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Felice Venosta
I toscani a Curtatone e a Montanara

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X.

 

Fino dal giorno 10, le truppe avevano discacciati i nemici dappresso Rivoli e costrettili a raggiungere celeremente le alture del Tirolo. Ove l'attacco fosse stato meglio combinato, si potevano prenderli a rovescio e tagliare loro la via della ritirata. Otto giorni più tardi, tremila e cinquecento Austriaci, discesi dai colli di Ferrara, assalirono, alla prima luce, di sorpresa, un battaglione della brigata Pinerolo, cui erasi aggiunta la compagnia dei bersaglieri universitari torinesi. Ma i nostri, annoiati di far fuoco coi moschetti e colle carabine, gridando Viva Italia! furono loro addosso impetuosamente. Gli Austriaci indietreggiarono; e cacciatisi entro un cimitero, fulminarono i nostri dal muro di cinta. Gli studenti, con quell'avventatezza propria alla gioventù, che sfida ogni più grave pericolo, li scacciarono anche di là, costringendoli a fuga dirotta. Dei nostri morirono gli studenti Sarchieri, Longoni e Rogiapane.

Infrattanto la unione della Lombardia col Piemonte era compiuta. A' dì 13 giugno veniva pattuito il testo della convenzione tra il governo provvisorio e il governo del Re. Due giorni appresso, il ministro Ricci proponeva l'atto politico al Parlamento, dicendo esser quello «l'instaurazione d'una nazionalità lungamente conculcata dagli uomini e dalla fortuna.» Alla immediata fusione nessun altro patto ponevasi, tranne il convocamento di un'assemblea costituente per tutto lo Stato sulle basi del suffragio universale, la quale discutesse e stabilisse le basi e le forme di una nuova monarchia costituzionale colla dinastia di Savoia.

In quel torno le mura di Palmanova si aprivano senza breccia agli Austriaci. La difendeva, come dicemmo, il barone Carlo Zucchi, quegli cui Napoleone nella campagna di Sassonia affidava i perigliosi onori dell'avanguardo e del retroguardo, e che nel 1831 era alla testa degli animosi amici della patria. Zucchi era ora troppo vecchio per comprendere i nostri tempi; egli, quantunque la città avesse una discreta guarnigione e munizioni di bocca e di guerra, preparò il meglio che seppe la sua uscita; e saputa la caduta di Vicenza, di Padova e di Treviso, chiedette vilmente di capitolare. Il colonnello Kerpan sottoscriveva i capitoli che se gli presentarono, l'ultimo de' quali non ridonda certo a gloria dello Zucchi.

Le varie capitolazioni avevano tolte molte migliaia di soldati dal campo. La viltà e i rei maneggi facevano disertare parecchie centurie di Modenesi da Bozzolo, da Marcaria, ove la legione comandata dal maggiore Fontana erasi recata da Governolo, Sacchetta e Sustinente, per difendere la linea dell'Oglio abbandonata dai Toscani. Una lettera di re Ferdinando richiamava in quel frattempo in Napoli il 10.° reggimento di linea, che aveva valorosamente combattuto nelle giornate 13, 29 e 30 maggio a San Silvestro, Montanara, Curtatone, le Grazie e Goito, coll'ordine al colonnello Rodriguez di far tosto rientrare le truppe; e a tutti quelli che non retrocedessero, sarebbero confiscati i beni e preso in ostaggio il capo della famiglia. Partirono i Napoletani da Goito la sera del 29 giugno, lasciando cotesto addio a' loro fratelli d'armi:

«Compagni ne' disagi e ne' pericoli, noi abbiamo partecipato all'onore delle vostre vittorie. Legati da sì sacrosanti nodi, sanzionati dal battesimo del fuoco, voi soli potete sentire interesse della nostra posizione. Addio, fratelli Piemontesi! Addio Toscani! Non abbiate trista ricordanza dei soldati del 10.° napoletano.»

