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Felice Venosta I toscani a Curtatone e a Montanara IntraText CT - Lettura del testo |
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IX.
Un nuovo rinforzo di 16,000 uomini, capitanato da Welden, partito dal Tirolo, correva in soccorso di Radetzky. Il non aver a dovere chiusi que' passi, dava il destro all'ostinato Maresciallo di trarre partito di un altro sistema di guerra da riallacciare conseguentemente al suo primo. Gli è perciò, che, nell'atto in cui l'esercito, piemontese si disponeva a sloggiare di Goito affine di muovere per Verona, il feld-maresciallo celava i suoi disegni al confidente avversario col lasciare poche truppe in Legnago; ed intanto, dirigendo una colonna per San Bonifacio, marciava col grosso delle sue forze per alla volta di Montagnana. Quivi egli riceveva una staffetta di Vienna, in cui gli veniva ordinato di abbandonare immediatamente l'Italia e di portarsi a grandi giornate sulla capitale dell'impero per far salvo colle truppe a lui più fide il governo in preda alla rivoluzione trionfante. Fidente nella propria energia e sulla disciplinatezza delle schiere, egli volle innanzi tentare un colpo in Italia. Mandava in Verona 5, o 6,000 uomini, per ingannare i nostri sulle sue vere intenzioni, e decideva impadronirsi di Vicenza nel doppio scopo di rialzare il morale delle truppe alquanto abbattute dalla disfatta di Goito, e di avere nelle mani la chiave delle strade che hanno il loro sbocco verso la Germania. Il Durando, cui era nota la discesa del corpo di Welden dal Tirolo, nell'udire la novella dell'approssimarsi di Radetzky, impauriva e decideva di parare a Venezia. Ma, bentosto corse al suo orecchio la voce, che l'oste nemica era stata battuta a Sanguinetto dai Piemontesi e questi rincorrerla oltre l'Adige per isterminarla. Ond'ei si rimaneva, e scriveva al quartier generale del Re dell'imminente attacco che avrebbe sostenuto, del buono spirito delle sue truppe e del patriottico ardore de' Vicentini; e conchiudeva che per le munizioni di guerra e di bocca poteva calcolare sulla difesa di otto giorni. Cotesto annuncio giungeva l'undecimo del giugno nel campo; e immediatamente veniva ordinato alle nostre divisioni si apparecchiassero per trovarsi dopo due giorni presso Villafranca, per marciare su Verona e sulla linea dell'Adige, lasciata quasi scoperta. Ma gl'intoppi al conseguimento dell'impresa furono tali e tanti per contrarietà di destino, che allorquando l'esercito giunse sotto Verona, Vicenza era stata espugnata, e il Maresciallo colle vittoriose sue schiere trovavasi già nel forte.
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Il generale d'Aspre all'alba del dì 8 giugno passava il Bacchiglione, rompeva la ferrovia, ed accampavasi all'est della città; il generale Wratislaw stabilivasi al sud, alle falde dei colli Berici; e l'indomani il generale Welden giungeva per quella strada e compiva lo accerchiamento. Le forze di cui disponevano que' generali sommavano a 43,000 uomini e a centodieciotto pezzi d'artiglieria. Il Durando, con 10,000 de' suoi e quaranta cannoni, non dubitò punto a resistere, e, a vero dire, con senno attivò le sue linee di difesa. Egli si affrettava a premunire i colli con tre mila uomini scelti tra le migliori sue schiere, affidandone il comando al colonnello Enrico Cialdini, intelligente e valorosissimo soldato venuto allora di Spagna; con lui era altresì il cavaliere Massimo d'Azeglio, colonnello e capo di stato maggiore del generale. Collocava due battaglioni a sinistra sulla via di Verona. Ed il resto delle sue forze lo distribuiva ne' sobborghi e presso le porte. Le serraglie erano sui monti, nel piano, nelle interne vie. Ai primi chiarori del giorno 10 vennero assaliti i monti Berici da numerose colonne nemiche: l'attacco era validamente sostenuto; accanita la disparata lotta. I nostri con grande valore combattevano e cadevano; il terreno non ceduto neppure d'una linea; le artiglierie, bravamente dirette, facevano scempio delle torme croate. Ma gli eroici sforzi dovevano avere un termine dinanzi a un nemico, che i suoi morti e gli scorati rimpiazzava con altri 12,000 e con ventiquattro cannoni. Ferito con dubbio di vita il Cialdini da una palla di moschetto nel basso ventre; tratti fuori di combattimento almeno seicento Svizzeri, tra i quali ventidue ufficiali; ferito in un ginocchio il d'Azeglio; gli artiglieri d'assai menomati, fu mestieri suonare a raccolta e a ritirarsi