Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Felice Venosta
I toscani a Curtatone e a Montanara

IntraText CT - Lettura del testo

  • I
Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

 

Il sabbato 18 marzo 1848, un popolo inerme sorgeva concorde, col santissimo nome di patria in sulle labbra, contro lo straniero oppressore. Era quello il popolo di Milano, il quale con solenni dimostrazioni aveva già fatto conoscere al tiranno, che l'opprimeva, come la dignità sua non avesse sbandita dal petto, come esso si accingesse a combatterlo, ove ai suoi giusti desideri non fosse fatta ragione.

Quando al diritto d'un popolo si sovrappone il falso diritto dei desposti, quando la sacra ragione giace schiacciata dalla forza, allora la coscienza di quel popolo trova al suo grido forme solenni, nobilissime dimostrazioni, che, svelando al mondo l'isolamento della tirannide, ne preparano la caduta. E, da queste generose proteste mosse la rigenerazione italiana sin dalla seconda metà dell'anno 1846. Milano sopratutto, ricorda con giusto orgoglio quelle gigantesche dimostrazioni, che segnarono irrevocabilmente la condanna dell'oppressione straniera e che rimarranno indelebili nel sacro volume della Storia.

La virtù del volere, spiegata di fronte alla brutale potenza delle baionette, il fermo proposito d'un popolo, consapevole del suo diritto e del suo finale trionfo, professato a viso scoperto, sotto gli occhi delle falangi nemiche, gridato all'orecchio dell'oppressore fu fatto mirabilissimo, infallibile foriero della nostra risurrezione. — Era il diritto che faceva tremare la forza.

Che disse allora, per calunniare Milano all'Europa, l'oppressore straniero? Disse che quelle dimostrazioni erano l'opera di pochi spiriti turbolenti e perversi, nemici d'ogni autorità e d'ogni governo, a cui il popolo, incline sempre a novità, affascinato ed illuso, traeva dietro. Rise l'Europa civile della stolta discolpa, ben sapendo che non è dato a pochi facinorosi d'imporsi al buon senso del popolo, e prevalere all'istinto d'ordine radicato profondamente nei civili consorzi. Essa sapeva che que' segni non erano che le aspirazioni di tutto un popolo stanco del servaggio.

Tale sacrosanta verità Milano mostrò nelle sue giornate di marzo. L'Austria non aveva più dinanzi a sè i pochi forsennati tumultuanti: essa si trovava di fronte un popolo, che aveva spezzate le catene, pronto a vendicarsi dei patiti martirî. Il potente straniero impallidì, tremò, fuggì dinanzi a quegli uomini che per tant'anni aveva conculcati, che aveva sempre riguardati con occhio di sprezzo.

Nelle prime ore della lotta i cittadini non avevano che pochissime armi: circa trecento fucili da caccia: qualche pistola, un pugno di vecchie sciabole, e quanti utensili domestici, ferri taglienti ed appuntati, cadessero nelle mani. Tutto per loro era buono a correggere le antiche ingiurie. E così sforniti d'armi furono sempre vincitori, perchè tutti avevano l'entusiasmo nel cuore, il valore nel braccio; perchè il coraggio era grande in tutti, quanto l'amore della libertà, quanto la coscienza del proprio diritto. Innumerevoli barricate, costruite dagli ingegneri del popolo, sorsero, come per incanto, in ogni via, custodite animosamente da fanciulli e da vecchi, mentre i più gagliardi si cimentavano a fronte del nemico, accorrendo ove più minacciasse il pericolo. Le campane tutte suonavano a stormo, eccitando sempre più i cittadini, e gettando nel petto dello straniero il terrore. Le donne fasciavano le ferite, incuoravano alla pugna, combattevano esse medesime; e non poche andarono famose per coraggio e per virile ardimento. Le persone, già più deboli e timide, allora, fatte forti e coraggiose dal pericolo della patria, instavano animosamente alla zuffa; e il fragore dei cannoni convertivano in argomento di festa e di scherzo. Chi non poteva fare altra difesa, gettava dalle finestre e dai tetti sassi, tegoli, legnami. Ogni classe di cittadini in quelle famose giornate fece prove stupende, e con uno splendido trionfo fu purgata la vergogna di 34 anni di turpe dominio.

