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Felice Venosta
I toscani a Curtatone e a Montanara

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  • XI
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XI.

 

La sera del ventisette, alle undici, Carlo Alberto, invece di far tuonare ai cannoni di Goito il colpo d'allarme ed intimare il passo di carica sugl'inimici eterni d'Italia, ordinò ai tamburi battessero la ritirata verso Cremona. Il nostro esercito vi si diresse per tre strade convergenti. Nel passare l'Oglio, la falsa voce che il nemico era alle spalle ad un trar di moschetto, fece sbandare una parte della terza divisione; e i Savoiardi, per tema di peggio, alla voce dei capi si aggruppavano intorno alle loro bandiere e formavano un quadrato di brigata, per contrastare agli Austriaci il passaggio del fiume; gli artiglieri e la cavalleria si associavano a tal movimento, e quivi si ristavano quasi antimuro al rimanente della ordinanza. Quella posizione non poteva però essere difesa; ei fu mestieri procedere innanzi. In sugli albori del giorno trenta i cavalieri austriaci si trovarono presso il nostro retroguardo; d'un tratto si ritraevano e scoprivano tre pezzi d'artiglieria che fulminavano ed infugavano i nostri ne' campi. Il generale Broglia, quantunque ferito, saliva a cavallo, conduceva la sua divisione e sosteneva validamente l'urto degli avversari. La pioggia, per colmo di mali, cadeva a torrenti. Si pensava allora di difendere la linea dell'Adda da Pizzighettone a Lodi. Ma il Sommariva, accampato colla prima divisione a Grotta d'Adda, sia per dappocaggine, sia per turpe infedeltà, permetteva al nemico la costruzione d'un ponte, e senza opporre ostacoli ritiravasi colle artiglierie e co' suoi su Piacenza. Così, gli altri corpi, scoperti sulla sinistra, erano obbligati a indietreggiare sino a Lodi in gran fretta.

L'ambasciatore inglese tentava in quel frangente interporsi tra le due parti belligeranti. La risposta del Maresciallo fu ch'egli avviavasi per a Milano. Il Re poteva ridursi in Piacenza, combattere ed ottenere una capitolazione onorevole. A' tre di agosto l'esercito si accampava poco lungi da Milano in una linea semicircolare sino al canale di Pavia. La seconda divisione stava sulla dritta della via di Lodi ed appoggiava la sua sinistra a Gambaloita; la terza, che dilungavasi più indietro, occupava le cascine di Boffalora, di Besana e di Caminella. La quarta trovavasi a sinistra; gli altri corpi colla cavalleria formavano la riscossa; il Re stabiliva il suo quartier generale fuor di Porta Romana, tra la seconda e la terza divisione, nell'osteria all'insegna di San Giorgio.

Già i sopracciò della Lombardia, cagione di tanta catastrofe, scendendo sulle ruine della prima loro fortuna, avevano rassegnato il potere, nelle mani del generale Olivieri, venuto in Milano coll'autorità di regio commissario. Lo scoramento era grande nella città. La era stata tanta la sicurezza della vittoria che giammai erasi pensato a premunire il paese da un attacco nemico. Creavasi un comitato di difesa composto del general Fanti, del Rastelli, del Maestri; i due ultimi erano incaricati di tutti i rami del servizio pubblico; il primo col colonnello Pettinengo, col maggiore Cadorna e con alcuni ingegneri civili si adoperò a far innondata colle acque dell'Adda la sponda sinistra del fiume; a concentrare le truppe stanzianti nel Tirolo, nello Stelvio, ed in Brescia ne' monti di Bergamo; e a premunire Milano di ogni mezzo di resistenza, perchè l'esercito italiano avesse potuto far fronte al nemico sull'Adda, o respingerlo di fianco sul Po. L'Olivieri il giorno 4 passava in rassegna le 6,000 guardie cittadine, capitanate dal generale Zucchi, il traditore di Palmanova, e gli 8,500 uomini di truppe agli ordini del Fanti, il quale non era tal uomo da illudersi sulla efficacia di quelle forze, che avrebbero spezzato gli ordini al primo rovescio di avversa fortuna.

Il duca Antonio Litta, che le sue generose oblazioni avevano renduto uno tra i cittadini più benemeriti d'Italia, era già partito alla volta della Svizzera per assoldarvi di proprio cinque mila uomini per la salute della patria in pericolo. Ma la dieta fin dal dì 13 maggio aveva annullato ogni speranza di valido soccorso. Uno dell'ex governo provvisorio, lo avvocato Anselmo Guerrieri, inviato a Parigi per chiedere rinforzi al reggimento della Repubblica, nulla pur esso potè ottenere.

Innanzi che l'esercito fosse costretto ad una ritirata, la colonna dei Modenesi aveva ricevuto l'ordine di portarsi da Pizzighettone a Governolo e di prendervi posizione. Due altre compagnie guidate da Giuseppe Castelli erano in Revere, e combattevano sole da più giorni contro un nerbo d'Austriaci vaganti da Ferrara ad Ostiglia con desolazione della corsa contrada. Il colonnello Alessandro Della Marmora trovavasi da poco in San Benedetto con un rinforzo di 3,000 uomini. Il maggiore Fontana chiarì al generale il rovescio delle nostre sorti. E' fu mestieri lasciare la linea del Po, e per Guastalla, Brescello e Parma ritirarsi a Piacenza. S'incontravano presso Borgo San Donnino coi Toscani, i quali per la via appennina s'incamminavano pel loro paese; in questa ritirata il prode colonnello Giuseppe Giovannetti veniva ucciso con palla in Pecorile da un soldato di linea e l'iniquo fatto restava impunito.

