VII.
In sulla sera del 27 maggio,
Radetzky partiva da Verona con 35,000 uomini, una numerosa artiglieria e un
traino da ponte, dirigendosi per l'Isola della scala. L'indomani a quell'ora
istessa giungeva in Mantova, ed accampavasi presso San Giorgio. Durante il
giorno, da Nogara e da Castellaro disertarono dugento soldati italiani allo
incirca. parte con armi, parte no, e venuti in Sustinente e in Governolo presso
il maggiore Fontana, tuttora stanziante coi Modenesi sulla sinistra del Mincio
e del Po, a lui rivelarono il disegno del Maresciallo, cioè di piombare sulla
divisione toscana e sterminarla; passare sulla ripa diritta del Mincio e
distruggervi i magazzini ed i ponti; sgominare sulla linea le schiere
piemontesi, e ripresentarsi trionfante in Milano, di cui i retrivi gli
aprirebbero le porte, profittando dello scompiglio generale; lo accertarono che
presso Rivoli stava forte nerbo di soldati per correre su Peschiera e chiudere
il grosso dell'esercito di Carlo Alberto tra l'Adige ed il Mincio.
Fontana, senza porre tempo di
mezzo, avvertiva delle cose udite il generale Bava, che allora stanziava a
Custoza, e il generale De-Laugier, il quale aveva il quartier generale alle
Grazie, e in pari tempo chiedeva istruzioni all'uopo. La legione modenese,
comechè di molto assottigliata dalle malattie, dalla svogliatezza, prodotta da
perverse mene e dall'inazione, isolata com'era e con poca speranza d'aiuti, pur
era decisa a combattere e a tener saldo a qualunque costo.
Il foglio di Fontana trovava il
De-Laugier già avvisato da Bava, il quale avevagli pur promesso un sollecito e
valido soccorso. Il generale toscano, con pochissime truppe in paragone di
quelle nemiche, non contando che 4,685 fanti, 100 cavalli, 6 cannoni e 2 obici
sulla lunga linea da San Silvestro alle Grazie, senza precise istruzioni, senza
precise promesse d'aiuti, sentiva di assumere una grande responsabilità.
Ov'egli senza combattere si fosse ritirato su Goito, le più acerbe e più odiose
critiche avrebbero il suo nome infamato. Aspettando di piè fermo gli Austriaci,
esponeva i suoi ad un macello, ma salvava l'onore suo e quello della gioventù
toscana pronta, come i soldati di Leonida, ad ogni sacrificio per l'Italia.
De-Laugier decideva di star saldo.
È triste quanto glorioso il
racconto della disperata lotta in cui durò quell'eletta gioventù; glorioso
perchè dimostra quanto sia il valore italiano, infiammato dal santissimo amor
di patria, dal sentimento d'indipendenza e di libertà; triste per le vittime,
troppo chiare sventuratamente, che dovevano col sangue loro improntare nella
storia quella indelebile pagina.
Il De Laugier, verso la sera del
28 maggio, riceveva dal Bava un altro dispaccio, in cui eragli detto, si
apparecchiasse a difesa; e se malgrado ogni conato avesse dovuto cedere il
terreno, si ritirasse in buon ordine verso Gazzoldo; indi, approfittando dei
terreni tagliati, si conducesse sin sotto Volta, ov'era il suo corpo
d'ordinanza.
De Laugier cominciò a dare le
opportune istruzioni, ed intimò al maggiore Fortini, il quale aveva sparso il
suo battaglione di volontari in Rivolta, a Sacca e a Castelluccio, di
sorvegliare le sponde del Mincio, di distruggere al bisogno il ponte di Fossa
Nuova e di difendere i ridotti dell'estremo paesello, per sostenere la ritirata
ai compagni. Avvisò il Campia a Curtatone e il Giovannetti a Montanara di ciò
che avrebbero dovuto operare tanto nell'attacco, quanto nella ritirata. Egli
rimase alle Grazie con un solo obice; più tardi mandò anche quello col tenente
Giovanni Araldi a Montanara, chiedendo di là un pezzo da sei che non gli fu
spedito.
Alle ore nove e mezzo della
mattina del giorno 29 maggio, il nemico, forte di trentamila uomini con
cinquanta pezzi d'artiglieria, inoltravasi pella strada di Mantova.
I bersaglieri dei volontari
venivano tosto alle prese. Le nostre artiglierie rispondevano gagliardamente
alle austriache. A Montanara e a San Silvestro, i liberi battaglieri, presso i
quali l'ardente amor di patria suppliva al numero, saltavano le barricate e
battevano allo scoperto.
De Laugier passava per di là, e
faceva richiamo al Giovannetti di tanta imprudenza. L'impavido colonnello
rispondevagli: «Gl'Italiani debbono mostrare il petto al nemico. È viltà il
nascondersi. Lasciamolo fare agli Austriaci!»
Infrattanto il capitano
d'artiglieria Contri operava con una mano di cannonieri e di volontari
un'ardita esplorazione sul fianco sinistro dei nemici. Egli s'incontrava con
due battaglioni, ed apriva il fuoco ed il sosteneva per qualche tempo; alfine,
non ricevendo aiuti, era obbligato a ripiegare. Ma, riforzato da due compagnie
di fanteria, riprendeva la offensiva, e pel momento giungeva a discacciare la
soperchiante colonna.
Il battaglione degli
universitari, forte di duecento ottanta uomini, e comandato dal colonnello
Melani, era stato posto come riserva a Curtatone. Se non che que' generosi, non
resistendo al loro patriottico ardore, si cacciavano oltre il ponte, là dove
meglio ferveva la mischia, e rinforzavano i punti più ferocemente assaliti. Quivi
moriva il capitano in quel battaglione Leopoldo Pilla, chiarissimo professore
di geologia nell'Università di Pisa. Così tanti studi, tanta dottrina, tanto
onore d'Italia distruggeva un colpo vandalico.
Nel centro non era meno
l'entusiasmo. I razzi nemici avevano appiccato il fuoco ai cassoni delle
polveri, e queste avevano orrendamente morti e feriti gli artiglieri e quanti
erano vicini. Vedevi alcuni a correre sfigurati, dolenti, e strapparsi di dosso
gli accesi abiti; altri, fatti anche più ebbri da quel supplicio, a surrogare
alle riarse miccie i brani brucianti delle proprie assise, coi quali davano
fuoco ai loro pezzi. Era ammirabile la condotta del caporale cannoniere Elbano
Gaspari, il quale, rimasto solo in vita fra' compagni, rispondeva con tre pezzi
d'artiglieria ai 22 degli Austriaci che aveva di contro; solo e ignudo per
essersi dovuto togliere i panni che gli bruciavano addosso. Mirabile pure era
la condotta dei due ufficiali sanitari, Zannetti e Burci, professori di molto
nome, che avevano lasciato le loro clientele, gl'ingenti lucri, tutto per
seguire nel campo la gioventù militante; il loro zelo operoso ove più ferveva
la mischia ha pochi riscontri nella storia.
I promessi aiuti non giungevano;
nessuno dei messaggeri mandati a Goito ritornava con liete notizie. La
mitraglia nemica continuava a mietere spietatamente le file dei generosi; alle
grida di entusiasmo era succeduto il silenzio, quel solenne silenzio indicante
che quelli i quali combattono sanno di morire senza vincere.
Il De Laugier riceveva frattanto
un foglio da Bava, in cui era detto che un reggimento di cavalleria era in
Goito, che due altri erano poco lontani con una batteria di campagna, e che
un'intera divisione di fanteria con due batterie accampavano a Volta. Il
generale spediva un aiutante per chiedere un sollecito soccorso, e gridava ai
suoi: «Coraggio, figliuoli, costanza; i Piemontesi non sono lontani.»
Il vigore si riaccendeva; si
operavano prove d'indicibile eroismo. Il colonnello Chigi aveva una mano tronca
da un colpo di mitraglia; pur lieto sorrideva, e, agitando in alto il moncone
sanguinoso; sclamava: Viva l'Italia! Il Campia pur era ferito; molti
ufficiali e soldati giacevano alla rinfusa morti o semivivi al suolo.
Battute le ali, battuto il
centro, non giungendo soccorso veruno, era mestieri sgombrare il terreno. Senza
riserve, senza artiglierie numerose, che valessero a tenere in distanza il
nemico, era impossibile eseguire con ordine la ritirata. Le discipline erano
infrante; le voci dei capi non venivano più udite. Ognuno, per naturale istinto
di vita, cercava uno scampo. Il disordine e lo scompiglio erano da non dirsi.
Il capitano Malenchini giungeva
fortunatamente a rannodare i suoi bersaglieri e qualche altro dei volontari, e
teneva in rispetto l'irrompente nemico, il quale intendeva di tagliare la
ritirata dalle Grazie.
Il professore Giuseppe
Montanelli colle parole e cogli atti infiammava i compagni; e intanto che
pietoso dava l'ultimo bacio di affetto ad un giovine amico, caduto morto a'
suoi piedi, una palla lo feriva nella clavicola e cadeva. Il Morandini
sorreggevalo, lo difendeva da un'orda di Croati, e veniva con esso lui tolto
prigione; tenevano loro dietro in Mantova il Barellai e il Paganucci, giovani
chirurghi, i quali, per mancanza di ambulanze, non avendo potuto salvare i
feriti, vollero seguirli per aver cura di essi.
Bella prova di eroismo forniva
l'aiutante Giuseppe Cipriani, il quale cedeva il proprio cavallo al generale De
Laugier nell'atto che, stramazzato al suolo e calpesto dai suoi cavalieri in
fuga, era per essere raggiunto da un drappello di ulani. Il Cipriani, uno dei
gravemente offesi in Curtatone pella esplosione delle polveri, rimase sempre al
suo posto; e comechè soffrisse moltissimo per la scottatura delle carni, fu uno
degli ultimi a ritirarsi dal luogo del combattimento.
Passato il ponte, che era
minato, le confuse schiere si riordinavano, e lentamente potevano procedere
verso Goito, ove giunsero sull'annottare. Quivi, oltre al consueto presidio
toscano e napolitano di 940 fanti, 14 cavalli e due cannoni, sotto gli ordini
del colonnello Rodriguez, nessun altro corpo trovavasi. Che aveva detto e
promesso adunque il Bava? Quel generale s'era infatto recato in Goito; ma era
ritornato a Volta, senza mandare un soccorso ai fratelli, che, credenti nella
sua parola, facevano sacrificio della vita, col combattere un nemico
numerosissimo e fornito di tutto: speravano che i loro cadaveri avrebbero
spianata la via a debellarlo completamente. Bava ritornava a Volta, e
tranquillamente si poneva a contemplare col canocchiale gl'incendi e l'eccidio
dei generosi Toscani. La storia ha già rimeritato quel generale della sua
condotta.
Sguernite le posizioni delle
Grazie e di Curtatone, Radetzky spingeva forti colonne ad investire quel pugno
di eroi, che, con una ostinatezza senza pari difendeva ancora i ridotti di
Montanara. Ma alla furia dei colpi e alle grida dei nostri, gli Austriaci
credevano che fossero truppe fresche allora allora sopraggiunte, e
indietreggiavano; era d'uopo agli ufficiali porsi alla testa delle colonne,
perchè le loro schiere disanimate tornassero all'assalto.
Poco oltre le ore quattro, il
generale Lichtenstein si avvedeva che i casolari della Santa erano sprovveduti
di armati, e, marciando per quella volta, sboccava sulla via maestra, e
minacciava alle spalle i compagni del Giovannetti. L'intrepido Toscano
contrastava palmo a palmo il terreno, finchè, vedendo indebolite le sue file, e
scorgendo farsi ognora più spessa l'onda nemica, avvertito pure che le altre
linee erano già state abbandonate ordinava la ritirata. Appena passata la porta
di Montanara, quel nodo di prodi vedeva dinanzi a sè chiusa la strada di Santa
Lucia.
