cogli altri Sanesi ei partì per Lombardia il 24 di marzo 1848. Fu eccellente milite e di carattere esemplare: buono, obbediente, indefesso alla fatica, rassegnato a' disagi della guerra; e quantunque si fosse ammalato delle febbri dei pantani fin dal 24 di maggio, e il 29 si trovasse assai debole e febbricitante, si slanciò coi suoi fratelli d'armi nel pertinace conflitto a Montanara, e fu ferito alla coscia destra. Rimasto prigioniero, fu menato dai nemici in Mantova, dove imperterrito morì il 3 di agosto, tre giorni dopo l'amputazione di quella gamba, che per tre mesi lo aveva fatto stare fra la vita travagliata e la desiderata morte.

 

Tito Diddi, nacque in Firenze nel 1826. Nella famosa giornata del 29, egli ricevè moltissime ferite per fitta mitraglia, una delle quali all'inguine, che lo tolse di vita il 22 di giugno, dopo giorni di prigionia nell'ospedale di Mantova. E si racconta della sua costanza che, trafitto in terra, cercasse a un suo compagno lo schioppo carico, e sollevatosi come potè meglio volle trarre almeno per l'ultima volta contro il nemico d'Italia.

 

Alfredo Newton, inglese di nascita, italiano per l'affetto che portava alla nostra terra. Non tratto già da spirito inconsiderato di parte, ma da vero amor patrio, risolvè di partire per la guerra, non convenendo, diceva, a lui oramai italiano, starsene colle mani in mano, mentre gli altri, e singolarmente il fratello Gervasio, esponevano il petto alle spade e al cannone. Andò dunque e sempre si segnalò, singolarmente in due fatti d'arme, a testimonianza dei commilitoni superstiti. Nella battaglia del 29 in Montanara fu ferito da due palle di moschetto alla spalla sinistra, e caduto come estinto fu presso ad esser seppellito co' morti. Per sorte un uffiziale austriaco, vedutolo dar segni di vita, lo fece trasportare in Mantova, quando aveva già quasi vuote le vene di sangue: pur tuttavolta riebbesi nello spedale, mercè le cure dei medici e di persone che le rare sue doti gli amicarono ben presto. Intanto scriveva al padre più volte, mai ebbe risposta, per sinistro invio di lettere. Fu annunziato nella lista dei prigionieri già morti; e come tale fu tenuto per un mese all'incirca. Pienza, terra ove erasi accasata la famiglia Newton, ne piangeva dolorosissimamente la perdita, e con solenne funebre pompa ne ricordava la cara memoria; ed egli intanto stava a confortare caramente il suo compagno di prigionia e d'infermità Raffaele Zei, il quale gli offriva come segno di affetto e di ultimo addio il proprio oriuolo, e Alfredo ricusando, quegli soggiungeva: «Tienlo, ti farà comodo: tu non hai un soldo: io poche ore ho da vivere

Dopo alquanto tempo finalmente vennero certissime novelle che Alfredo era ancor vivo. Il padre, che di quella perdita era desolatissimo, si mosse per le poste alla volta di Mantova per condurlo via. La nuova frattanto giunse ancora in Pienza, i cui cittadini trasecolarono come di cosa che non pareva credibile. Riavutisi dallo stupore i Pientini festeggiarono con pubbliche dimostrazioni d'esultanza e con rendimento di grazie all'Altissimo il fausto annunzio. Alfredo tornò in braccio a' suoi cari, malgrado però della spalla che tormentavalo sempre e mantenevalo abitualmente arso di febbre. Migliorò nondimanco mercè le sollecite cure del prof. Filugelli, e ottenuto alcunchè di miglioramento, eccolo col pensiero e coll'anima tutta alla sua Pienza. Riassunto il grado negli offici di capitano, la notte del giovedì santo del 1850, volle di per distribuire e vigilare la civica nella visita dei SS. Sepolcri. La febbre ingagliardì e lo pose in letto. Fu creduto vano ogni medico, e il 6 aprile, tra le smanie del male, quanto repentino, altrettanto doloroso, rese la bell'anima a Dio.

 

Alfonso Mazzei, nacque a Pistoia il giorno 29 settembre 1831, morì il giorno 29 maggio.

 

Mariano Mancianti, nacque in Siena il 2 gennaio dell'anno 1817. Fece parte del battaglione sanese-pisano, e nel 29 perdè fra' primi la giovine vita ne' campi di Montanara, trovandosi per l'appunto una delle più avanzate sentinelle in quel posto. Gridò il suono dell'arme, aspettò il nemico per ripiegare e congiungersi colle altre sentinelle della Gran Guardia e del Sostegno, e, nel battere la ritirata, cadde quasi in mezzo a' nemici, che forse nell'impeto dell'assalto gli calpestarono il viso insanguinato.

 

Romualdo Bianchini, giovane scultore allo studio dei Duprez, figliuolo d'un tappezziere, moriva il 29 maggio a Montanara.

 

Leopoldo Calosi, già dottorato nell'Università di Pisa, scolare di belle speranze, morì a Montanara il 29 maggio.