dinanzi il numero nella città, che già la si assaliva da ogni lato. Anche le milizie civili dovettero piegare, dopo le più ostinate prove dai sobborghi per l'urto formidabile della divisione Schwarzemberg. Appena gli Austriaci furono signori delle alture, vi collocarono le loro artiglierie, e cominciarono a lanciare sulla città un rovescio di proietti d'ogni maniera. Contemporaneamente assalivano le porte di Padova, di Santa Lucia e di S. Bartolo; ma da quei posti erano sempre respinti con gravi perdite. Il sole declinava al tramonto; declinavano pure le forze de' nostri, stanchi per trentasei ore di veglia, di fatiche, di sangue. Molte le perdite; le batterie in gran parte smontate; quasi esauste le munizioni. Utile cosa sarebbe stato più a lungo resistere; perchè, così facendo, si sconcertava il piano del Maresciallo e si dava agio a Carlo Alberto di trarre in Verona le vicentine vendette. Ma la città veniva esposta alle luttuose conseguenze di un disperato assalto; la nostra truppa al più compiuto macello. Durando, scorgendo impossibile il resistere, ordinò si togliesse dalla torre la bandiera rossa e vi si sostituisse la bianca. Il comitato del governo si offese per tale misura. La popolazione entusiasmata e cieca gridava per le vie: «Viltà lo arrendersi; tradimento il commetterla alla fede di una capitolazione cogli Austriaci; voler essere sepolta sotto le ruine della natia città.» I volontari, rispondendo all'indole impetuosa che li aveva mossi, chiedevano si continuassero i pericoli sino all'estremo e crivellavano di palle l'insegna di pace. Pur gl'incendi sempre più propagavansi, le polveri erano esaurite e gli stessi gridatori prostrati a terra per la stanchezza. In quell'istante, le musiche militari de' nostri nemici suonavano sulle occupate colline. La chiesa della Madonna del Monte era profanata con ogni genere di sacrilegi. Alle ore sei mattutine del giorno 11, nella casa Balbi presso Vicenza, dopo lunghe, reiterate e minaccevoli discussioni, il vinto e il vincitore sottoscrivevano i capitoli di un trattato, mediante il quale si guarentiva a' nostri l'uscita dalla città con tutti gli onori della guerra per ridursi in Este e di là per Rovigo oltre il Po; le schiere romane pattuivano di non combattere per tre mesi; Radetzky, alle vive istanze con cui Durando raccomandava gli abitanti della città e provincia per tutti gli avvenimenti passati cui essi avessero potuto prender parte, rispondeva colla «promessa di trattarli, in rapporto agli avvenimenti suddetti, a seconda dei benevoli principi del suo governo.» Ma il d'Aspre, non appena usciti i Romani, imponeva alla città una contribuzione di tre milioni di swanziger; e siccome il Municipio non poteva pagare una sì ingente somma, egli ordinava ai suoi dessero il sacco alla città. Dopo la caduta di Vicenza, Radetzky riceveva altro messaggio da Vienna, mediante il quale veniva avvisato, rimanesse in Italia se tal fosse la sua mente, avendo il governo imbrigliato la rivolta. Ond'ei diresse una parte delle sue truppe a Padova e a Treviso ed il rimanente a Verona, mettendosi egli stesso alla testa dell'avanguardo di 8,000 uomini. Padova era munita di dieciotto pezzi d'artiglieria e di una guarnigione di 5,000 volontari romani. Al Ferrari, lor generale, richiamato in Roma, era stato surrogato il colonnello Bartolucci. Scarse le munizioni di guerra pei fanti; non più che cento colpi a mitraglia per ogni cannone; nessuna speranza di soccorso; imperocchè, il solo che avrebbe potuto darne, il generale Guglielmo Pepe, allora a Rovigo ed avente il suo avanguardo a Monselice, opinava non doversi esporre le truppe ad una resistenza inutile di pochi giorni, ed egli ritiravasi su Venezia per ivi attendere gli avvenimenti della guerra. Il comitato di difesa della città, per civico amore, fe' opposizione vivissima alla ritirata e la protrasse sino all'estremo momento, in cui il nemico era quasi alle porte. Batteva il tocco dopo la mezzanotte, e il partire, cotanto differito, fu tumultuoso e disordinato. In un istante così supremo, per manco di cavalli di traino, fu giuocoforza abbandonare in Padova molti carreggi e tutte le artiglierie che guarnivano le mura. Il Bartolucci, prima di muovere, avvisava il colonnello Pianciani, partisse da Badia colla guarnigione e si imbarcasse sul Po per Venezia. Lo stesso avvertimento dava a Treviso; ma, sia che il messo tardi giungesse, o il presidio, circondato dai nemici, non potesse ritirarsi, questa città si