Il colonnello si teneva sulla
destra coi Napoletani e coi volontari, e spingeva un reggimento in colonna
dietro l'artiglieria per difenderla. La spessa mitraglia lo sgominava; i
cannonieri anch'essi saltavano il fosso a dritta, e spargevansi pei campi; il
solo tenente Araldi, comechè ferito, rimaneva al suo posto. Incitato dal
Giovannetti a ritirarsi, rispondeva: «Un buon artigliere, quando non può
salvare i suoi pezzi, muore su di essi.» E trascinava a braccia con sessanta
volontari i cannoni nella cascina ov'erano deposti i feriti, e quivi proseguiva
un fuoco micidiale contro il nemico per più d'un'ora, finchè, da varie parti
gli Austriaci entrati nella cascina, e que' pochi uomini dopo una disperata
difesa, ridotti a soli dieciasette, feriti tutti, egli rimaneva prigioniero.
Giovanni Araldi sarebbe stato morto di baionetta nemica, se un ufficiale degli
ungheresi, il barone Lazzarini di Fiume, vedendolo a cadere sul pezzo, non
fosse corso a lui per salvarlo.
Dopo parecchi tentativi, e
sempre combattendo, il Giovannetti poteva imboccare in una traversa, che l'introduceva
sulla via di Castellucchio, da cui proseguiva co' suoi, trafelati e stanchi, il
cammino verso Marcaria e San Martino.
Il nemico non potè menar gran
vanto della sua vittoria, scorgendo delusa ogni preconcetta speranza. Soltanto
quattro cannoni andarono perduti per mancanza di cavalli che li trasportassero.
Le bandiere furono tutte salve. Gli ufficiali Lavagnini e Andreini, che, con un
drappello di soldati d'ordinanza le avevano in custodia, cinti da ogni lato,
presso a cadere prigionieri, ritolsero le insegne dalle aste, e, celatele sotto
la divisa, religiosamente le spartirono in Mantova tra i compagni. E quando
furono liberi mostrarono ai loro conterranei quelle onorate reliquie, come
memoria d'un infelice destino e della loro intemerata fede.
Nella giornata del 29 maggio
1848, gl'Italiani non vennero meno a sè stessi. Ricordandosi che in quel
medesimo giorno, nel 1176, i loro avi, pochi di numero, avevano in Legnano
combattuto e vinto i soldati del Barbarossa, fecero prove stupende d'abnegazione
e di valore. Per tre volte fu suonato a raccolta; indarno. Tutti fermi nel
proposito di far vedere al nemico quanto valesse il braccio dei figli d'Italia,
tutti volevano morire sul campo. Ma alla fine, pensando come fosse migliore
serbarsi a successi più prosperi, frementi si ritiravano, lasciando sul suolo
zuppo di sangue, lacere membra, morti molti e feriti, e molti prigionieri. E
nella morte e nella prigionia non ismentirono il nome italiano. Tutti sino
all'ultimo gridarono: Viva l'Italia. Molti di essi e per ingegno e per
dottrina erano le più belle speranze della patria: v'erano avvocati, medici,
professori, artisti, studenti, che formavano la parte più eletta delle città
toscane. Morirono venticinque di Firenze, sei di Pistoia; altri di Livorno, di Pisa,
di Lucca, di Montepulciano, di Massa, d'ogni terra: molti in battaglia, alcuni
nella ritirata, altri nella prigionia; tutti fieri amatori della libertà della
patria.
Accenniamo que' giovani
immortali, che, come i trecento di Sparta, insegnarono ai superstiti che per
vincere bisogna saper morire; li accenniamo per causa di venerazione, e per
ricordare ai nuovi campioni il sangue che spetta le loro vendette. Che
gl'Italiani si rendano degni di coloro che dai primi albori del nostro
risorgimento, hanno con prove indefesse o continue preparato le vittorie della
nostra libertà, che come gl'immortali di Dario hanno sempre presentato la
stessa fronte al nemico, allora sì che il completo affrancamento della patria
diverrà un fatto compiuto.
Leopoldo Pilla, professore
dell'università di Pisa, nacque a Venafro, patria del celebre capitano
Giambattista Della-Valle, primo scrittore italiano di fortificazione, il dì 20
ottobre del 1805.
Gli scritti e gli esempi paterni
di certo instillarono nell'animo di Leopoldo i primi amori della scienza, cui
aveva a recare tanto lustro e decoro, e più le avrebbe arrecato incremento e
copia di trovati e di utilità, se gli fosse bastata la vita, se una vita sì
preziosa non fosse stata con tante altre generosamente e debitamente esposta
per la salute e la libertà d'Italia. Ed a che giova la vita, la scienza e la
gloria quand'è schiava la patria? Le provincie e i reggimenti di cavalleria
sentivano il difetto dei chirurghi da mascalcìa; sicchè sorgeva in Napoli un
collegio di coteste discipline, per educarvi numerosa gioventù. Colà faceva i
suoi studi il giovine Leopoldo Pilla, già inviato nelle lettere dall'archeologo
Cotugno, e nelle scienze fisiche dal chiarissimo Niccolò Cavelli, e ne uscì
ornato di buoni studi in fatto d'Ippiatria, di Zoologia e di scienze naturali.
Ma non si sentì chiamato all'arte pur generosa di ricercare, e sapere, e curare
i mali gravi delle bestie. Per la qual cosa più e meglio si volse alla terra; e
coltivando poi gli studi geologici, egli presto s'accorse che assai
difficilmente ne avrebbe potuto trarre frutto di vita, nè voleva, anche
potendolo, vivere delle discretissime entrate della sua casa, tanto più
ch'altro fratello e due sorelle avevano bisogno di ricorrere al patrimonio. Non
lasciando dunque da parte i suoi lavori prediletti, vi congiunse gli studi di
medicina, come secondari in vero e come espedienti di professione. Infatti il
primo suo lavoro è quello della vita scientifica del citato Cavelli, ch'ei
lesse nell'Accademia Pontaniana l'anno 1830. Nè faremo le maraviglie vedendo un
giovane com'era il Pilla, promettitore di sicura ed eminente riuscita nelle
scienze naturali, vivere negli ultimi posti de' medici militari d'un ospedale.
Imperocchè generalmente negli eserciti e allora più in Napoli, tenendosi in
maggior pregio la vita de' cavalli e delle bestie da tiro, si affidava la
salute del soldato a giovani, o a praticanti di pochissimo valore. Pure il
Pilla, al cui animo gentile ripugnava di certo un servigio, che non avesse egli
potuto ministrare con tutte le forze dell'ingegno e dell'animo, preferì anche
in quell'officio il ramo piuttosto dell'amministrazione e della statistica. E
in questo suo intendimento potè essere viemmeglio confortato, dappoichè
risaputasi la sua passione e la sua valentìa nelle cose naturali, il generale
che comandava allora supremamente le milizie napolitane, ed era vago
d'impinguare il patrimonio co' negozi dell'allume, dell'ossidiana, delle acque
termali, de' cappelli di certa materia vegetale, consultava sempre il Pilla. Cotesta
meritata e pesata protezione, non che la sua bella fama, la quale di dì in dì
cresceva rapidamente, lo fecero eleggere fra quei professori dell'arte salutare
e delle scienze naturali, i quali furono dallo Stato spediti in Vienna e nella
Germania per istudiarvi la malattia venuta in Europa dalle regioni asiatiche,
che desolò l'Italia e sovrappiù Napoli e Palermo.
I terreni meridionali fra' più
ricchi d'Italia, richiedevano una gioventù studiosa de' naturali tesori; nè più
erano que' tempi che l'Italia, e in ispecie la parte di mezzodì, potevasi
contentare di tenere solo il campo dell'agricoltura e della pastorizia. Più non
era stagione di esclusioni e di sapere privato, in cui chiamavansi i minatori
sassoni e stiriani per aprire e coltivare le miniere di Calabria. Anche ai
ministri meno veggenti si presentava il bisogno di avere non già per vanità e
per pompa una cattedra nel pubblico Studio di Napoli; ma più e più geologi e
mineralogisti, i quali avessero potuto disaminare e scorrere e studiare la natura,
più che sulle pagine, nelle viscere de' nostri terreni, quasi lasciati vergini
e sconosciuti al martello e alla trivella del ricercatore.
Per le quali considerazioni il
ministro dell'Interno indusse il Pilla a lasciare quel posto di chirurgo
militare, alla cui gloria davvero non aspirava, nè poteva aspirare il geologo,
e a mostrarsi cittadino veramente utile ed operoso, in que' tempi d'industria
nazionale, nelle ricerche e nelle aperture delle miniere; tanto più che, morto
di recente il vecchio professore dell'Università, poteva un dì più che l'altro
ascendere meritamente a quell'offizio. Dovette egli credere a cotesta spacciata
protezione, la quale non era punto quell'altra, più povera forse, ma subita e
pronta e franca del soldato; era la protezione tronfia, magnificante,
abbottonata dell'uomo di Stato, secondo i tempi infausti e codardi. Gli si
voleva mostrare il posto vuoto, perchè la scienza fosse stata cortigiana e
stesse inchinata innanzi al superbo ministro, e intanto il Pilla rimaneva senza
l'antico officio modesto, e senza il magnanimo soccorso annunziato.
Si accorse dunque, come aveva
già avuto sempre in animo, dover meglio fondare sul favore del popolo e
dell'universale, che su quello del famoso Mecenate; talchè non si addormentò
su' guanciali delle promesse de' Grandi, ma guardò alla scienza e alla sua
fama, e nel 1836 fece un viaggio nella Sicilia e nella Calabria per studiare
l'attacco degli Appennini, come lo dimostrano certe sue scritture.
Gli studiosi di scienze
naturali, massime di geologia, non erano molti in Italia; Pilla ne aprì uno
studio; anzi, come annunzio più solenne e come più solenne malleveria del suo
valore nell'insegnamento, lesse nella grande sala dell'Accademia Pontoniana,
fra ripetuti e grandi applausi, un Discorso accademico intorno ai principali
progressi della geologia ed allo stato presente di questa scienza.
L'insegnamento suo privato ebbe
grandissimo successo. E volendo tornare utile a' suoi cittadini, quand'era
appunto il tempo di non aver bisogno del braccio altrui e dell'altrui
predominio nelle imprese di scavazioni, di combustibili e di minerali, e
sentendo già il bisogno d'ogni affrancamento dallo straniero e della libertà
della patria, faceva pubbliche nel 1841 alcune Conoscenze di mineralogia
necessarie per lo studio di geologia, dove in ogni pagina contiensi quanto
è necessario a preparare lo studioso alle cognizioni geologiche.
Intanto all'occhio del governo
pareva troppa vergogna fare sì lungo tempo rimanere chiusa la cattedra pubblica
di mineralogia; e alla fine il Pilla vi nominava professore, ma professore
interino solamente.
La Corte toscana allora era in
Napoli: le tradizioni di civiltà, la estimazione maggiore in che tenevansi in
quella Italia di mezzo le discipline e i pubblici studi, la minore gelosia e la
veruna paura che, a differenza di Napoli, ispiravano colà gli uomini sapienti e
dediti alla gloria d'Italia, e forse un certo tributo di omaggio alla casa di
Carlo III, che aveva onorato il cittadino di Stia, Bernardo Tanucci; tutte
queste cose insieme fecero dall'Università di Pisa dimandare al Gran Duca
d'invitarvi delle capacità eminenti, in ispecialità nella geologia, nella
chimica e anche nella medicina frenologica; vieppiù indotti i Toscani dalla
decrepitezza del professore di chimica, cui erasi concesso il riposo, e dalla
divisione delle due cattedre di zoologia e di geologia, non meno che dalla
scarsezza che allora facevasi colà sentire in cotesti campi scientifici, di
uomini egregi.