Parecchi soldati abruzzesi si rimpiattarono per non seguire il reggimento; molti altri disertarono lungo la marcia per Marcaria e Casalmaggiore; e richiesero servire ne' battaglioni del primo corpo d'ordinanza. «Noi amiamo la bandiera tricolore e il buon re Carlo Alberto. E poichè cominciammo l'impresa ne vogliamo vedere la fine.» Buone e semplici parole proferite da quegl'incuranti ogni dolore per l'Italia, le quali notiamo a loro elogio ed a biasimo de' capi dell'esercito napoletano, i quali preferirono le grazie del loro principe e la guerra fraterna alla santa crociata d'indipendenza e di libertà.

In pari tempo, i prigionieri toscani, da Mantova, venivano trasferiti co' Napoletani volontari e regolari nel Tirolo tedesco. Que' di Trento fecero loro gran festa; e avuto il permesso di offerire loro ciò di che meglio abbisognassero; l'entusiasmo del popolo fu commovente. Nella via Lunga si gittò loro danaro a manciate; e gli uni donavali di camicie, di calzoni, di scarpe; chi non aveva roba pronta, dava il proprio vestito. Le ricche famiglie si distinsero nella gara dei benefizi; e i poveri artigiani che non avevano che il cuore, pregavano quella buona e valorosa gente ad asciolvere e a bere con essi; e le venditrici di latte mettevano per forza nelle tasche di que' non inviliti dall'infortunio, le monete ritratte dal commercio della mattina; e i fornai del borgo di San Martino, non avendo più pane, pregavano si aggradissero le stiacciate appositamente fatte.

Quegli atti di simpatia e di compassionevoli affetti; questi sensi di patria carità, volemmo accennarli per testimoniare quanta italianità si annidi nei forti petti de' montagnardi del Tirolo, dei quali non si seppe dedurre alcun pro' nella rivoluzione e ne' combattimenti di una guerra sì nobile e sì generosa.

In sullo scorcio del mese di giugno, l'esercito italiano in faccia al nemico, detrattone il forte numero dei malati di febbre, dei feriti, de' disertori nelle proprie case, dei buoni a nulla, poteva calcolarsi a 65,000 uomini con 120 pezzi d'artiglieria; e questi ridotti in tale disordine, per la nessuna polizia del campo e pel dannoso sistema di militare giustizia, sino a partire e a tornare a proprio talento, ad entrare e ad escire dagli ospedali senza il conveniente polizzino sanitario, o ad andarsene di propria mente in Brescia, ove quella popolazione così affettuosamente accoglievali sino a nudrirli, vestirli e pagarli come maestri di scherma e di evoluzioni alla guardia nazionale, o come operai in lavori orticoli e rurali.

Intanto i fogli pubblici strepitavano per la inazione del quartier generale. Una deputazione lombarda insisteva presso Carlo Alberto affinchè l'ordinanza marciasse innanzi, aggiungendo, che il partito della repubblica avrebbe prevaluto sul costituzionale monarchico, ove non si acquetassero le nazionali esigenze a furia di vittoriosi successi. Altri dicevano il Re traditore; torme di vili, d'inetti, di avversi alla causa i suoi ufficiali e soldati. E il Re, che leggeva cotali cose, se ne accorava, e chiedeva a' suoi il mezzo efficace per escire da tanta ambage e accontentare tutti.

Carlo Alberto era debole ed incapace di far tacere la calunnia, di disciplinare un esercito, di maneggiare memorande fazioni di guerra; egli non aveva che l'eroico coraggio individuale della sua razza, e si teneva nel campo come esempio di fede nella giustizia della nostra causa, come confutazione vivente agli oltraggi prodigatigli da chi aveva in mano la penna, non lo schioppo e la spada. Il torto del principe era quello di non aver mai saputo cogliere profitto dalla vittoria; e i replicati falli avevano perduto la Venezia e lui costretto a difesa con un esercito non bene ordinato.

Il Re volle rispondere alla volontà dei molti e cacciarsi con imprudenza in qualunque avventata fazione. Egli pensò in sulle prime di attaccare Verona dalle eminenze sulla riva sinistra dell'Adige; quindi preferì una marcia offensiva verso Legnago; in ultimo si decise per l'assedio di Mantova, anco per tranquillare gli animi delle popolazioni modenesi e parmensi, e far contenti coloro che volevano si agisse ad ogni costo.