apparecchiò alla difesa. Il generale Welden; alle prime sette ore del dì 14, annunciò il giungere de' suoi 10,000 soldati con una bomba che cadde nel fossato esterno. Altri proiettili e dannosi succedettero al primo. Le nostre artiglierie tuonarono alla lor volta; ma inutilmente; perchè le truppe e le batterie inimiche erano di molto distanti. Allora si pensò d'inviare una deputazione al campo per capitolare. In Treviso erano parecchi volontari siciliani giunti da Palermo in Livorno sin dal ventunesimo aprile. L'eletto drappello, composto quasi tutto di ufficiali del nascente esercito insulare, capitanato da Giuseppe La-Masa, l'iniziatore in Palermo della gloriosa giornata del dì 12 gennaio, era venuto in aiuto de' fratelli per convertire in opera efficace la universale effervescenza. Quei bollenti patrioti, uniti ai Lombardi, ch'erano a guardia della porta, respinsero i deputati del Municipio con minacce di morte. Essi intendevano cadere sepolti sotto le ruine della città piuttosto che cedere; e quando il comandante la piazza, per la sua responsabilità, dovesse transigere coll'inimico, ritirarsi con tutti gli onori di guerra sopra Venezia. Dopo due ore si rinnovava il tentativo, innalzando sulla torre la bandiera bianca; ma la si dovette ritrarre, perchè non voluta e bucherellata dalle palle dei malcontenti. Verso sera però, tanta era la confusione dei voleri, e lo scompiglio negli armati, tanto l'abbattimento dei cittadini sì arditi nel dire, sì incoerenti nel fare, che fu mestieri concedere le trattative col Welden, le quali vennero conchiuse sulle basi delle vicentine, salvo che il generale volle i cannoni come oggetti di austriaca spettanza. La lentezza della marcia delle truppe regie verso Verona, la perdita di un tempo prezioso in Villafranca per farle passare in rassegna da re Carlo Alberto, la ruinosa pioggia che, sfondando le strade, impedì alle artiglierie di muovere dal loro posto, fornirono intoppi al buon esito dell'impresa. Durante il tragitto di Villafranca ad Alpo, il principe conobbe la disfatta e la capitolazione di Vicenza. Nella sera del giorno 13 seppe pure che nel mattino era giunto in Verona il maresciallo con 8,000 uomini e che nell'atto stesso erano esciti di quel forte 4,000 soldati per rimontare la riva sinistra dell'Adige. Cotali misure rendevano inutili le disposizioni prese, e consigliavano a retrocedere. Ma un veronese, giunto al quartier generale, recava l'annuncio che sei o settecento cittadini eransi determinati a far nascere un interno subbuglio, malgrado la presenza del Radetzky e de' suoi rinforzi, ove i Piemontesi si presentassero in buon numero verso le mura; il segno del convenuto avviso da parte nostra doveva essere un falò in Villafranca. Il Re aderiva a quelle speranze, e dava le disposizioni necessarie per l'attacco dell'indomani. Il comandante la piazza del luogo, ove l'indizio fissato doveva attuarsi, nol consentì; perchè, nel nostro campo tutto facevasi a caso, senza puntualità, nè ubbidienza agli ordini emanati. Convenne avvertire la divisione del duca di Savoia, che nella notte aveva occupato Tomba, di sgomberare il paese per Ca di Rupi, Castel d'Azzano, Forette e Isolalta. All'alba, il secondo corpo di armata si diresse verso Sona e Sommacampagna. La divisione di cavalleria, situata dietro Dossobuono, protesse la ritirata, fastidita appresso da grossi distaccamenti di ulani. Piemonte Reale e Novara ebbero uno scontro con essi presso le cascine di Calzoni in un sentierello sì ristretto dalle vigne e dalle siepi di gelsi, a non permettere il passo che a due cavalli di fronte. Un grido d'allarme scompigliò le file; i palafrenieri, che conducevano a mano le cavalcature di ricambio degli ufficiali, le abbandonarono; il disordine dalla coda della colonna si propagò rapidamente alla testa; gli squadroni saltarono dal sentiero sui campi. Ma il colonnello del reggimento Novara, preso di nobile ardire, gridò ai soldati, che confusamente sbandavansi: «Compagni, a me! volgete indietro. Seguitemi, in nome d'Italia!» E primo ei s'imbattè con un ufficiale austriaco, se gli slanciò addosso, il ferì; in quello, quattro ulani, corsi in aiuto del loro capo, gli furono sopra colle lance. Egli bastava per tutti; uno ne gittava di sella e gli altri siffattamente incalzava a trovar salute sol nella fuga. Molti de' nemici furono morti e prigioni. Il colonnello era il conte Maffei di Broglio, parente del celebre Scipione.
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