Il Pilla, prima di lasciare
Napoli, recossi dal ministro dell'Interno per ringraziarlo delle sue parole, e
prendere congedo. Quegli, con modi del tutto sconci, osò dire al professore: Eh
dovreste ricordarvi ch'io vi tolsi di mano il lavativo!
Non terremo presso alla vita del
Pilla durante gli anni che fu professore a Pisa. Diremo come, quando i comizi
scientifici italiani succedevansi di anno in anno, egli, che lieto vi vedeva il
bene delle scienze, e lietissimo ne scorgeva le conseguenze morali e politiche
della divisa Italia, non mancò di farvi risuonare la sua voce o mandarvi le sue
scritture.
Sul cominciare del 1846 il
ministero toscano, dov'erano ministri un Homburg e un Paucr, voleva aprire il
passo a' Gesuiti, e si provava a stanziarvi le suore del Sacro Cuore, tenute
come antiguardo della milizia gesuitica, e già raccettate dalla contessa
Buturlin, sotto il gradito e onorevole nome di suore della Carità. Gli amici e
protettori della Compagnia stimarono esser Pisa il primo asilo più acconcio; ma
il popolo e l'Università se ne sdegnarono forte, sicchè ì professori sottoscrissero
una dignitosa petizione, e fu tra essi il Pilla, comunque vi fossero stati
negativi il Mori, i due Savi, il Padelletti e Del Padule.
Ma a' mali morali si aggiunsero
quelli di natura, dacchè un'ora dopo il mezzodì del 15 di agosto di quello stesso
anno una romba simile a quella di lontana bufera, annunziava un flagello che
doveva contristare buona parte di Toscana. Succedeva un tremuoto, ch'empieva di
terrore e di rovine quel tratto di paese, che si distende fra Orbetello,
l'isola D'Elba, la Lunigiana e la montagna di San Marcello. E Leopoldo Pilla
pianse quel caso e ne studiò le cagioni, e ne raccolse i fatti, recandosi in
vari luoghi, e più specialmente in Orciano, popolata di 800 abitanti, la quale
divenne un mucchio di sassi, e in Castelnuovo della Misericordia, dove
rovinarono trentatrè case rusticali; pubblicandone una importantissima
descrizione, venduta a beneficio de' danneggiati. Nè passò molto tempo, che
pose a stampa il primo volume del suo Corso compiuto di Geologia, il cui
secondo volume non si poteva ancora pensare dovesse apparire postumo nel 1849.
Fra' pochi, cui parve sicura la
morte gloriosa sui campi di Lombardia, si fu di certo Leopoldo Pilla. Il quale,
eletto capitano d'una compagnia del battaglione universitario, stimolando al
cammino e alla guerra il governo e la scolaresca, fu solamente tranquillo alla
vista del nemico. E presago di sua prossima fine, tant'era acceso al
combattere, appunto al quartiere generale delle Grazie, il dì 22 maggio scrisse
di sua mano il suo testamento, per provvedere a innocente e caro bambino di tre
anni, che portava il suo nome medesimo. E furono queste le sue solenni parole:
«Siccome la vita e la morte è
nelle mani di Dio, così trovandomi nel campo toscano nella santa guerra della
Indipendenza Italiana, e potendo mancare a' vivi, esprimo in questo foglio la
mia ultima volontà in parte: Lascio a Giuditta Nocentini, ed alla sua sorella
Teresa, tutto il danaro contante che si trova chiuso nella scrivania dentro
alla mia stanza di studio a Pisa, e di più il letto più grande della mia casa
con tutte le suppelletteli annessevi. Dichiaro che il bimbo Leopoldo Nocentini,
che è custodito dalla prelodata Giuditta, è mio figliuolo. Lascio a questo
bimbo tutte le suppellettili di casa, fuorchè i libri scentifici, e di più i
soldi, di cui posso rimanere creditore dal governo, a condizione che egli
rimanga sempre in casa della prelodata Giuditta, la quale gli ha fatto ufficio
di madre. Raccomando questo bimbo al governo, se mai la mia opera e le mie
fatiche hanno potuto essere in qualche modo utili alla Toscana.»
Tardi fu chiamato a combattere
il battaglione universitario, dov'era un fremito generale di guerra; e quando
si fu giunti al bivio fra le Grazie e Curtatone, dove si rimase fermi per più
di un'ora, il capitano Pilla era fra' primi a gridare di doversi e volere
accorrere prontamente. E parecchi de' militi, mancando alla disciplina,
lasciarono un'ora innanzi il battaglione; ma il Pilla, il quale avrebbe pur
voluto farsene guida, rattenuto dall'idea della riverenza alle leggi militari e
dell'esempio, rimase dolorosamente obbediente.
Lieto egli della vita di guerra,
ritornato da Peschiera, di cui volle osservare i lavori dell'assedio, invitò il
dì 28 alle Grazie i suoi amici carissimi e compagni d'arme Ginnasi e Fonseca,
uno che cadde pur vittima alla domane e l'altro prigioniero. E nel giorno
appunto della pugna stava Leopoldo sopra un rialto con Mossotti: gli scolari
pregavanli di ritirarsi perchè troppo esposti. Ma vi sono delle ore supreme
della vita, in cui l'uomo generoso non vive la vita propria, che un granello di
piombo può sperdere, ma la vita nazionale, contro cui non hanno nessun potere i
passeggieri trionfi della tirannide e dell'usurpazione. Poco dopo, una scaglia
gli fracassò l'antibraccio destro, e gli lacerò corrispondentemente il basso
ventre. Lo raccolse il Bini, che gli era innanzi nell'abbarrata, al cui
orecchio giunse un grido e si voltò. Accorsero poscia il Livi e altri due
scolari, i quali lo posero su moschetti; e passando per quell'usciolino
medesimo, pel quale pochi minuti prima era entrato il battaglione, lo menarono
sull'argine destro dell'Osone, avendo a sinistra le Grazie, dove lo lasciarono
colla speranza e quasi colla certezza che un'ambulanza lo avesse
raccolto.
Ferdinando Landucci,
maggiore nelle milizie stanziali, nacque a Pescia nel giorno 4 dicembre 1791,
morì alle Grazie il 17 maggio 1848, per ferita riportata nel combattimento del
giorno 10.
Armando Chiavacci, nacque
a Pistoia il 18 agosto 1818, morì a Montanara il 29 maggio. Fin da quando fu
istituita la guardia nazionale in Pistoia, Armando fu fra' più volonterosi ed
accesi sostenitori di essa. Laonde egli colla signora Bracciolini ed altre
signore concittadine, e con altri che meglio potevano esser di esempio, si recò
a Firenze nella memoranda giornata del 12 settembre 1847.
Nel marzo del 48 egli, fatto
foriere, si diresse alla frontiera passando per San Marcello, piano Asinatico e
l'Abetone; ma nell'animo suo combattevano potentemente gli affetti della
famiglia e gli affetti di patria, ai quali risolutamente pospose ogni altro. Ma
scoraggiato dalla lentezza del procedere, dalla discordia tra comandanti e
comandati, e dalla poca disciplina, lasciò il suo corpo, desiderando trovarne
uno ove fosse maggior ordine e vigoria di comando. E sul cominciare dell'aprile
tornava a Pistoia ed a Firenze a rivedere la madre inferma e la sorella: poi il
dì 6 del medesimo mese prendeva lo schioppo e il sacco dalle mani dell'Odaldi e
dal gonfaloniere di Pistoia; e con alcuni altri della compagnia Bellorini si
volgeva a Bologna per arruolarsi in quella del modenese Piva, antico soldato
napoleonico. E il dì 10 di aprile scriveva da Revere ad un suo amico
grandissimo: «Nel vedere il Po e quelle immense pianure, nel calcare questo
suolo desolato ed afflitto, mi sono sentito compreso da entusiasmo e da
orgoglio indefinito, pensando che anch'io sono qua, e che presto coi
Napoletani, Romani, Lombardi potrò io pure combattere e versare il mio sangue
pel santo riscatto.» E il 20 di aprile scriveva: «Sono in Montanara e sto
benissimo: spero di battermi, e allora starò meglio.»
Il suo cuore era generosissimo,
e di impeto subitaneo, benchè facile ad essere vinto e ragionevolmente
persuaso. Quand'era risoluto davvero ad una impresa, sentivasi impaziente, durante
il tempo che pur era necessario ad ottenere lo scopo. Dopo di che ognuno
intenderà che non altro che la fortuna (la quale mai non gli era stata amica)
lo avrebbe potuto salvare da essere vittima della guerra. Un soldato cittadino
come lui generoso, tenero, impetuoso, impaziente, infiammato dell'amor della
patria e della gloria italiana, doveva pei primi cadere il dì 29 nell'impari
tenzone sulle abbarrate pur troppo deboli di Montanara, ferito in fronte da
palla di moschetto.
Luigi Pierotti, volontario,
nacque a Pistoia nel 1818, fu ferito mortalmente alle Grazie il 29 maggio, e
morì all'ospedale di Castiglione delle Stiviere, ai 7 di giugno 1848.
Alberti Bechelli,
volontario, nacque a Pistoia agli 8 di dicembre 1828, morì a Curtatone il 29
maggio.
Luigi Barzellotti,
volontario, nacque in Pian Castagnaio, morì il 29 maggio a Curtatone. Ferito
volle pur continuare a combattere; il professore di matematiche di Pistoia, che
gli caricava il moschetto, e dicevagli di ritirarsi, lo vide cadere a terra tronco
del capo che una palla di cannone gli aveva portato via.
Pietro Parra, volontario,
era nato a Pisa; era giovane; era ricco; ma non per questo era felice.
Imperciocchè egli aveva un'anima nobile e sentiva che gioventù e ricchezza sono
perle vanamente sprecate per chi appartiene ad una famiglia di schiavi, per chi
si sa figlio d'una Nazione, che non può levar la testa nel consesso delle
Nazioni. E convinto di questo supremo dovere, gemente com'era la Toscana sotto
la sferza d'una polizia tirannica ed onnipotente, univasi con animo pronto alle
politiche manifestazioni che avevano luogo in patria contro le mene de' Gesuiti
e dei Gesuitanti. Nè de' liberi sentimenti faceva vanto, quieto e tranquillo
nelle pareti domestiche, dove l'amore della famiglia lo circondava, tra'
fondatori del giornale l'Italia; cosicchè quella libertà che ne' giorni
del pericolo aveva coraggiosamente sostenuta, non adulò poi vilmente, quando
mostrarsi libero divenne facile coraggio, e il santo nome di patria suonò senza
merito sulle labbra di tutti. Ma per l'Italia parve un giorno solenne, parve
giunto il momento di frangere con uno sforzo generoso il giogo di dieci secoli;
e l'idea d'indipendenza si mostrò vicina a ricevere la conferma dal fatto.
Il 22 marzo, Parra partì coi
volontari, lasciando il suo grado di capitano per stringere un moschetto. Ma
quelle milizie cittadine, per altrui colpa, tergiversavano nelle montagne di
Lunigiana, e per incerti ordini; sicchè a lui che la causa italiana, non la
municipale Toscana, era surto a difendere, parve quella un'angustissima sfera
d'azione; e lasciando i compagni corse ai campi di Lombardia col fratello
Antonio, con Luigi Fantoni e Giovanni Frassi. E annoverato nella colonna
dell'Arcioni volò verso il Tirolo, ove prima pareva doversi incontrare il
nemico.