Allo spuntare dell'alba del giorno 13 luglio, Carlo Alberto poneva in movimento i battaglioni. La divisione Ferrere, la divisione delle nuove truppe lombarde, sotto gli ordini del generale Perrone, i bersaglieri, ed i volontari di Griffini e di Longoni si dirigevano per Belfiore. Giunte queste truppe sotto al tiro del cannone, gli zappatori del genio tagliavano tosto la strada, e cominciavano ad innalzare trincee.

Il giorno 14 un battaglione della brigata Savoia veniva spinto verso Sant'Agata. Esso trovava questo borgo trincerato, lo girava, e, dopo una lotta accanita, costringeva gli Austriaci ad uscirne. Dipoi lo stesso battaglione inoltravasi sulla destra sino a Lugagnano; pur quivi trovava il nemico trincerato e munito di molti pezzi d'artiglieria. Piegava quindi alla sinistra, e retrocedeva per la via di Bussolengo; e quantunque circondato da imponenti forze nemiche, le teneva sempre a bada, finchè poteva riunirsi al grosso dell'esercito. Seppesi da questa ricognizione che gli edifici presso Verona erano vuoti d'abitatori, che Radetzky aveva fatto sgomberare le case, che si trovavano entro la linea delle sue difese, e si seppe eziandio che tutti i pozzi all'ingiro erano stati murati o disfatti.

Il giorno 19, il generale Bava pensava di prendere la forte posizione di Governolo per far sicura la linea del Mincio sino alla foce del Po e compiere il blocco di Mantova. Esso faceva scendere in certe barche un battaglione di bersaglieri con ordine di assalire il nemico tosto che la brigata Regina, 9 ° e 10.° di linea, avesse cominciato l'attacco. Alla vista degli Italiani, i quali si avanzavano con brio e risolutezza, gli Austriaci si ritiravano entro il borgo, ed alzavano il ponte levatoio. Allora la nostra artiglieria cominciava colla fanteria un fuoco di conserva così terribile, che i nemici ne soffrivano assaissimo. In pari tempo i bersaglieri, spingendosi innanzi, ne facevano tale una strage che in breve li costringevano a porsi in disperata fuga, lasciando sul terreno parecchi morti e feriti, e nelle mani dei nostri 500 prigionieri, due cannoni, molte armi, molti cavalli e la bandiera del reggimento Rukavina. L'impresa di Governolo, quantunque propizia, riesciva dannosa; imperocchè allungava di molto la nostra linea d'operazione, e costringeva a tenere in quella borgata il nono e il decimo reggimento, che pure sarebbero stati di qualche aiuto nelle ulteriori battaglie.

Radetzky aveva riuniti 40,000 uomini con sè presso Verona; altri 30,000 li aveva occupati intorno a Venezia; più che 20,000 gli aveva presso Legnago e dentro il forte di Mantova; un rinforzo di altri 20 mila scendeva allora il Tirolo. Egli pose in effetto lo antico disegno di Goito, promettendosi un migliore successo. Volle sfondare la nostra linea a Sona e a Sommacampagna attaccando prima Rivoli e la forte posizione della Corona. Il giorno 22, verso le quattro del mattino, una grossa colonna nemica, discesa dalle alture del monte Baldo, avviluppava il piccolo numero dei nostri, che da quell'ultimo luogo sosteneva con grande eroismo il combattimento per lo spazio di sei ore. Siccom'era periglioso e vano il resistere più a lungo, operavasi con ordine la ritirata su Rivoli. Il maggiore Danesi accorreva in aiuto e col suo battaglione ingaggiava il fuoco coll'avanguardia, la quale perseguiva ed incalzava i compagni suoi che ripiegavano, ed avvedutosi che gli Austriaci cercavano di prenderlo a rovescio, raddoppiava il coraggio e l'ardire, e dalla difesa passava all'offesa, ponendo in fuga un corpo di Tirolesi. Alle tre, il generale di Sonnaz giungeva con un rinforzo di fanti e di artiglieria; la battaglia ricominciava con accanimento maggiore. I Piemontesi erano in numero di 5,000. Il generale austriaco rassegnava almeno 12,000 uomini. Questi non seppe trarre partito di tale vantaggio dinanzi la intrepidezza de' nostri; e sul far della sera, i suoi, bersagliati su tutti i punti, dovettero gittarsi una parte verso Incanale sulla riva dritta dell'Adige, e l'altra al di là di Caprino. Cotesta azione, gloriosissima pel generale di Sonnaz, che la diresse, e pei reggimenti che vi presero parte, ricorda le stesse prove di valore delle schiere repubblicane di Francia nella memorabile giornata del dì 14 gennaio 1797.