 

Tomaso Marchetti di Bagnacavallo, di 27 anni all'incirca, il quale a Montanara fece prove di immenso valore, e per una palla giuntagli alla gola, rimase freddo sul campo.

 

Colombi Cesare di Montepulciano, studente di legge, morì ferito da cinque palle il 29 a Curtatone.

 

Zenone Benini di Firenze, egualmente al canonico Bonfanti, ignorasi quando e come perisse.

 

Luigi Santini, del corpo dei bersaglieri, fu ferito mentre animosamente combatteva presso il mulino di Curtatone. I compagni, fra cui Giovanni Bozzano, incalzati furiosamente dal nemico non poterono soccorrerlo. Ed egli, trovata forza per alzarsi dalla caduta, passeggiava dietro una casa col petto insanguinato, aspettando senza lamenti e con disperata rassegnazione la morte.— Il Bozzano era uomo di cuore veramante italiano e commendabilissimo per bontà di costumi. Combattè animosamente alla trinciera: cadde colpito da una palla di moschetto nella fronte e morì.

 

Gli altri valorosi volontari morti sono:

 

Agostini GiovanniArrighiniBaldi AngioloBardi LodovicoBarlei FrancescoBenozziBerlinghieriBertuccelli GiorgioBianchi GaetanoBoccardi MetelloBonuccelli RaffaelloBozzano GiovanniBrilli LorenzoCamagrani FerdinandoCartoniCatani EugenioCateni CesareCiaccheriCiacchiCialdi GiuseppeCiani FerdinandoCinganelli MicheleComasoni FerdinandoFondi FerdinandoFormichiniFrancia GiuseppeFranci GioachinoFranchini GiuseppeGiacomelli GiovanniGrossi AngioloGuidi FrancescoLucchesi ErmenegildoMarcucci NicolaMarendi NicolaMarruzzi NicolaMartini AngioloMartinelli LuigiMasettiMasi, di MontereggioniMasini LuigiMazzoni AngioloMicheletti PietroMolinelli LuigiMonaldi MilziadeNardini GiuseppeNusiglia LorenzoPaolo detto Giuseppe —— Pavolini DomenicoPelagatti LorenzoPellegrini FrancescoPiantini GiacomoPicchi TitoPieri GiuseppePierolini DomenicoPietrini PietroPizzetti OttavioRafanelli FerdinandoRighini AngioloRivi StefanoRossi AlessandroRossiniSalvarelli DomenicoSambuchi AngioloSandrini GiulioSantini FederigoSavelli GaetanoScatarsi LuigiScelli PietroTassi CosimoTomagioni LorenzoVibriani LeoneVincenti MarcoZellini RaffaelloZocchi Gaetano.

 

I nomi conosciuti sommano a 194, di cui solamente 70 appartengono alla truppa regolare e che sono i seguenti:

 

Angeletti DomenicoBalbiani EugenioBaliotti PietroBenedetti MicheleBiagini PietroBianchi LuigiBorelli PietroBossi Samuele, cadettoBrunettiBruscatini FerdinandoCamiciottoli LorenzoCaprilli SilvestroCartoniCiarpaglini Ellero, maggiore — Ciocchi PietroClementi Gian BattistaColzi RiccardoCompariniComparoni — De Gambron EmmanueleDonini PaoloFabbri CarloForestiFranci GioachinoFratini AndreaGasperini CesareGattai OnoratoGavazzi Pier FrancescoGhelardoni Jacopo, tenenteGiannini AntonioGiuntini OresteGrassolini Eugenio, sergenteGualtierolfiGuarigieri SalvatoreGuerri LorenzoIlari LuigiInnocentiLanducci Ferdinando, maggiore — Lenzi GiuseppeLivi GioachinoLorenzoni CostantinoLucchesi GiovanniLupi CostantinoLupichini RinaldoLuppicchiniMaffei AntonioMancini AntonioMarchi Luigi, cadettoMattioli TitoNosi GiovanniPallini MichelePananti ClaudioPelagatti CristoforoPellegrini FrancescoPellegrini CostantinoPetronici AlessandroPiccinini PietroPoggesi Ranieri, cadettoPompei Gio. AntonioRaspi AntonioRimbotti GiuseppeSandrini GiulioScoti CesareTellini RaffaeleTognocchi GiuseppeTonnacchera AndreaTraniVigiani GiovanniViti AngeloZannoni Antonio.

 