Allato di questa gloria, altra anco ne vanta la memorabile rivoluzione di Milano; vogliamo dire la più che rara unica moderazione del popolo nella vittoria. Non furti, non saccheggi, non incendi, non private vendette, non insulti privati; alle persone, alle cose rispetto; rispetto ai prigionieri; mirabile contrasto colla barbarie, colla ferocia, la licenza degli Austriaci; e tanto più mirabile, che mentre il popolo accoglieva con amore il gregario vinto, sapeva che i fratelli prigionieri erano nel turrito castello spietatamente trucidati.

Il memorando trionfo del 22 marzo non si poteva ottenere senza grandi dolori, senza grandi sacrifici. L'albero della libertà non alligna che in terreno inaffiato col sangue dei Martiri. E copioso fu il numero di questi generosi, perchè grande era la forza dei nemici e più grande la loro efferatezza. I Martiri, che conquistarono e resero più preziosa la libertà di Milano, sommano a più centinaia: sono donne, vecchi, fanciulli, sacerdoti, cittadini d'ogni età, d'ogni condizione.

Il giorno 23 era in Milano un contento, una festa che sentiva del delirio. La coscienza di aver saputo col proprio valore cacciare l'abborrito straniero, rendeva baldo quel generoso popolo.

Dopo la vittoria, i Milanesi avrebbero voluto inseguire il fuggente nemico, stringerlo ai fianchi, distruggerlo. Ma quel movimento abbisognava di un capo esperimentato, che riunisse ogni fede; era pure mestieri che venissero ordinate le masse dei battaglieri della libertà; imperocchè, in campo aperto, ogni impetuoso valore diviene dannoso, ove non venga regolato dal senno di chi lo guida. In campo aperto l'uomo deve combattere a posta d'altri e non sua; altrimenti, la disciplinatezza del nemico, quantunque inferiore di animo e di numero, lo atterra e lo infuga.

L'entusiasmo del popolo milanese andò scemando sempre più tra i cantici e l'allegria. Quelli che continuarono ad essere i sopracciò della pubblica cosa non avevano la sapienza delle rivoluzioni. Essi lasciarono che il popolo s'intiepidisse, lasciarono che credesse già compiuta l'antica speranza, che tornasse alle usate faccende, ai piaceri. — Errore grandissimo e fatalissimo.

Nulladimeno, in mezzo a quella fiacchezza, parecchi, che l'adorazione d'Italia spingeva innanzi, partirono. Non avevano uniformità d'armi, nè di reggimento. Erano centoventinove, animosi giovani appartenenti a povere, agiate o nobili famiglie, i quali, sapendo come il debito d'ogni Lombardo non fosse interamente saldato sulle cittadine barricate, senza provvedimenti, senza vesti di ricambio, col solo moschetto dei cinque giorni, spensieratamente, ma colla esaltazione dell'eroismo, seguivano Luciano Manara, il quale, pel primo, dava esempi di abnegazione, lasciando la moglie, i figliuoli, le abitudini di lusso, tutto, per seguire gli impulsi dei suo cuore, e concorrere alla conquista della patria indipendenza, o morire.

Ma se que' che in Milano rimasero al timone degli affari, si mostrarono fiacchi non all'altezza del cómpito che più che il merito, il caso aveva loro affidato, non dormivano le genti italiane.

Da ogni città, da ogni borgo, da ogni villaggio, all'annuncio della sollevazione di Milano, sorgevano giovani volontari, i quali correvano sui campi lombardi per combattere le onorate battaglie del fraterno riscatto. Mancava in essi il freno della disciplina; non l'impeto. Fra gli uomini si notavano parecchie donne, a cui la debilità del sesso, la nessuna abitudine ai forti esercizi non erano impedimento all'impugnare le armi, ai disagi delle marce, alle privazioni d'ogni maniera1. Non mancavano sacerdoti, i quali, in nome di Cristo liberatore dei popoli, si erano fatti guidatori di squadre.

Il movimento dei novelli crociati era bello, grande, ammirato dai contrari, temuto dai nemici.