Comechè vincitori, le condizioni di guerra non si mutavano punto per noi. Il de Sonnaz, vedendosi intorno forze cotanto inferiori, e temendo un attaccò nell'indomani, previde che le sue schiere, stanche ed affrante, sarebbero di leggieri rotte e sforzate. Egli ritiravasi sur Affi e Cavaglione per Pastrengo e Bussolengo, scegliendo a sua stanza Sandrà per ivi attendere gli ordini. E ben per lui e per le sue truppe. Imperciocchè, nella sera del dì 22, Radetzky faceva partire da Verona due divisioni capitanate dai generali d'Aspre e Wratislaw per assalire il nostro campo. Moveva altresì una brigata per Santa Giustina, per ingannare i nostri sulle sue vere intenzioni, ed un'altra spedivane dalle vicinanze di Legnago per piombare su Villafranca e Custoza e riunirsi al corpo di un esercito venuto di Verona. Il cielo cospirava per noi. Una pioggia ruinosa rallentando la marcia nemica, ci salvò da un'improvviso attacco notturno. La linea da Pastrengo a Sommacampagna era difesa da 6,000 uomini comandati dal generale Broglia di Casalborgone.

Gli Austriaci si presentarono alle sei mattutine del dì 23 presso l'Osteria del Bosco e Sommacampagna; un corpo di riscossa, posto indietro tra le due colonne, attendeva gli avvenimenti. Dopo inutili sforzi e molte perdite toccate presso l'Osteria, il nemico si ritirava al di là della portata dei cannoni, ed andava in parte ad attaccare Sona. Ma l'empito maggiore venne rivolto verso Sommacampagna e la Madonna del Monte; sanguinoso fu quivi il combattere; irresoluti, a quando a quando, gli Austriaci; audaci i nostri nelle offese per ben tre ore; finchè, giacenti sul campo morti e moribondi, le stanche genti stimarono prudente consiglio il ripiegare su Villafranca. A tale nuncio, que' di Sona, che avevano più volte caricato il nemico colla punta della baionetta e disputato palmo a palmo il terreno, vedutisi prendere al rovescio sulla diritta, si ritirarono a Pacengo per la via di Sandrà.

In quel frattempo il generale Thurn marciava su Rivoli con grande cautela, stimando sulla costa trovare la resistenza del giorno innanzi. Per quella lentezza il destino a lui niegava gloria e profitto, mentre per le sue buone ed accorte mosse dava il destro al de Sonnaz di salvare i magazzini ed i parchi ch'erano in Lazise, e di giungere con poche perdite a Cavalcaselle per riunirsi al rimanente della ordinanza, Nell'ora istessa, la divisione Visconti toglievasi dalla sinistra linea del Mincio, rompeva i ponti di Borghetto e di Monzambano, collocando un battaglione in faccia a Salionze per impedire al nemico di traghettare il fiume in tal punto. Poco di poi, la brigata Savoia, il battaglione parmigiano e Savona giungevano per dare il ricambio su que' posti istessi alla seconda divisione di riscossa comandata dal barone Visconti. I nuovi venuti erano discorati dai frequenti allarmi, stanchi pel continuo combattere, e svigoriti da un digiuno di trentasei ore. Pur, quando gli Austriaci, protetti da dieci pezzi d'artiglieria, si approssimarono alla ripa del fiume per costruirvi un ponte di barche, combatterono per quanto potettero; essi non avevano da opporre che due cannoni. Il di Sonnaz, che trovavisi in Monzambano, spedì immediatamente il colonnello Solaroli a Ponti per ordinare al 14.° di linea di attaccare il nemico sul suo fianco destro; ma quel corpo non vi era più; chè, al primo rombo del cannone, aveva in disordine piegato sopra Peschiera. Gli universitari tentarono arrestare i disegni dell'inimico, ma vennero ben presto respinti dalle scariche a mitraglia. Una volta che quello potè occupare l'opposta sponda, il de Sonnaz non valeva più a far argine all'oste irrompente, e ritirossi invece co' suoi su Volta. I nuovi occupanti non lo inseguirono, ma volsero per Ponti e Monzambano, e più tardi per Valeggio.