Ma volto appena verso Rezzato,
la malattia di suo fratello lo costringeva a tornare in Brescia, per deciderlo
a riprendere la via di Toscana, e provvedere sotto il patrio cielo alle cure di
mal ferma salute. I due fratelli si separarono, e fu straziante l'addio, come
se un mesto presentimento dicesse loro, non doversi rivedere mai più. Intanto
la legione toscana aveva passato il Po, e stava a campo sotto Mantova; talchè
si prevedeva da tutti, avrebbe essa avuto luogo a sostenere ardue e luminose
fazioni di guerra. Parra allora, in compagnia di Giuseppe Montanelli, volle
tornare fra' suoi, dai quali soltanto lo aveva diviso il pensiero, che
potessero non esser serbati alla gloria della battaglia.
Giunse al campo di Curtatone,
dov'era stanziato il battaglione pisano; e benchè non iscritto a nessuna
compagnia, divise la dura vita e le costrizioni morali che alle anime generose
sono il più duro sacrificio, poichè per esse è momento di festa quello nel
quale ferve più accesa la mischia. Era di poco giunto al campo toscano, quando
la prima scaramuccia ebbe luogo il dì 5 di maggio, alla quale accennando;
scriveva a sua madre, che stava allora in Desenzano «Appena giunti qua, abbiamo
portato fortuna.»
Presente allo scontro vittorioso
del 13 di maggio, d'altro non si lamentava che d'aver dovuto restare a guardia
della trincera, invidiando chi da bersagliere si era avanzato ne' campi,
inseguendo più da vicino il nemico. Comunque fosse, egli ebbe parte in quella
gloriosa giornata; e qualche tempo dopo andò a Desenzano per abbracciarvi la
sorella e la madre, e insieme con Montanelli potè stare all'assedio di
Peschiera, ed avere, com'esso diceva, la consolazione di vedere due bombe
scoppiare a' suoi piedi. La sorella e la madre volevano trattenerlo ancora, ed
esso sentì la forza del dovere maggiore di quella dell'affetto, e il 25 di
maggio partì pel campo.
Intanto sorgeva l'alba del 29;
le scaramuccie, gli scontri, che avevano avuto luogo fino allora, cedevano il
passo ad una vera, a una disperata battaglia, dove, come vedemmo, il valore
d'una mano di Toscani osava tener fronte per sette ore all'urto delle migliaia,
al fulminare delle artiglierie austriache.
Egli, incorporato in quel giorno
alla compagnia Malenchini, fu sempre per tutto ove maggiore incalzava il
pericolo: vide per tre volte piegare gli Austriaci, li vide tornare rinforzati
all'assalto, e quando la disperata resistenza dovette cessare, per le munizioni
scoppiate, per le artiglierie sguarnite, quando si dovette volgere a ritirata,
che fruttò più d'una vittoria, alla voce di Montanelli, il quale gridava a
pochi: «Dobbiamo morire ma non ritirarci,» lo seguì al posto disperato del
Molino, e là, mentre accanitamente ferveva la mischia, che oramai non era più
che parziale, una palla lo colpiva nella fronte, e, stendendolo senza vita su'
campi sanguinolenti, gli cingeva alla fronte la corona del martirio.
Torquato Toti,
volontario, nacque il 18 febbraio 1823 in Val d'Arno, morì il 29 maggio a
Curtatone.
Roberto Buonfanti,
volontario, vero sacerdote del Vangelo, nacque il 20 novembre 1826 in
Lamporecchio, morì, credesi, il 29 maggio a Curtatone. Ove giaccia la sua
spoglia mortale s'ignora. Forse che la mano del nemico la compose nel sepolcro.
Neppur breve nota indica al passante il nome di lui. Ma che ci cale? Anco le
ossa di Francesco Ferruccio non sappiamo ove sieno; non pertanto la fama lo
consacra fra gl'immortali, alla gloria delle opere grandi, all'eternità.
Domenico Vincenti,
volontario, nacque in Santa Reparata di Corsica nel 1828, morì il 29 maggio.
Riccardo Bernini,
volontario, studente di medicina, nacque a Livorno nel 1827, morì alle Grazie
il 29 maggio, colpito nel petto al di là delle barricate che egli saltò per
andare incontro all'inimico.
Giovacchino Biagiotti,
volontario, nacque a Firenze nel 1829, morì a Curtatone il 29 maggio. All'urto
poderoso delle falangi austriache, fra' primi che opposero disperata resistenza
fu Giovacchino. Il quale, quando il valore tornò vano sul numero, sdegnoso di
sopravvivere, con pochi de' suoi, fra il piombo e le scaglie che gli
strisciavano sul capo, passò le abbarrate; nè restò dal combattere finchè,
fulminato dalle batterie nemiche, cadde morto sul campo. E infatti il
chiarissimo chirurgo supremo Zannetti, incapace di esagerare i fatti, lo
chiamava giovane coragiosissimo ed ardente.
Raffaelle Zei,
volontario, studente di medicina, giovane di raro ingegno, nacque a Firenze il
16 novembre del 1829; ferito di molti colpi il 29 maggio a Curtatone, morì nel
campo nemico. Come quella del Buonfanti, ignorasi ove giaccia la sua salma.
Giuseppe Ginnasi,
volontario, nato a Imola nel 1827. Nel 1848 trovavasi all'università di Pisa; e
allo scoppiar della guerra di Lombardia muoveva col battaglione dei suoi
condiscepoli, e si trovò alla mischia il giorno 29. Quando vide che già da
qualche ora combattevasi e il suo battaglione rimaneva inoperoso, corse dove il
pericolo era maggiore, cioè ai posti avanzati della sinistra, ove era una mano
di Napoletani sotto gli ordini del tenente Fonseca. Combattè da prode, quantunque
la natura non lo avesse fornito di grande coraggio: ma lo incitavano il
sentimento, il dovere, l'amor della patria e il farsi degno della mano di una
carissima vergine. — Colà una scheggia di granata lo ferì primamente alla
fronte, e tosto che l'ufficiale ebbelo con una pezzuola medicato alla meglio,
ritornò al fuoco. Altri, dopo la ferita, avrebbe stimato terminare il proprio
ufficio: non così il Ginnasi. Anzi pieno d'ira nel veder morto il fratello
della sua sposa, il suo maestro, l'amico, uno dei più splendidi intelletti
d'Italia, raddoppiò di valore. Ma ecco cominciava la ritirata, rimanevano soli
quei pochi, nè il tenente voleva abbandonare il posto. Si ripararono poi dietro
una casa, e di là continuarono a far fuoco, caricando i moschetti sotto le scale,
quando una palla di stutzen colpì nel petto il Ginnasi e lo gittò sul
terreno. Nè fu possibile raccoglierlo, imperocchè, incalzati vieppiù, si ebbero
gli altri a ridurre in una casa ed abbarrarla: donde udirono i lamenti del
povero moribondo che diceva ripetutamente: «Ungheresi, uccidetemi.»
I fratelli Sforzi. —
Temistocle Sforzi nacque in Livorno il 24 luglio 1826. Fu di ingegno pronto e
vivace, di animo schietto e generoso. Negli anni più giovani frequentò le pubbliche
lezioni di San Sebastiano, e poi la scuola privata d'eccellente Istitutore.
Proclive assai al divertimento seppe però spregiarlo quando il dovere lo
esigeva, e lo dimostra il felice esito con cui subì tutti gli esami sì nella
Università di Siena, che in quella di Pisa, ove attese allo studio delle
scienze naturali. — Nell'anno appunto in cui doveva conseguire la laurea,
scoppiò la guerra della Indipendenza; e come aveva posposto al dovere di
studente i sollazzi che tanto allettano l'età giovanile; così al dovere di
cittadino sacrificò non solo gli agi e le mollezze delle quali in tempi
ordinari era anche troppo curante, ma eziandio il piacere per lui grandissimo
di essere spesso in seno della famiglia; e si espose a perdere (come pur troppo
perdè) un avvenire lieto, quale lo facevano presagire il buon esito de' suoi
studi, e un mediocre censo domestico. Ottenuto, dopo replicate istanze, il
consenso del padre, partiva da Pisa col battaglione universitario, ansioso di
difendere colle armi quella indipendenza che aveva gridato nelle feste di
settembre. Chi ha conosciuto il gracile temperamento e le abitudini di
Temistocle Sforzi, dice, non potersi niuno immaginare come egli abbia potuto
sopportare i disagi del cammino e del sereno.
Pure nulla di ciò lo turbava;
giunto in Lombardia, non di altro si lagnava, che di essere lontano dal fuoco,
e invidiava gli altri due fratelli che erano nel luogo dell'azione. In data del
5 maggio scriveva alla famiglia da Marcaria, accennando lo scontro del 4, e
soggiungeva: «Forse Aristide avrà veduto i nemici, ed avrà con essi cambiata
qualche palla, e noi, del Battaglione Universitario, che dovremmo esser l'anima
de' volontari, ci tengono qua a poltrire almeno dieci miglia distanti dal
campo.» Le quali parole, alteramente disdegnose, ei ripeteva al suo capitano e
parente, professor Puccinotti, ed al suo amico d'infanzia e compagno di studi,
Azzati. E nel 16 maggio, da Castellucchio, chiedeva al padre un permesso
scritto e autenticato dalle Autorità competenti, onde, in caso di scioglimento
del battaglione universitario, entrare nella Civica fiorentina «per potere
essere utile alla patria, per la quale sinora ho sofferto senza riportarne
onore veruno, mentre tutti gli altri corpi di volontari, almeno sanno per prova
che cosa sieno le moschettate.»
Il pericoloso onore che tanto
agognava, lo ebbe finalmente nel 29 di maggio. Colpito nel ventre da una palla
di cannone, spirò dopo pochi momenti; e fu il primo a morire nel passaggio del
piccolo ponte di comunicazione fra le due parti del campo, rimanendo ferito dal
medesimo colpo l'altro milite Brachini di Siena.
Aristide, l'altro
fratello di Temistocle, nacque in Livorno il 16 giugno 1830. Fino dalla sua
infanzia mostrò intrepidezza non comune, anzi disprezzo del pericolo e del dolore.
— Agli studi letterari mostrava preferire una vita più attiva e faticosa.
Chiese ed ottenne di entrare nella Marineria di Guerra Sarda, ma gli
avvenimenti del 1848 gli fecero cambiare proposito.
Partì da Livorno come milite
civico colla prima colonna comandata dal capitano Mussi, comunque si sentisse
spezzare il cuore lasciando la madre che lo guardava stupefatta, avendo da
qualche tempo smarrito il senno e la ragione. In età di non ancora diciotto
anni sopportò tutti i disagi delle marce nè mai nelle sue lettere accennò a
lagnanze; la traversata dell'Appennino, fatta con un temporale orribile, non
strappò dalla sua penna che espressioni di compiacenza: «ora posso dirmi
soldato perchè ho potuto tollerare questi disagi senza risentirne danno.» —
Anzi, quanto più pativa e più si avvicinava ai pericoli, tanto più si
innamorava della vita militare, e quindi chiedeva al padre il permesso di
arruolarsi nel primo Reggimento di linea. Ottenne finalmente il sospirato
consenso, e nonostante il difetto di età, fu scritto nella 6.a
compagnia del 2.° battaglione, colla quale combattè il 13 maggio a Curtatone,
mostrando un ardore che da molti era tacciato, e forse con ragione, di
temerità, scusabile per altro in lui giovanissimo.