Non ci sentiamo abbastanza forti a descrivere il superbo spettacolo che la nostra Italia presentava in que' dì, in cui i padri, i mariti, i figliuoli, i professori, gli studiosi correvano a rivendicare col loro sangue i colculcati diritti, e a riconquistare a tutti una patria che uno straniero insolente ci aveva tolta. Dal Modenese, dal Parmigiano, dal Genovesato, dal Novarese andavano volonterosi aiuti ai Lombardi. Le Guardie nazionali di Firenze, di Pisa, di Livorno, di Siena si mobilizzavano, aventi a capo il colonnello Giovannetti. La principessa Cristina di Belgioioso traeva seco da Napoli un drappello di volontari, cui Ferdinando di Borbone aveva dovuto, suo malgrado, accordare le armi. Da Roma, guidati dai generali Giovanni Durando e Andrea Ferrari, partivano le truppe pontificie delle tre armature con parecchie legioni di militi cittadini. Da Milano, dopo l'esempio di Manara, partivano nuove guerriglie, le quali, là sul Garda, si univano, coll'intendimento di asserragliare i passi dello Stelvio e del Tonale, suscitare nel cuor bellicoso dei Tirolesi la sacra fiamma del fratellevole amore, rivendicare i confini d'Italia sulle Alpi Rezie, dove la natura li ha posti, e il diritto delle nostre genti li addita.

Bello era quell'entusiasmo, quell'accorrere di giovani volonterosi di vincere o di morire per la patria; ma di quell'entusiasmo, di que' volontari non si volle far tesoro.

Era cessata la lotta delle vie. La baldoria delle festività rumorose venivasi mano mano pur racquetando. La mente di parecchi posò per riflettere sui nuovi casi e trarne norma alle proprie azioni: gli uni a rivolgerle all'italica vita, gli altri all'individuale ambizione, i troppi alle sfrenatezze politiche. Per cui il nostro paese presentò alla gente illuminata la anarchia delle idee; il governo, l'ignoranza del maneggio della pubblica cosa; il popolo, il genio della rivoluzione bensì, ma fiacchezza nei propositi, facilità di spogliarsi della virtualità del sacrificio, di credere alla parola di quelli che, di lui temendo, sanno con arte fina trarlo nell'inerzia.

I governi provvisori, che qua e là vennero sorgendo, mano mano cioè che, all'esempio di Milano, le altre terre di Lombardia e quelle della Venezia cacciavano il nemico, erano composti da uomini di casato o di censo; da magistrati municipali dei tempi degli Austriaci, sudditi queruli, ma non energici; da qualche vittima dei caduti governi; da qualche avvocato in grido o scrittore di novelle. Codesti uomini, dondolandosi in seno di fallaci speranze di potenti aiuti del Re sabaudo, spensero a tutta possa il pubblico entusiasmo, risuscitarono le mal sopite discordie col parlare di agglomeramenti, d'innesti, di fusioni di popoli, invece di provvedere forti e pronti mezzi per discacciare oltre l'Alpi il nemico, di assecondare gli sforzi eroici dei soldati piemontesi coll'attivare la coscrizione, col chiamare alle armi l'italica gioventù, coll'affrettare la compera delle armi, e poter dire un giorno con nobile orgoglio: «L'Italia sta ed ha fatto da sè. Pusilli, per non dir peggio, guardavano invece con occhio diffidente quelli che in loro desideravano energia di propositi, sprezzavano i volontari accorrenti da ogni dove; e non potendo porre un obice all'impeto di quelle sacre falangi, facevano in modo che esse avessero ad essere in balia di sè stesse, a mancare di tutto; non furono rari i giorni in cui quegli eletti giovani d'Italia ebbero a piatire il pane. I sospetti, le tendenze, le ambizioni, le ingorde bramosie, le speranze agitarono gli animi di tutti, e fecero pendere in sospeso lo scopo precipuo, essenzialissimo, vitale, che tutti in lor cuore volevano attuato, fiaccamente aiutandolo.

 




1 Giacinta Luchinati di Genova, a mo' d'esempio, era caporale nella legione universitaria di Roma, e combattè in più luoghi coraggiosamente. Giulia Modena portava il vessillo dei volontari della Venezia, che sempre difese. Anco le madri distaccarono senza dolore dal petto i propri figli. Un esule romagnolo, appena scoppiata la guerra, scrisse alla vecchia madre che tornerebbe ad abbracciarla e che quindi andrebbe tosto a combattere l'abborrito Austriaco. La povera madre temette la propria tenerezza, e rispose al figliuolo: «Ti ho desiderato tanti anni per rivederti prima di morire: ma se tu venissi adesso come potrei aver la forza di lasciarti partire? Va, combatti per la patria. Se muori per lei ci rivedremo presto in cielo. Dio mi terrà conto del sacrifizio.» Un'altra madre, la signora Danzetta di Perugia, mandò i suoi due figli al campo, e quando seppe che uno era morto combattendo a Cornuda disse: Spero che l'altro non sarà fuggito.»






Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License