Carlo Alberto, saputa la rotta del secondo corpo di esercito, e immaginando che necessità spingesse i vincitori a perseguirlo, volle battaglia pel dì vegnente. E raccolta una parte delle truppe, che assediavano Mantova, colle loro rispettive batterie e con quattro reggimenti di cavalleria si dirigeva a Villafranca per tenervi consiglio di guerra. Due battaglioni di Pinerolo co' Toscani sotto gli ordini del generale Manno munirono il paese. Carlo Alberto ed il Bava avanzaronsi verso la valle di Staffalo con tre brigate, quelle delle Guardie e di Cuneo guidate dal duca di Savoia, l'altra di Piemonte dal duca di Genova. Il sistema decretato in consiglio era questo. Le truppe avrebbero dovuto impadronirsi di Vateggio, di Sommacampagna e di Custoza; quindi, con una conversione a sinistra verso il Mincio, gittarsi con impeto sulle schiere imperiali, cacciarle nel fiume, o al di là; e così, tagliata loro la via di Verona, sterminarla e costringerle ad arrendersi.

Nel dì 23 luglio era il calore eccessivo, insopportabile. I nostri, sfiniti dalla fame, dalla sete, dalla lunga marcia, non punto aiutati dalle popolazioni egoiste, istupidite e villane traevano dal proprio onore la forza di attaccare colla baionetta in resta il nemico eccedente di numero, in magnifiche posizioni e opponentesi a tutta possa. Dopo lungo ed ostinato combattere, le alture cadevano sull'imbrunire in potere dei nostri; i vinti si rincantucciarono dietro gli scoscendimenti dei colli; quindi, approfittando della notte oscurissima, si rivolsero ad Oliose ov'era il grosso dell'esercito. Lasciarono però sul terreno, oltre quattrocento e più tra feriti e morti, mille e ottocento prigionieri, tra cui quarantasei ufficiali e due bandiere. Fu azione stupenda la nostra in cui tutti si coprirono di gloria.

Ma anche in tale occasione il Bava peccò di lentezza e non colse l'eroico slancio de' valenti che comandava. Valeggio era il perno delle sue operazioni. Approvvigionate le truppe alla meglio, invece di farle serenare sulle conquistate posizioni, doveva cacciarle verso quel punto d'appoggio, e il suo eccellente disegno di guerra sarebbe riescito a capello. Ei pur doveva richiamare il generale Perrone dall'inutile assedio di Mantova, avere alla sua portata il corpo di ordinanza lasciato a Governolo e accelerare il congiungimento del de Sonnaz al grosso dell'esercito nostro. Così il Radetzky non si sarebbe impadronito nella notte di Valeggio, od almeno non avrebbegli quivi presentato nell'indomani una linea di fronte di 55,000 uomini da opporre a' suoi 20,000 e al secondo corpo di armati, sulle cui forze il Re sperava impedire al nemico il passaggio del Mincio. Ma il generale de Sonnaz non ubbidì agli ordini mandatigli di attaccare Valeggio verso il ponte di Borghetto, togliendo a scusa che le sue schiere erano prostrate di molto.

Al chiarore primo del dì 25, il duca di Genova doveva partire dalla Berettara e da Sommacampagna per alla volta di Oliose collegandosi a manca col suo fratello il duca di Savoia, il quale alla testa delle Guardie e di Cuneo aveva ordine di dirigersi da Custoza verso Salionze, affine di favorire la brigata Aosta nel suo attacco di Valeggio, e far credere al nemico di esser colto alle spalle.