Nella giornata del 29 maggio, coi Toscani, pur da prode moriva Beraudi Francesco, piemontese, maggiore nelle milizie stanziali del granducato. Era nato il 29 aprile 1801 in Boves, borgo assai cospicuo nelle vicinanze della città di Cuneo, ultimo figliuolo di molta prole. Indottosi alla vita del soldato, entrava nel 1816 nella brigata Cuneo; nel 1822 era sergente nella brigata Pinerolo. Da grado in grado giungeva nel 1848 al grado di capitano nel 13.° fanteria. Vi erano voluti meglio di nove anni, e quasi un'èra novella perchè il Beraudi avesse con dispaccio del 26 febbraio 1848 il grado di maggiore, e fosse «destinato al servizio della Toscana con paga e vantaggi fissati in Piemonte agli ufficiali dell'arma e grado stesso, con soprassoldo di lire 1000 annue, oltre l'alloggio, con riserva di ricollocarlo col suo grado nell'armata, e quando l'opera sua non tornasse più utile al servizio toscano.» E tanto più lietamente vi andava; quantochè l'unica sua sorella Caterina era colà maritata sin dal 1813 a Deograzias Manetti da Oratorio presso Pisa. Giunsero in Firenze il 22 di marzo gli ufficiali piemontesi, a' quali non fu data molta ingerenza; ma nessuno poteva, voleva impedire che nei pericoli supremi quegli eccellenti ufficiali avessero esposta, col pubblico vantaggio, la vita, facendo opera non pur di prodi soldati d'Italia, ma di guide sapienti e di conforto. E Beraudi, perito com'era negli esercizi e negli armeggiamenti da bersaglieri ammaestrò i più svelti militi de' due battaglioni toscani a guerreggiare nell'ordine sparpagliato; tenendo guardie frattanto sul Po verso Borgoforte insino al 4 di maggio. si contentò di ammaestrarli e addestrarli, volle bensì guidarli e con essi bravamente pugnare. Laonde il 29, date le più acconcie disposizioni, disse la sera al capitano Bellandi, il quale avea preso il comando dei bersaglieri ed erasi presentato alla Canonica, dov'era l'alloggiamento del comandante: «ritornate alla compagnia, e procurate di star pronti e dormire come le lepri

Alla domane egli era lieto e animoso alla testa delle sue giovani ribollenti milizie; e spintosi primo innanzi al fervore della pugna, fuori del campo trincerato di Montanara fu gravissimamente ferito nell'ippocondrio sinistro, e non ostante fosse raccolto dal sergente Luigi Maccianti di Prato Vecchio, che in quel giorno medesimo cotanto si distinse, e da Bartolomeo Gaube, i quali lo menarono nel quartiere del colonnello Giovannetti, e fosse poscia collocato con altri feriti sopra un barroccio, pur ci cadde prigioniero al nemico. Nell'ospedale de' Cappuccini in Mantova, il 31 giugno spirò pietosamente fra la mesta compagnia de' prigionieri italiani, mandando l'ultimo sospiro all'Italia e al Dio degli oppressi3.

 

Alla gloriosa sventura non solo la Toscana, ma tutta Italia si commosse; e ai prodi che intrepidamente morirono si fecero dappertutto solenni esequie, e si decretarono onori di epigrafi e di monumenti.

Il giorno tre di giugno 1848 in Santa Maria del Fiore4, e a gramaglia, e a fiori e a trofei, si raccoglieva tutta Firenze per pregare pace alle anime dei generosi Toscani che il sangue avevano versato per l'indipendenza della patria.

Ci piace riportare le epigrafi dettate in quella circostanza. Al sommo della porta di mezzo leggevasi:

 

Ai Valorosi

 

Che il ventinove maggio

Anniversario della gloriosa giornata di Legnano

Nipoti non degeneri del Ferrucci

Palpitanti di libertà e di gloria

Sul Campo Lombardo

Per la santa Indipendenza d'Italia

Morirono combattendo come leoni

Pregate o Cittadini

 

———

 

Ai quattro lati del Tumulo:

 

Fortunati!

 

A voi toccò di morire per la Patria

E potete dal Paradiso

Vagheggiare la grande Vittoria

Frutto della vostra morte.

 

———

 

Carissimi!

 

Finchè aura di libera vita

Spiri su i colli del bel Paese

Voi sarete il primo palpito

D'ogni Italo cuore.

 

———

 

Benedetti!

 

L'Angelo il più innamorato

Raccolse il vostro sangue in calice d'oro

Arra d'intero trionfo

E Dio l'ebbe caro.

 

Gloriosi!

 

Palme di fronda immortale

Crescono per voi Martiri della Patria

Alla vostra eterna memoria

S'ispirerà l'avvenire.

 

———

 

Nella stessa Firenze poi i nomi dei 25 suoi martiri furono incisi in tavole di bronzo e posti nei Panteon di Santa Croce. A Pisa i nomi degli otto pur caduti per la causa della patria vennero scolpiti in una lapide posta nel camposanto. A Pistoia i sei prodi di Curtatone furono eternati nella facciata del palazzo municipale. Ai tre di Massa Marittima, Pasquale Romanelli eresse un monumento. Una scritta rammentò quei di Poggibonsi. Vedremo poscia come la reazione vincente muovesse guerra anco ai santi Martiri.

 




3 Siamo dolenti di non aver potuto raccogliere i nomi dei volontari di Genova, di altre città che caddero nella guerra dell'indipendenza. Fra gli studenti dell'Università di Torino troviamo quattro giovani che caddero da prodi. Sono Saccheri, Coppa, Longoni e Rogiapane.



4 La cattedrale di Firenze, detta del Fiore, dal simbolo rappresentante Fiorenza, che è il giglio. Il tempio di Santa Maria del Fiore, il Campanile e il Battistero di San Giovanni, basterebbero essi soli ad illustrare una città capitale.






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