Piacque ai superiori di ordinare
in altro modo il Reggimento; ed egli fu allora collocato nella 4.a
compagnia del battaglione medesimo. Con questa si trovò a Montanara il 29
maggio, e là dopo distinte prove di valore, cadeva mortalmente ferito da un
colpo di moschetto. Così periva Aristide Sforzi innanzi di compiere il
diciottesimo anno, lasciando immersa nel lutto una famiglia, che doveva
piangere la perdita di Temistocle nello stesso giorno a Curtatone, e deplorare
ancora la prigionia di un fratello degli uccisi, Napoleone.
Cesare Taruffi, volontario,
nacque a Firenze il 6 gennaio 1832, morì a Montanara il 29 maggio.
Giuseppe Amidei,
volontario, nacque a Massa Marittima il 28 agosto 1823. Sebbene allevato in
povera ma onesta famiglia, sebbene educato al lavoro ed al grave lavoro
dell'incudine e del fuoco, sentì che oltre al babbo e alla mamma, eravi una
mamma più ancora venerabile, la patria: oltre ai doveri di cristiano e
dell'officina, eranvi quelli non meno sacri del cittadino e della patria. E
perchè avesse meglio inteso i suoi doveri, imparò a leggere e scrivere.
Maggiore di sei figliuoli, tre fratelli e altrettante sorelle, egli avrebbe
voluto esser di conforto a' bisogni della famiglia col suo amato genitore. Il
quale, incuorandolo di certo a ben fare quando, era chiamato come milite della
guardia nazionale, agli esercizi e ai doveri della pace, seppe con
ammirabilissime parole accommiatarlo, abbracciandolo piangendo, e dicendogli:
«Sai, il tuo dovere ti chiama; e se fossi più giovine, volerei anch'io in
soccorso della patria. Ultime parole che il giovine ascoltò, e che il padre
gl'indirizzò. Imperocchè al 29, combattendo con animo fierissimo all'estrema
difesa del Molino, fu ferito nel braccio sinistro, e condotto a Castiglione
delle Stiviere, sopportando coraggiosamente i patimenti della ferita, nè
d'altro lamentandosi che d'esser posto nell'impossibilità di pugnare, in
quell'ospedale il dì 11 di luglio diede l'anima a Dio.
Giuseppe Fusi,
volontario, dottore in medicina, nacque a Massa Marittima il primo di novembre
1831, morì il 29, valorosamente combattendo, colpito da una palla di cannone
nel momento in cui stava piegato per evitare lo scoppio d'una bomba vicina.
Raffaele Luti,
bersagliere, nacque ai 24 ottobre 1826 a Sant'Angelo. A 19 anni andava
all'Università. La medicina, come scienza d'affetto, ministero di carità e
scuola di verità, gli piacque meglio, e l'abbracciò non come mezzo venale di
brancicarsi così materialmente, ma come scopo santissimo da intendervi anima,
ingegno, vita, tutto sè stesso.
Andato a Pisa, anzichè sfrenarsi
a una vita sollazzevole e lieta, parve raccogliersi più che mai nella sua
abituale melanconia, melanconia mista a una certa alterezza, che ai pusilli
pareva superbia, e non era; era invece sentimento della dignità dell'uomo, era
tensione continua dell'anima a cose alte e generose. Parlava poco, ma con
posatezza soave, con un senno, spesso sovra l'età; co' maggiori di sè ei si
teneva in silenzio, i ciarlatani tanto di caffè che di trivio che allora allora
erudivano, nè anche d'uno sguardo li avrebbe degnati.
Una madre tenerissima lo
richiamava ogni dì tra gli affanni di un dolore disperato; la salute stessa
cominciava a pericolare. Qual cosa più potente in un'anima buona delle
preghiere d'una madre? Povero Raffaello! Si hanno sott'occhio le lettere sue
d'allora; chi sa le lagrime di cui le bagnava! che sforzo gli sarà costato lo
scrivere al tuo fratello Luigi, che pur lo pregava a tornare: «Chi sente
l'onore, non macchia la vita di quest'obbrobrio. Intendo l'angoscia d'una madre
e d'un padre; il pensiero mi strazia l'anima, e mi adiro col mio destino, che
non mi diede genitori simili a quelli che scrivono a' figli: «non tornare a
casa, se non onorato; tutto sacrifica alla patria.» Però se gli altri seguitano
col conforto della famiglia, io col disconforto, ho un merito doppio, peno
doppiamente: consola e persuadi. Cosa difficile, comprendo, parlare
all'affetto, perchè, perdio, non si può parlare alla ragione.»
Queste parole ei le scriveva da
Reggio il giorno di Pasqua, 23 aprile, le quali parole ogni giovane italiano
vorrebbe saper dire a 22 anni; ed esse come valgono ad onorare una vita
intiera, così le vogliamo scolpite a ricordanza di sì caro nome, a vergogna
delle ignave e stolte superbie, ad eccitamento di maschie virtù, in luogo sacro
ai martiri della patria.
Alberto Acconci,
bersagliere, nato a Pisa il 9 dicembre 1828. Alberto nell'allontanarsi dalla
casa paterna sentiva palpitare il suo cuore diviso in due affetti. — La
speranza di salvare la patria, il dolore di aver lasciato i suoi cari genitori.
Vinto però dal suo primo dovere, la mattina del dì ventidue marzo 1848 si unì
alla Civica pisana, salì nel convoglio della ferrovia lucchese, e, giunto a
Lucca, si diresse a Pietrasanta, da Pietrasanta a Fivizzano, e quivi, unitosi
al battaglione senese, traversò gli Appennini.
Colà il padre gli scriveva
perchè ritornasse in patria presso l'adorata famiglia, la quale non attendeva
che il momento di riabbracciarlo. Ed egli rispondeva in questo tenore: — «Se
ella è mio padre, non mi discorra di tornare adesso, che vi è qualche pericolo.
Fino dalla mia prima età ho sognato questo momento, e adesso che è giunto non
dovrei approfittarne?» — E soggiungeva — «Dica da parte di tutti coloro che
sono qua con me, quei tali che ci chiamano vagabondi, dica loro, che se non si
crepa tutti, torneremo, e sapremo loro rispondere, che il vile ha sempre
bisogno di una scusa per nascondere agli occhi di tutti la sua dappocaggine.» —
E più sotto ancora: — Sento con piacere che stiate tutti bene, ed io pure
starei, se il desiderio di rivedere la mia famiglia non mi facesse alcuna volta
stare di cattivo umore: ma per ora ci vuol pazienza. Iddio mi darà forza, e mi
farà combattere per la salvezza dalla mia bella Italia, e se a Lui piacerà,
ritornerò sano e salvo a rivedere i miei.»
Giunto a Mantova, dopo varie
scaramuccie avute coi nemici, il tredici maggio 1848, Alberto Acconci non solo
si distinse per il suo coraggio, quanto ancora per la sua destrezza delle armi:
ed il ventinove, combattendo da valoroso, facendo animo a' suoi amici, e
difendendosi colla maestria di un vecchio soldato, cadde sventuratamente
prigioniero.
Ognuno può immaginarsi il
dolore, l'angoscia e la disperazione che regnava nella famiglia Acconci dopo il
giorno ventinove. Eglino credevano estinto il loro figlio, e ne avevano ben
donde, poichè stettero un mese e mezzo nella più crudele incertezza e
nell'assoluta mancanza di sue notizie. Finalmente parve che il cielo volesse
mettere un termine al loro dolore, e la mattina del dì diciassette luglio 1848
giunse una lettera di Alberto diretta a suo padre, che lo ragguagliava della
sua prigionia.
Egli scriveva da Budwei quando
giunse l'ordine di trasferirsi a Theresienstadt.
Giunto in quel luogo (facendo
quasi sempre a piede quel viaggio per non togliere sui carri un posto a chi
egli nella sua delicatezza credeva ne fosse più degno), ricevè lettere di sua
famiglia, scrisse varie poesie, e si mostrò cogli amici pieno di coraggio e di
rassegnazione. Ma, oh fatalissima circostanza! o fossero i disagi del
lunghissimo tratto di strada che aveva percorso, o fosse il cattivo vitto, o il
clima variabilissimo e costantemente umido di quel luogo, una sera dopo qualche
malessere provato durante il giorno, gli comparve una febbre. La credè una
effimera, e giudicò non essere necessario il riguardo. Nel secondo e terzo
giorno la febbre tornava, ma non essendo accompagnata da gravi sintomi, pensava
di superarla senza bisogno di costituirsi ammalato. — Io desidero morire presso
di voi, diceva a' suoi compagni, piuttosto che andare all'ospedale. L'ospedale
mi fa orrore... non so perchè... ma sento che ci ho una grande avversione. — Il
quinto però essendo più forte la febbre, cedè alle istanze di tutti i suoi
amici, che gli promisero di assisterlo e di mai abbandonarlo, come infatti
fecero, e fu condotto all'ospedale.
Alla sordità si aggiunse
l'insonnio continuo, quindi il vaniloquio, un delirio placido, e finalmente
dopo due giorni di continuo sopore, il dì diciassette agosto 1848, spirò fra le
braccia de' suoi più cari amici. Prima che fosse entrato in delirio, diceva
spesso ai suoi compagni: — Io sento che è giunta l'ultima ora, eppure
assicuratevi che morirei più volentieri, se fossi sicuro di lasciare l'Italia
libera. Ah! potessi almeno rivedere i miei genitori, i miei fratelli; i miei
parenti!... quando sapranno la nuova della mia morte.... mi amavano tanto!...
infelici!... e dovrò morire lungi da loro senza rivederli mai più!... Ah! per
pietà, che eglino non lo sappiano!... io sono certo che ne morirebbero di
dolore! — Dopo di ciò, uscito fuori di sè non si udiva che proferire queste
interrotte parole: — Madre mia!... Padre mio!... mia bella Italia!... morte ai
Tedeschi!...
Achille Becheroni,
bersagliere, nacque in Poggibonsi il 5 ottobre 1817. Spuntati i giorni sereni
del risorgimento italiano, e suonata l'ora del riscatto, partì, caldo d'amor di
patria, nella seconda compagnia del primo battaglione dei volontari. Giovine
pieno a ribocco d'onore, ma educato alla bellezza e alla pace delle arti, era
assai inquieto, e passò dal primo al secondo battaglione nella compagnia dove
erano tenenti Federico Fabbrini e Ferdinando Materassi. Poco dopo fece altro
mutamento per combattere nei bersaglieri, e per essere insieme con altri
artisti. E avendo affrontati con ardore tutti i disagi della insolita vita, il
29 maggio 1848, ferito mortalmente, da due palle nel basso ventre a Montanara,
morì, dopo 24 ore, nelle stanze dell'ambulanza di Mantova, di morte gloriosa e
onorata, e fra il compianto de' suoi compagni d'arme, che con lui eran caduti
vivi, nelle mani dell'inimico.
Pietro Pifferi;
bersagliere, nacque in Arcidosso di Val d'Orcia nell'anno 1828. Quando scoppiò
la guerra patria si arruolò nella quinta compagnia del secondo battaglione. Il dì
29 fu ferito alla coscia destra e menato all'ambulanza; ma essendo pieno il
luogo, venne collocato sulle stanghe per salvarlo dall'inimico che
sopraggiungeva. Nè però si sottrasse alla morte, chè piombò la cavalleria
ungherese; ed il soldato Baroncelli, ordinanza del capitano Giannelli, il quale
anch'esso era fra i feriti, dette al Pifferi il suo moschetto, ed egli con
fermezza e coraggio indescrivibile lo scaricò addosso ai nemici. Della qual
cosa irritati gli ungheresi, si dettero a menare in tondo e alla cieca i loro
squadroni su tutti quegli sventurati, e più sul Pifferi, che fu orribilmente
mutilato e quasi ridotto in pezzi.