Radetzky, aspettando di piè fermo i nostri, che supponeva forti di 40,000, collocava a diritta il primo corpo d'esercito agli ordini del generale Wratislaw, dilungava parte di una divisione a Borghetto, e l'altra la riteneva in Valeggio; una seconda l'appostava tra Fornelli e San Zenone. Il generale d'Aspre distribuiva i suoi sulle alture di Custoza, di Sommacampagna e di San Giorgio. Fece togliere al corpo di riscossa la posizione di San Rocco e di Oliose. Il generale Thurn ebbe avviso di rimanersi in osservazione del forte di Peschiera nelle vicinanze di Castelnuovo; e faceva custodire il ponte di Monzambano e il nuovo di barche presso Salionze da tre battaglioni di fanteria.

La brigata Aosta, alla cui testa era il Re, col Bava e col Sommariva, scontrossi verso le nove cogli avamposti nemici. Accolta da una formidabile artiglieria, cui la nostra rispondeva senza alcun pro, convenne ritirarsi indietro per non ricevere inutili perdite ed aspettare il simultaneo effetto del concertato piano di attacco. Gli occhi del generale erano verso Valeggio per notare da una repentina mossa degli Austriaci l'avvicinarsi al fiume del de Sonnaz. Egli attendeva eziandio con impazienza la divisione del duca di Savoia. Quegli invece, assalito da forze superiori presso Custoza, difendeva la posizione, e spediva un solo reggimento alla nostra fronte. Il duca di Genova trovavasi anch'egli alle prese con forze assai rilevanti alla Berettara. Alle tre, il combattimento si faceva accanito, disperato su tutta la linea, da Valeggio a Sommacampagna. I principi conservavano il terreno a furia di cariche alla baionetta. Il primo colla sua brigata Cuneo lottò per sei ore contro 15,000 imperiali. L'altro con soli quattro battaglioni e mezzo ebbe cuore di resistere per la intera giornata contro diecinove battaglioni condotti dallo stesso Radetzky.

Inutili le prove di eroismo contro le stragrandi forze dell'inimico. La ritirata fu battuta su tutta la linea. L'artiglieria, la cavalleria, intanto che la si effettuava, tennero in rispetto gli Austriaci, e alle otto della sera l'ordinanza si ridusse regolarmente sul piano che spazia intorno Villafranca. E i vinti lacrimarono la perdita di mille e cinquecento compagni posti fuori di combattimento. E i vincitori si ebbero duemila uomini tra morti e feriti, tra i quali moltissimi ufficiali, costretti a porsi alla testa delle loro colonne perchè meritassero dal vecchio Maresciallo nel bollettino del dì 26 luglio il titolo di «valorose truppe.»

Tale fu la battaglia di Custoza sì funesta alla causa dell'indipendenza.

Le truppe avevano sostato per quattr'ore, quando, per ordine del Re, dovettero levare il campo da Villafranca, e alla metà della notte partire per Goito. Se più si rimaneva, il nemico avrebbe potuto precludere loro la ritirata, separarle dalla nostra base d'operazione, circondarlo e intimarle la resa. Partirono primi i feriti, i prigionieri, i convogli colla scorta di due battaglioni di Pinerolo e della brigata toscana. Le brigate delle Guardie e di Cuneo passarono per Mozzacane, Roverbella e Marengo. Quelle di Piemonte e d'Aosta si avanzarono per Quaderni e Massimbona. Per proteggere la ritirata, vennero appostati i reggimenti a cavallo coll'artiglieria volante presso Mozzacane; il 17.° di fanti presso Roverbella; e la brigata, sopraggiunta allora da Governolo, sui campi tra Marengo e Goito. Due battaglioni di Cuneo, comandati dal duca di Savoia, composero il retroguardo.

Miserando spettacolo offeriva il teatro ove i nostri avevano altra volta sì gagliardamente combattuto e vinto! Non un fil verde sui campi; gli alberi e i vigneti rotti e sguarniti di fronde; le baracche costruite dopo la vittoria del maggio, rovesciate e disperse; gli argini e le trincee presso il fiume, scomposte ed aperte; il primo corpo di ordinanza allor giunto, trepidante, sfinito. E per colmo di sciagura, il secondo corpo, disceso alle due del mattino da Volta, spingeva sempre più in peggio la causa italiana.