Alessandro Ceccherini,
bersagliere, nacque a Pisa da genitori popolani nel 1824; ferito mortalmente il
29 a Montanara, morì a Mantova i primi di giugno.
Pietro Sarcoli,
volontario nei bersaglieri, nacque in Massa Marittima il 26 giugno 1817.
Giovane serio per natura, e sempre prudente e morigerato, ei non tenne come
pompa vana l'officio e l'abito di milite nella guardia nazionale; finchè
all'annunzio della guerra, prima di scriversi soldato volontario co' suoi
compagni, avuta la notizia che potesse la fortezza di Ferrara essere assalita,
vi si recò rapidamente, e non essendosi poi verificato quest'assalto, raggiunse
in Viadana la compagnia, dov'erano annoverati i suoi carissimi Massetani. Il
Sarcoli il 29 era distaccato con dieci uomini ad un posto avanzato. Quando i
nemici sopravvennero, e col numero soverchiarono i nostri; egli non si volle
ritirare. Proseguì colla baionetta spianata contro gli Austriaci e fu
trucidato.
Paolo Sacchi, nacque a
Bibbiena. Appena scoppiata la guerra s'inscriveva nella settima compagnia dei
volontari. E quanto amor di patria sentisse e di quanto coraggio avesse pieno
l'animo solennemente il dimostrò a Curtatone il dì 29, quando i suoi soldati,
restati privi di cartucce per l'incendio de' cassoni di munizione, egli andava
a cercarne nelle tracolle dei morti in mezzo a una grandine di palle e di
razzi, sempre mantenendosi il medesimo fino a che una palla d'archibugio non
gli passò una coscia. Egli dapprima voleva disprezzare la ferita, e a chi
amorosamente dimandavagli: «che! sei ferito?» rispose: «non è niente, non è
niente» e intanto si fasciava là dove sgorgava il sangue. Ma non potè durare
lungamente, e quindi trasportato in una casa poco distante sulla destra del
lago, fu con altri fatto prigioniero e menato all'ospedale di Mantova.
Forte e robusto, potè in pochi
giorni essere a tale da muovere per la Germania, ed era a Theresienstadt,
quando vennegli la lieta novella del cambio dei prigionieri. Partì immantinente
ma quella vita che era rimasta salva in cotanti pericoli non potè superare una
febbre cagionata anche dalla riapertura della ferita, che gli sopraggiunse in
Budwei; e così in terra straniera rimase il di 22 di agosto il corpo trafitto
di Paolo Sacchi.
Clearco Freccia,
volontario, nato nel 1831 a Noceto. Lasciato lo scalpello correva nel 1848 a
combattere le battaglie della patria indipendenza. Il dì 9 di maggio il
battaglione in cui era inscritto dividevasi colle stanze fra Rivalta, Sacca e
Castelvecchio; e Clearco, volendo correre i maggiori pericoli, e non esser
fermo di presidio, si unì a' bersaglieri, comandati e ammaestrati dal valoroso
maggiore Beraudi piemontese in Monteggiana sulle rive del Po.
Così combattè strenuamente il dì
29 nel campo di Montanara, e mortalmente ferito insieme al Becheroni, furono
entrambi menati prigionieri in Mantova, dove all'alba del dì 30 insieme
spirarono nelle stanze di osservazione nell'ospedale, senza un abbraccio e una
lagrima pietosa de' fratelli e degli amici.
Francesco Barzacchini,
volontario, nacque il 21 luglio 1821, in Campiglia, morì a Montanara il 29
maggio.
Francesco Pierallini di
Bibbiena, soprannominato il Grillino, fu figlio unico di onesti pigionali. E
quantunque, giovine di diciannove anni, fosse sostegno ai vecchi genitori col
guadagno che ritraeva come garzone di postiglione, cioè come stalliere, pure
quando Milano e Lombardia si scossero, sentì anch'esso il bisogno di consacrare
all'Italia la sua vita. E non ebbe pace finchè non partì per Firenze con altri
volontari del paese; ma giunto al deposito, non fu arruolato perchè mancante
del permesso paterno. Laonde ripartì il medesimo giorno per Bibbiena, e si
presentò al povero padre che, quasi previdente dell'avvenire, non voleva
accordargli il suo consenso; ma dovè cedere quando scôrse la ferma risoluzione
del giovane italiano, di togliersi la vita primachè esser scherno dei suoi
compagni e de' suoi concittadini. Col desiderato permesso ripartì lietissimo, e
ricomparve al deposito colla massima sollecitudine: ed ivi fu arruolato, e fin
da quel momento diceva di esser diventato il giovane più felice della terra. Al
campo, questo popolano fu esempio di valoroso ed ubbidiente milite, ed amore della
sua compagnia. Il giorno 29 maggio 1818 fu il primo, cui una palla di moschetto
colse mortalmente alla fronte; e di subito spirò fra le braccia del suo
compatriota tenente Ghilardi.
Virgilio Bernardini,
volontario, nacque il 1832 a Convalle in quel di Lucca. Alla battaglia di
Curtatone, dopo la prima ora di fuoco, salito sul parapetto della trincea,
sdegnando di parare il suo corpo, fu colpito in fronte da una palla, e cadde,
gridando più volte: Viva l'Italia!
Giuseppe Solimeno, nacque
in Marciana il dì 10 febbraio 1806, ferito mortalmente il 29 maggio, morì il 1
dicembre 1848 dopo dolorosa malattia, sopportato colla massima rassegnazione.
Giuseppe Nerli di Siena,
deposto il grado tributatogli nella milizia cittadina, si distaccava
dall'amorosa madre, volava ai campi di Lombardia. Ultimo negli onori, primo ai
rischi e ai disagi, intrepido e feroce nel conflitto, pio, umano modesto,
docile, mansueto fra i suoi, ei presto rendevasi modello ai guerrieri della
libertà; e ben tale suonava e suona sempre il suo nome fra quanti durarono con
lui quella infelice e gloriosa guerra. Nel 29 maggio rimasto con un solo
compagno tra i nemici ferri, rispettabile ai nemici stessi per indomito valore,
fu preso alfine e fatto prigione. Sopportò dignitoso i quattro mesi di sua
cattività; fu paziente nella malattia contratta fra i travagli del campo; ma il
cordoglio dei pubblici casi vinse le sue forze usate già con tanto abbandono.
Attaccato dalla miliare, dissimulò alla povera madre il corso pericolo, e
sperò, nella breve tregua avuta dal fiero morbo, tornare a lei consolatore del
lungo affanno. La infelice gli corse incontro al ritorno, lo abbracciò
vaneggiando, e nelle care sembianze ravvivate in quell'ultima gioia, non lesse,
delusa! la imminente ruina. La cruda lue, appresa sordamente agli organi
respiratori, insorgeva di nuovo, e dopo poca lotta, già puro e disposto a
miglior soggiorno, spegnevalo tra le braccia di quella desolata.
Roberto Menabuoni, nacque
il 19 luglio 1827 in Livorno. Lo scoppio della guerra lo chiamava nei campi
lombardi ove difatti si inviava fra i primi il giorno 21 marzo 1848, quantunque
afflitto da dolori reumatici acquistati poche notti avanti, allorquando nel
compiere l'ufficio della ronda cittadina gli avvenne di scoprire ed inseguire
alquanti malfattori. Partiva esso col primo battaglione livornese, comandato
dal Mussi, e precisamente colla prima compagnia del capitano Dupuis. E ad un
amico, il quale avendo stabilito di partire egli pure fra militi, lo impegnava
ad aspettarlo per partire poi insieme solo due giorni dopo, il Menabuoni
risolutamente rispose: «Ho dato la mia parola d'onore e parto oggi.». Nè
valsero a ritenerlo neppure le calde esortazioni della famiglia, e specialmente
del padre. E partì, tribolando pel dolore alle gambe; del quale però in breve
restò libero, come egli stesso dopo non molti giorni scriveva. E coi Napoletani
si trovò il 4 maggio al fatto di San Silvestro; ed ivi si segnalò per valore ed
ardire, tantochè poco mancò non fosse ferito, come avvenne al suo compagno d'armi
è d'affetto Riccardo Lacomba, che cadde il primo nelle mani del nemico. Il dì
29 era nella linea aperta de' bersaglieri di Montanara, aspettando con ansia di
scaricare il suo archibugio già preparato, allorchè disgraziatamente fu colpito
per negligenza da ferita mortale che subitamente il freddò. Lo piansero
italianamente i suoi cari; e del padre suo desolatissimo non vogliamo tacere
una bellissima azione, che meglio si scorgerà nelle due lettere seguenti:
«Cittadino ministro,
«Quando la patria ha d'uopo di
soccorso, ciascuno faccia quel che può. Il sottoscritto perdè un figlio per
l'italiana indipendenza: ebbene, sia pace all'anima sua.
«Oggi, tanto esso, quanto la di
lui famiglia, ascoltano le grida dell'eroica Venezia e le destinano la piccola somma
di lire fiorentine cinquanta, inviandole a voi, cittadino ministro, acciò,
unite alle altre sovvenzioni, possano essere di qualche utile a quei valorosi
italiani.
«Con distinta stima si pregia di
essere
«Livorno, 8 gennaio 1849.
«Di voi, cittadino ministro
dell'interno
«Umil. devot. servo
«Bartolommeo Menabuoni»
Il ministro F. D. Guerrazzi
rispondeva il giorno 10:
«Cittadino,
«Leggiamo nei libri santi, come
il Signore, di tutte le offerte, gradisca principalmente l'obolo della vedova e
dell'orfano; e la patria sopra ogni altra, in verità io ve lo assicuro, avrà
accetta la vostra offerta, che io chiamerei volentieri il dono del dolore.
Non temete, no, che la vostra moneta vada confusa con le altre; ella vince di
splendore quella dell'oro, perchè sfolgorante di ardentissimo amore e di
sacrificio cittadino.
«Il cuore vostro di uomo forte
vi ha consolato della morte del figlio; e poichè voi siete di coloro che si
mostrano capaci di virili conforti, io vi dico che non si muore cadendo per la
patria, ma si vive nella memoria degli uomini e nelle sedi più beate del cielo,
dove si accolgono le anime elette. Credete, o, buon cittadino, a questa
religione; imperciocchè, se tale fu la religione di Cicerone, di cui porge
testimonianza nel sogno di Scipione e di Tacito, come si legge nella Vita
d'Agricola, perchè non dovrebbe essere la nostra, dopochè con bene altri
precetti e con divina certezza ce la rivelava Gesù Cristo, amico di ogni
oppresso, nemico di tutto oppressore?»
Ulisse Renard, nacque a
Firenze nel 1823. Quando sorsero le voci di guerra, e si andava da molti con
ampie parole tentando gli animi de' giovani più arditi, Ulisse rispondeva con
brevi, ma vere e sentite parole: «quando sarà il momento di combattere, non
s'avrà che ad annunziarmelo soltanto, e non sarò secondo a nessuno.» Infatti
lasciò subitamente Castiglion Fiorentino, appena intese le prime mosse, e partì
volontario in uno de' battaglioni. Fu a' diversi fatti combattuti il 4, il 10 e
il 13; e nella giornata del 29 aveva ricevuto tre ferite, una al piede, due al
braccio, e pure non andava all'ospedale. «Ritirati» gli dicevano i compagni e
gli uffiziali; ma egli rispondeva, bastargli ancora la vita, e tutta volerla
dare all'Italia libera. Un cannone era per cadere nelle mani dell'inimico: vi volevano
audaci cittadini e soldati per salvarlo, e primo tra essi andò il Renard; ma lì
presso venne colpito mortalmente da una palla nemica e cadde sul campo.