La chiave della posizione era ormai sulle alture di Volta; conveniva impossessarsene di bel nuovo e tenervisi a qualunque costo. Alle sette s'ingaggiò il fuoco delle nostre artiglierie, cui risposero le inimiche; chè, il corpo capitanato dal generale d'Aspre, formante l'ala sinistra dell'esercito imperiale, aveva già preso quartiere nel paese e premunitolo da un probabile attacco. I nostri si slanciavano con baionetta spianata all'assalto, malgrado il grandinare di proietti. La porta era atterrata; le prime case cadevano in nostro potere; molte barriere, parecchi giardini, discacciatine i difensori, divenivano posti di offesa; lo eroismo di quegli arditi superava l'elogio, Buia e tempestosa la notte. Le audaci imprese schiarite dal lume degl'incendi. Il lagno degli agonizzanti confuso col grido animoso dei capi che conducevano i soldati all'arduo cimento. E in quel rombazzo di artiglierie e di moschetti, ogni ordine scambiato, rotto franteso. Il conflitto il più ostinato fu presso la chiesa di Volta, ove tre o quattrocento uomini eransi trincerati come in un ridotto. Ufficiali e soldati rivaleggiarono nel ferocissimo scontro; i primi successi mettevano una nuova e più gagliarda volontà di superare ogni ostacolo negli assalitori. E il generale, côlto anch'egli dal comune entusiasmo, non rifiutava spingere l'affronto a' termini estremi; e per ciò fare, mandava a richiedere in Goito copia maggiore di milizie. La pugna durò accanita, terribile, corpo a corpo, per ben sette ore. In sulle prime non fu possibile ottenere dai nostri il dar quartiere ai prigioni; questi vennero macellati senza pietà; meglio che cinquecento giacquero supini tra' vigneti del colle. Erano le due del mattino. I domandati soccorsi intanto non giungevano; e il generale de Sonnaz vedeva con amarezza freddarsi l'entusiasmo delle sue milizie spossate dal lungo combattere; dinanzi la chiesa l'ardore dei nostri cominciava già a rallentare; udivasi la voce che altre truppe accorrevano da Monzambano in aiuto a quelle del d'Aspre. Egli pensò l'avviso ingannevole, volle illudere sè stesso, stette titubante, esitò se dovesse co' suoi darsi intero nelle braccia della più disperata fortuna; ma, prudente per natura, quantunque battagliero audacissimo, non osò più oltre rischiarsi ed ordinava la ritirata. I feriti furono raccolti; e, posti nel mezzo i prigioni, gli ancora validi discesero alle falde della collina.

Albeggiava quando questi s'imbatterono colla brigata Regina, che il quartier generale aveva alla fine spedita come rinforzo. Il de Sonnaz ingiunse allora di tornare indietro e di attaccare di bel nuovo il nemico. Il comando era eseguito coll'impeto primo; le menti, come nella notte, erano ebbre di vendetta e di sangue. Ma il tentativo non rispondeva al pensiero, e procacciava altre inutili morti. Anche una volta, ei convenne avviarsi verso la pianura, pur senza disordine e protetti dalla cavalleria. Gli Austriaci, ringalluzziti dalla vittoria, cercavano di turbare la ritirata, e dissennatamente prorompevano a slascio. I cavalieri di Savoia e di Genova, attelati presso Cerlungo, davano di sprone ed accorrevano a lancia spianata. Gli ulani s'incrociavano con essi, non reggevano all'urto e s'infugavano dopo aver lasciato sul terreno una trentina di cadaveri. E peggiore sventura toccavano nella corsa precipitata; lo sgomento non fece loro osservare che passavano a tiro delle nostre batterie; d'un tratto si disegnava una linea di fuoco per entro una nube di fumo; una salve di mitraglia lanciava la morte su quella spessa colonna d'uomini e di cavalli.

Il paesello di Volta Mantovana sarà celebre per l'ostinata impresa del dì 26 luglio, in cui un pugno di prodi per ben due volte attaccava in sì forte posizione un numero stragrande di Austriaci.