Liberato Molli, nacque in
Arezzo nel 1822. Come architetto e ingegnere fu sempre adoperato alla tumultuaria
costruzione e al mantenimento delle deboli trincee del campo in Montanara; ma
non volle mai nè per viltà, nè per avarizia, pur di fatica, nè per aumento di
provvisione lasciar la veste del caporale; sicchè, ora costruiva ed ora
vigilava, quando ristaurava e quando proteggeva i campali baluardi; e ne prese
cotale infreddatura, che il dì 25 di maggio fu obbligato dal chirurgo maggiore
Chelli di cavarsi presto sangue e starsene qualche tempo guardingo in letto. E
scriveva appunto in que' momenti di ozio una lettera al Pierotti, in cui, fra
altro, così diceva: «Se mi sono prestato e mi seguito a prestare per le
fortificazioni, lo faccio colla paga solita cha passano a' comuni, e ho
rifiutato l'aumento, non dovendo esser lo scopo d'un buon figlio d'Italia
l'interesse, ma sì vero la buona volontà d'occuparsi pel felice esito della
santa causa per cui siamo mossi. Pur troppo si va dicendo che parecchi di noi
stanno qua per speculazione, non già io e la maggior parte.» E in questa
medesima lettera proponevasi di disegnare la chiesa e il posto delle Grazie,
sicchè dimandava seste e righe e occorrenze da disegno. Ei lasciava subitamente
l'ospedale ambulante per trovarsi alla già preveduta zuffa. Era appunto sui
parapetti di Montanara, quando il furiere della sua compagnia, Leopoldo
Pierotti, dicevagli: «Smetti, Liberato, oramai sono buone quattr'ore che fai
fuoco. — È il mio dovere, rispondeva, dammi un solo bicchier d'acqua, che ho
arsa la gola.» Andava subito l'amico, ma ritornato, una palla coglieva in fronte
il Molli, il quale spirò sul suo parapetto.
Paolo Caselli, nacque a
Firenze nei primi del 1831. Mentre a Curtatone ferveva la pugna, gli ufficiali
della compagnia, a cui apparteneva, dissero animosamente: «Giovanotti, chi di
voi ha audacia e valore lo mostri: deggionsi portare le cariche a' nostri posti
avanzati, che già cominciano a difettarne.» E Caselli, presane buona quantità,
arditamente si spinse innanzi. Ma più non tornò fra' suoi, e veduto il bisogno
pugnò nell'antiguardo e perì da forte.
Pietro Simoncini, nacque
a Fucecchio. Nel 13 maggio fu ferito a Curtatone nella parte superiore
dell'avambraccio sinistro, per cui fino al 29 luglio seguente stette
all'ospedale di Villafranca sotto il chirurgo Burci, professore nell'Università
pisana.
Ripatriò il 3 di agosto 1848,
ricondotto dal suo fratello Giovacchino (chè se arrogi Francesco, erano al
campo tre fratelli) e si mise sotto cura rigidissima; perocchè per due consulti
fu minacciato della mutilazione. Ma poscia dalla estrazione di diversi frammenti
e schegge degli ossi radio e ulna, si erano formate delle caverne
intorno del condotto fistoloso, le quali facevano deposito, ed in alcune di
esse rendendosi difficile lo scolo, chè le materie dovevano ripassare contro il
proprio peso, si rese indispensabile la contro apertura, dietro cui migliorò
assai. Sempre però accusava offeso il braccio; ma infine riprese servigio, e
poteva considerarsi guarito.
Ebbe a patire carcere in
Samminiato dopo la ristorazione in seguito di processo; perocchè alla fin fine
divennero sospetti colà tutti quelli che avevano combattuto per l'Italia. E per
dolore, e per le conseguenze della ferita, nel febbraio dell'anno 1851 si
rimise in letto, e agli 8 di luglio ad un'ora pomeridiana morì.
Pio Foresti, nacque in
Casale il 19 gennaio 1813. Ai primi rumori della rivoluzione di Milano
abbandonò ogni cosa per offerire il suo braccio alla guerra santa; e, vinta la
ripugnanza de' genitori, che, come unico figliuolo, lo persuadevano a
rimanersene a casa, si arruolò volontario nella legione Torres. — Giovane alto
di statura, di colorido pallido, ma di fibra gagliarda, e d'indole aperta e
risoluta, non tardò a dare prove di singolare bravura e di molta perizia nelle
fazioni campali, per cui fu promosso al grado di maggiore della legione. — Ma
quella milizia andò in breve soggetta a sinistre vicende, e ai 17 di aprile Pio
Foresti scriveva da Goito al vecchio suo padre le seguenti parole:
«La legione Torres, nella quale
io era maggiore del secondo battaglione, venne disfatta sotto Mantova tre
giorni fa, ed in pochi ci siamo ritirati con marcia retrograda qui a Goito. —
Molti sono i partiti che mi vengono offerti: — prima però d'accettare voglio
intendermela col comitato del governo provvisorio di Milano.
«Spero per altro di aver tempo a
fare una gita a casa per passarvi le feste di Pasqua. — Se però non potessi, e
dovessi invece trovarmi presto nuovamente in faccia al nemico, ella non si
turbi perciò, perchè, passando anche nel numero dei più, sarò lieto abbastanza
di aver data la mia vita alla patria.
«Tanti saluti a tutti, ed in
ispecie alla cara mamma.
«— In fretta addio.—
La Pasqua di quell'anno cadeva
ai 23 di aprile; ma Pio Foresti non potè adempiere il voto di rivedere i suoi,
perchè, essendosi riordinata la legione Torres, egli tornò a correrne le sorti
e ad affrontare il nemico. E innanzi Mantova, nella fazione di San Silvestro,
Pio Foresti, combattendo, cadeva il terzo giorno di maggio trafitto da una
palla che gli passava da parte a parte il petto, senza poter mettere altre voci
che Italia mia!
Enrico Lazzeretti, nacque
in Montepascoli il 17 maggio 1827. Fece prodigi di valore nel combattimento del
13 maggio a Curtatone, sicchè meritò la medaglia da Carlo Alberto. Ed oggi la
famiglia, che tien conto delle virtù cittadine di Enrico, le quali sono le
prime virtù del mondo, conserva religiosamente quella medaglia d'argento, e,
più che la medaglia, le parole del decreto, per aver sostenuto con molto
coraggio l'assalto del nemico, riportando nell'azione una ferita al lato destro
del torace.
Giovanetto com'era, chiamava,
morendo, la madre, e diceva al Buonamici, che ne raccoglieva l'ultimo sospiro:
«Ella non voleva lasciarmi partire; la desolata sappia almeno ch'io sono
spirato col suo nome carissimo sulle labbra e con quello d'Italia!»
Francesco Lotti, nacque a
Pisa nell'anno 1818. Allo scoppiare della guerra si scrisse volontario nella
prima compagnia del battaglione pisano comandata dal capitano Ferdinando
Ruschi, e combattè valorosamente in tutta la giornata del 29 insino all'ultima
ritirata: allora nel saltare una fossa fu colpito al fianco da una palla
dirizzatagli da un Croato, rimanendo supino su quel ciglio, e proferendo un
ultimo addio al fratello, ch'ei consegnava morente al suo compagno d'arme
Giovanni Donzelli, ch'insieme con lui fu più fortunato nel saltare
quell'ostacolo.
Leopoldo Fedeli, nacque a
Siena il 1 aprile 1825. Egli esercitava la professione di stipettaio; nella
quale si mostrava intelligente ed operoso; sicchè i lavori che uscivano delle
sue mani, erano non solo eleganti nelle forme, ma esattissimi e netti. Cogli
altri Sanesi ei partì per Lombardia il dì 24 di marzo 1848. Fu eccellente
milite e di carattere esemplare: buono, obbediente, indefesso alla fatica,
rassegnato a' disagi della guerra; e quantunque si fosse ammalato delle febbri
dei pantani fin dal 24 di maggio, e il dì 29 si trovasse assai debole e
febbricitante, si slanciò coi suoi fratelli d'armi nel pertinace conflitto a
Montanara, e fu ferito alla coscia destra. Rimasto prigioniero, fu menato dai
nemici in Mantova, dove imperterrito morì il dì 3 di agosto, tre giorni dopo
l'amputazione di quella gamba, che per tre mesi lo aveva fatto stare fra la
vita travagliata e la desiderata morte.
Tito Diddi, nacque in
Firenze nel 1826. Nella famosa giornata del 29, egli ricevè moltissime ferite
per fitta mitraglia, una delle quali all'inguine, che lo tolse di vita il 22 di
giugno, dopo giorni di prigionia nell'ospedale di Mantova. E si racconta della
sua costanza che, trafitto in terra, cercasse a un suo compagno lo schioppo
carico, e sollevatosi come potè meglio volle trarre almeno per l'ultima volta
contro il nemico d'Italia.
Alfredo Newton, inglese
di nascita, italiano per l'affetto che portava alla nostra terra. Non tratto
già da spirito inconsiderato di parte, ma da vero amor patrio, risolvè di
partire per la guerra, non convenendo, diceva, a lui oramai italiano, starsene
colle mani in mano, mentre gli altri, e singolarmente il fratello Gervasio,
esponevano il petto alle spade e al cannone. Andò dunque e sempre si segnalò,
singolarmente in due fatti d'arme, a testimonianza dei commilitoni superstiti.
Nella battaglia del 29 in Montanara fu ferito da due palle di moschetto alla
spalla sinistra, e caduto come estinto fu presso ad esser seppellito co' morti.
Per sorte un uffiziale austriaco, vedutolo dar segni di vita, lo fece
trasportare in Mantova, quando aveva già quasi vuote le vene di sangue: pur
tuttavolta riebbesi nello spedale, mercè le cure dei medici e di persone che le
rare sue doti gli amicarono ben presto. Intanto scriveva al padre più volte, nè
mai ebbe risposta, per sinistro invio di lettere. Fu annunziato nella lista dei
prigionieri già morti; e come tale fu tenuto per un mese all'incirca. Pienza,
terra ove erasi accasata la famiglia Newton, ne piangeva dolorosissimamente la
perdita, e con solenne funebre pompa ne ricordava la cara memoria; ed egli
intanto stava a confortare caramente il suo compagno di prigionia e d'infermità
Raffaele Zei, il quale gli offriva come segno di affetto e di ultimo addio il
proprio oriuolo, e Alfredo ricusando, quegli soggiungeva: «Tienlo, ti farà
comodo: tu non hai un soldo: io poche ore ho da vivere.»
Dopo alquanto tempo finalmente
vennero certissime novelle che Alfredo era ancor vivo. Il padre, che di quella
perdita era desolatissimo, si mosse per le poste alla volta di Mantova per
condurlo via. La nuova frattanto giunse ancora in Pienza, i cui cittadini
trasecolarono come di cosa che non pareva credibile. Riavutisi dallo stupore i
Pientini festeggiarono con pubbliche dimostrazioni d'esultanza e con rendimento
di grazie all'Altissimo il fausto annunzio. Alfredo tornò in braccio a' suoi
cari, malgrado però della spalla che tormentavalo sempre e mantenevalo
abitualmente arso di febbre. Migliorò nondimanco mercè le sollecite cure del
prof. Filugelli, e ottenuto alcunchè di miglioramento, eccolo col pensiero e
coll'anima tutta alla sua Pienza. Riassunto il grado negli offici di capitano,
la notte del giovedì santo del 1850, volle di per sè distribuire e vigilare la
civica nella visita dei SS. Sepolcri. La febbre ingagliardì e lo pose in letto.