Alla notizia della rotta di Custoza e di Volta lo scoramento si fe' generale. Il rappresentante del governo provvisorio di Milano vigliaccamente partì. Con esso disparvero i commissari di guerra, l'imprenditore delle somministrazioni, i vettovaglieri, lo steccato dei buoi aperto e il bestiame rubato e condotto via. I carreggi di pane, incamminati verso i magazzini del Mincio, tronche le tirelle a' cavalli, in balìa de' primi occupanti. Gli abitatori delle campagne ragunavano le loro robe, e cacciando disperate grida, quasi quello fosse l'ultimo giorno della loro vita, riparavano in tutta fretta in più sicuro paese. I più tristi intra essi, che preferivano il servaggio straniero, gittarono ne' pozzi la secchia e la corda, perchè i nostri, affamati, cadessero anche per sete. L'esercito, che da quattro dì marciava, combatteva e mancava regolarmente di viveri, dimentico della disciplina sino allora tenuta, discioglievasi in parte, seguendo i feriti e i bagagli diretti per Bozzolo, e in parte trasmodava in maggiore delitto, dacchè molti capi erano minacciati della vita come ostacolo alla fuga. Parecchi soldati dopo breve convulsione morirono di stenti sui canti delle strade. Le case erano chiuse o vuote di abitatori; o, se pur questi vi si trovavano, erano affranti a tal segno dallo schianto dell'anima a non essere capaci di aiuto veruno. Oltre a ciò le provvigioni di bocca insufficienti al numero degli sbandati, che arrogantemente ne chiedevano in folla pel forte istinto della propria conservazione. Il tumulto, il disordine di quel giorno nefasto non escirà mai dalla memoria di chi ne fu testimonio.

In que' casi estremi, Carlo Alberto pensò d'inviare il cavaliere Bes al campo inimico per proporre una sospensione d'armi al Radetzky, mercè la sua ritirata oltre l'Oglio. Alle cinque della sera venne la risposta che i Regi si ritirassero al dì là dell'Adda, consegnando Venezia, Peschiera, Bocca d'Anfo, i due Ducati e la più gran parte degli ufficiali austriaci caduti prigioni. Il Maresciallo ignorava le nostre critiche circostanze, altrimenti non sarebbe stato sì generoso a lasciarci la provincia di Milano, che equivaleva ad una successiva rinuncia della Lombardia. Il Re parve offeso da siffatte condizioni, e sperò nell'aiuto del popolo, in una levata d'insegne formidabile; e pubblicò all'uopo un programma.

I popoli d'Italia non rispondevano al richiamo. Udivasi bensì continuo nelle sale parlamentarie, nei circoli, nelle piazze, in ogni pubblico ritrovo proferire la santa parola di patria; e ai molti sembrò che da migliaia e migliaia di bocche la uscisse. E si ingannarono! La era un eco armoniosa di poche voci onorate, che vacuamente ripercuotevasi da ogni banda. E ancor pochi la udivano; e a lei più pochi ubbidivano. I popoli erano stati innanzi tratto troppo trascurati; avevano perduto quell'entusiasmo che crea gli eroi; il timore aveva incominciato ad invaderli. È raro che nella sconfitta possasi destare lo slancio.

Carlo Alberto passava in rassegna nella sera le truppe che tuttora stanziavano in faccia al nemico. Avuto riguardo al loro numero ed alle fazioni di guerra che gloriosamente avevano combattuto, ci poteva rischiarle ad ulteriori cimenti sul Mincio, temporeggiare sino al punto in cui la intera nazione darebbe la prova di quanto potesse; non già nelle scissure di parte; o negli amori municipali; o nelle pedantesche ciarle di una pubblica tribuna; o nelle velleità ambiziose de' consigliatori di misure estreme; o nelle inettezze governative; o nelle parole di una minorità spodestata; o nelle smargiasserie popolari; sibbene nell'energia, nell'operoso entusiasmo, nella disciplinatezza, nel ragionato silenzio, nel sacrificio di sè e degli averi alla fortuna della patria; tutte virtù cittadine che insublimano un popolo e il fanno degno di libertà e d'indipendenza.

 




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