Fu creduto vano ogni medico, e il 6 aprile, tra le smanie del male, quanto
repentino, altrettanto doloroso, rese la bell'anima a Dio.
Alfonso Mazzei, nacque a
Pistoia il giorno 29 settembre 1831, morì il giorno 29 maggio.
Mariano Mancianti, nacque
in Siena il 2 gennaio dell'anno 1817. Fece parte del battaglione sanese-pisano,
e nel dì 29 perdè fra' primi la giovine vita ne' campi di Montanara, trovandosi
per l'appunto una delle più avanzate sentinelle in quel posto. Gridò il suono
dell'arme, aspettò il nemico per ripiegare e congiungersi colle altre
sentinelle della Gran Guardia e del Sostegno, e, nel battere la ritirata, cadde
quasi in mezzo a' nemici, che forse nell'impeto dell'assalto gli calpestarono
il viso insanguinato.
Romualdo Bianchini,
giovane scultore allo studio dei Duprez, figliuolo d'un tappezziere, moriva il
29 maggio a Montanara.
Leopoldo Calosi, già
dottorato nell'Università di Pisa, scolare di belle speranze, morì a Montanara
il 29 maggio.
Tomaso Marchetti di
Bagnacavallo, di 27 anni all'incirca, il quale a Montanara fece prove di
immenso valore, e per una palla giuntagli alla gola, rimase freddo sul campo.
Colombi Cesare di Montepulciano,
studente di legge, morì ferito da cinque palle il 29 a Curtatone.
Zenone Benini di Firenze,
egualmente al canonico Bonfanti, ignorasi quando e come perisse.
Luigi Santini, del corpo
dei bersaglieri, fu ferito mentre animosamente combatteva presso il mulino di
Curtatone. I compagni, fra cui Giovanni Bozzano, incalzati furiosamente dal
nemico non poterono soccorrerlo. Ed egli, trovata forza per alzarsi dalla
caduta, passeggiava dietro una casa col petto insanguinato, aspettando senza
lamenti e con disperata rassegnazione la morte.— Il Bozzano era uomo di cuore veramante italiano e
commendabilissimo per bontà di costumi. Combattè animosamente alla trinciera:
cadde colpito da una palla di moschetto nella fronte e morì.
Gli altri valorosi volontari
morti sono:
Agostini Giovanni — Arrighini —
Baldi Angiolo — Bardi Lodovico — Barlei Francesco — Benozzi — Berlinghieri —
Bertuccelli Giorgio — Bianchi Gaetano — Boccardi Metello — Bonuccelli Raffaello
— Bozzano Giovanni — Brilli Lorenzo — Camagrani Ferdinando — Cartoni — Catani
Eugenio — Cateni Cesare — Ciaccheri — Ciacchi — Cialdi Giuseppe — Ciani
Ferdinando — Cinganelli Michele — Comasoni Ferdinando — Fondi Ferdinando —
Formichini — Francia Giuseppe — Franci Gioachino — Franchini Giuseppe — Giacomelli
Giovanni — Grossi Angiolo —Guidi Francesco — Lucchesi Ermenegildo — Marcucci
Nicola — Marendi Nicola — Marruzzi Nicola — Martini Angiolo — Martinelli Luigi
— Masetti — Masi, di Montereggioni — Masini Luigi — Mazzoni Angiolo —
Micheletti Pietro — Molinelli Luigi — Monaldi Milziade — Nardini Giuseppe —
Nusiglia Lorenzo — Paolo detto Giuseppe —— Pavolini Domenico — Pelagatti
Lorenzo — Pellegrini Francesco — Piantini Giacomo — Picchi Tito — Pieri
Giuseppe — Pierolini Domenico — Pietrini Pietro — Pizzetti Ottavio — Rafanelli
Ferdinando — Righini Angiolo — Rivi Stefano — Rossi Alessandro — Rossini —
Salvarelli Domenico — Sambuchi Angiolo — Sandrini Giulio — Santini Federigo —
Savelli Gaetano — Scatarsi Luigi — Scelli Pietro — Tassi Cosimo — Tomagioni
Lorenzo — Vibriani Leone — Vincenti Marco — Zellini Raffaello — Zocchi Gaetano.
I nomi conosciuti sommano a 194,
di cui solamente 70 appartengono alla truppa regolare e che sono i seguenti:
Angeletti Domenico — Balbiani
Eugenio — Baliotti Pietro — Benedetti Michele — Biagini Pietro — Bianchi Luigi
— Borelli Pietro — Bossi Samuele, cadetto — Brunetti — Bruscatini Ferdinando —
Camiciottoli Lorenzo — Caprilli Silvestro — Cartoni — Ciarpaglini Ellero,
maggiore — Ciocchi Pietro — Clementi Gian Battista — Colzi Riccardo — Comparini
— Comparoni — De Gambron Emmanuele — Donini Paolo — Fabbri Carlo — Foresti —
Franci Gioachino — Fratini Andrea — Gasperini Cesare — Gattai Onorato — Gavazzi
Pier Francesco — Ghelardoni Jacopo, tenente — Giannini Antonio — Giuntini
Oreste — Grassolini Eugenio, sergente — Gualtierolfi — Guarigieri Salvatore —
Guerri Lorenzo — Ilari Luigi — Innocenti — Landucci Ferdinando, maggiore —
Lenzi Giuseppe — Livi Gioachino — Lorenzoni Costantino — Lucchesi Giovanni —
Lupi Costantino — Lupichini Rinaldo — Luppicchini — Maffei Antonio — Mancini
Antonio — Marchi Luigi, cadetto — Mattioli Tito — Nosi Giovanni — Pallini
Michele — Pananti Claudio — Pelagatti Cristoforo — Pellegrini Francesco —
Pellegrini Costantino — Petronici Alessandro — Piccinini Pietro — Poggesi
Ranieri, cadetto — Pompei Gio. Antonio — Raspi Antonio — Rimbotti Giuseppe —
Sandrini Giulio — Scoti Cesare — Tellini Raffaele — Tognocchi Giuseppe —
Tonnacchera Andrea — Trani — Vigiani Giovanni — Viti Angelo — Zannoni Antonio.
Nella giornata del 29 maggio,
coi Toscani, pur da prode moriva Beraudi Francesco, piemontese, maggiore
nelle milizie stanziali del granducato. Era nato il dì 29 aprile 1801 in Boves,
borgo assai cospicuo nelle vicinanze della città di Cuneo, ultimo figliuolo di
molta prole. Indottosi alla vita del soldato, entrava nel 1816 nella brigata
Cuneo; nel 1822 era sergente nella brigata Pinerolo. Da grado in grado giungeva
nel 1848 al grado di capitano nel 13.° fanteria. Vi erano voluti meglio di nove
anni, e quasi un'èra novella perchè il Beraudi avesse con dispaccio del 26
febbraio 1848 il grado di maggiore, e fosse «destinato al servizio della
Toscana con paga e vantaggi fissati in Piemonte agli ufficiali dell'arma e
grado stesso, con soprassoldo di lire 1000 annue, oltre l'alloggio, con riserva
di ricollocarlo col suo grado nell'armata, e quando l'opera sua non tornasse
più utile al servizio toscano.» E tanto più lietamente vi andava; quantochè
l'unica sua sorella Caterina era colà maritata sin dal 1813 a Deograzias
Manetti da Oratorio presso Pisa. Giunsero in Firenze il dì 22 di marzo gli
ufficiali piemontesi, a' quali non fu data molta ingerenza; ma nessuno poteva,
nè voleva impedire che nei pericoli supremi quegli eccellenti ufficiali
avessero esposta, col pubblico vantaggio, la vita, facendo opera non pur di
prodi soldati d'Italia, ma di guide sapienti e di conforto. E Beraudi, perito
com'era negli esercizi e negli armeggiamenti da bersaglieri ammaestrò i più
svelti militi de' due battaglioni toscani a guerreggiare nell'ordine sparpagliato;
tenendo guardie frattanto sul Po verso Borgoforte insino al 4 di maggio. Nè si
contentò di ammaestrarli e addestrarli, volle bensì guidarli e con essi
bravamente pugnare. Laonde il dì 29, date le più acconcie disposizioni, disse
la sera al capitano Bellandi, il quale avea preso il comando dei bersaglieri ed
erasi presentato alla Canonica, dov'era l'alloggiamento del comandante:
«ritornate alla compagnia, e procurate di star pronti e dormire come le lepri.»
Alla domane egli era lieto e
animoso alla testa delle sue giovani ribollenti milizie; e spintosi primo
innanzi al fervore della pugna, fuori del campo trincerato di Montanara fu
gravissimamente ferito nell'ippocondrio sinistro, e non ostante fosse raccolto
dal sergente Luigi Maccianti di Prato Vecchio, che in quel giorno medesimo
cotanto si distinse, e da Bartolomeo Gaube, i quali lo menarono nel quartiere
del colonnello Giovannetti, e fosse poscia collocato con altri feriti sopra un
barroccio, pur ci cadde prigioniero al nemico. Nell'ospedale de' Cappuccini in
Mantova, il dì 31 giugno spirò pietosamente fra la mesta compagnia de'
prigionieri italiani, mandando l'ultimo sospiro all'Italia e al Dio degli
oppressi3.
Alla gloriosa sventura non solo
la Toscana, ma tutta Italia si commosse; e ai prodi che intrepidamente morirono
si fecero dappertutto solenni esequie, e si decretarono onori di epigrafi e di
monumenti.
Il giorno tre di giugno 1848 in
Santa Maria del Fiore4, e a gramaglia, e a fiori e a trofei, si
raccoglieva tutta Firenze per pregare pace alle anime dei generosi Toscani che
il sangue avevano versato per l'indipendenza della patria.
Ci piace riportare le epigrafi
dettate in quella circostanza. Al sommo della porta di mezzo leggevasi:
Ai Valorosi
Che il ventinove
maggio
Anniversario della
gloriosa giornata di Legnano
Nipoti non degeneri
del Ferrucci
Palpitanti di libertà
e di gloria
Sul Campo Lombardo
Per la santa
Indipendenza d'Italia
Morirono combattendo
come leoni
Pregate o Cittadini
———
Ai quattro lati del Tumulo:
Fortunati!
A voi toccò di morire
per la Patria
E potete dal Paradiso
Vagheggiare la grande
Vittoria
Frutto della vostra
morte.
———
Carissimi!
Finchè aura di libera
vita
Spiri su i colli del
bel Paese
Voi sarete il primo
palpito
D'ogni Italo cuore.
———
Benedetti!
L'Angelo il più
innamorato
Raccolse il vostro
sangue in calice d'oro
Arra d'intero trionfo
E Dio l'ebbe caro.
Gloriosi!
Palme di fronda
immortale
Crescono per voi
Martiri della Patria
Alla vostra eterna
memoria
S'ispirerà
l'avvenire.
———
Nella stessa Firenze poi i nomi
dei 25 suoi martiri furono incisi in tavole di bronzo e posti nei Panteon di
Santa Croce. A Pisa i nomi degli otto pur caduti per la causa della patria
vennero scolpiti in una lapide posta nel camposanto. A Pistoia i sei prodi di
Curtatone furono eternati nella facciata del palazzo municipale. Ai tre di
Massa Marittima, Pasquale Romanelli eresse un monumento. Una scritta rammentò
quei di Poggibonsi. Vedremo poscia come la reazione vincente muovesse guerra
anco ai santi Martiri.
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