Gli Austriaci frattanto marciavano a gran furia sopra Milano. In sulle otto ore del giorno 4 di agosto avvenne il primo scontro avanti la cascina della Gambaloita. Burrascoso era il tempo come la nostra fortuna; la pioggia cadeva a secchie; lo scoppio dei tuoni e delle artiglierie intronava l’aere per intervalli; e siccome temevasi che nelle prossime case gli Austriaci avrebbero potuto celarsi co' loro cannoni, e bombardare il paese, o che per esse venisse impedita la difesa de' bastioni, chiedevasi al Re la licenza di mandarle alle fiamme; ciò ch'ei rifiutava, rimettendone la sentenza al comitato di difesa. Siccome anche questo non volle sobbarcarsi ad una tanta responsabilità, ignote mani appiccavano il fuoco alle suburbane dimore, che ben presto elevarono su per l'aere fosco e piovigginoso una nube di fumo biancastro, dalla quale sprigionavansi le lingue di fiamme e la luce corrusca dell'incendio, che addoppiavano l'orrore della infelice giornata. Le scariche seminavano dall'una parte e dall'altra la morte, e molti erano i cadaveri illacrimati giacenti sul cruento terreno. In ogni canto si fabbricavano cartucce; i quartieri delle guardie nazionali ne erano provvisti a dovizia; le farmacie ridotte in officine di guerra per fornire cotone fulmineo; ogni casa, ogni stamperia, ogni bottega distribuiva piombo e palle ai combattenti in pro della patria. Carlo Cattaneo suggeriva a provvedimento l'asserragliare intorno alla città tutte le acque correnti per comporne una cerchia di fango e farne ostacolo materiale al libero giro delle artiglierie nemiche e confondere le molte linee di strade colle linee de' molteplici canali; con tale spediente si sarebbero separati i corpi che imprendessero il blocco, e distrutti in pochi dì per malattia gli assedianti. In quegli estremi pericoli a certuno l'alacrità del popolo sembrava delitto; l'abbarrare delle vie, un insulto fatto a' soldati del Re e un dannoso ingombro all'azione; la irrequietezza dei molti, una minaccia repubblicana. Le voci erano troppe; soverchia la confusione; la diffidenza scambievole tra i popolani ed i Regi, la quale più e più si accrebbe ne' primi, allorchè videro accorrere questi precipitosi in Milano, dopo la toccata disfatta.

Gravi considerazioni occupavano Carlo Alberto. A lui non rimanevano che i 24,000 uomini sfiniti dal manco di riposo e dalla scarsezza de' viveri. Radetzky poteva danneggiare fortemente il paese colle sue bombe; e, irritato nel suo amor proprio pe' patiti insulti, porlo a fuoco a sangue ed a ruba. Poteva costringere lui a cedere le armi dopo un disperato ed infelice combattimento, ed a rendersi prigioniero col pugno de' bravi che l'amica sorte gli risparmiasse.

Siffatti pensieri lo indussero a ragunare in consiglio i suoi generali per conoscere il loro avviso su ciò che si dovesse operare in tanta avversità di fortuna. Calcolata la impossibilità di una lunga ed onorata difesa, ne venne la inevitabile sentenza di entrare in comunicazione col Maresciallo e pattuire seco lui da resa della città. Erano presenti alla redazione ed alla lettura de' patti varie autorità militari e civili lombardi. Il Rastelli protestò in modo assai energico. Il podestà non era l'uomo dai disperati consigli; epperciò rifiutava i nobili, ammirevoli, pur vani disegni offerti dal Rastelli ed ostinavasi a salvare il paese dall'eccidio e dalla ruina. Que' che assentivano o si opponevano a' divisati patti, partirono. Rimase solo col Re il general Fanti, il quale esponeva l'impossibilità di tenere la campagna più oltre. Fu stabilito che i Piemontesi si ritirassero entro due giorni oltre il Ticino; che Peschiera, Piacenza ed ogni altro luogo occupato dalle truppe sarde sarebbero consegnati alle I. R. truppe; che Milano sarebbe risparmiata, rispettandone le persone e le proprietà; e che chiunque volesse emigrarne, avrebbe avuto l'agio sino a ventiquattr'ore dopo l'ingresso degli Austriaci in città.

«L'infausto avvenimento saputosi bentosto per qualcuno del municipio — cui i patti non si eran tenuti celati — produsse grande fermento. Due infelici, ch'ebbero la sventura di parlarne in pubblico sulle vie, gridati traditori ed austriaci, vennero incontanente sbranati. Un tal Montignani, amministratore del diario compilato dal Mazzini, sarebbe stato morto del pari, se un amico che passava, noto per fede repubblicana, non lo faceva salvo. Il general Fanti, che, escito dal palazzo Greppi, erasi diretto a quello Nazionale ove siedeva il quartiere supremo delle truppe e delle milizie civili, trovatolo deserto, avviavasi verso la piazza di San Fedele, quando una turba di popolo assalivalo da ogni banda, e minacciandolo colle baionette e co' coltelli, tentò gittarlo giù da cavallo. Il prode ed incolpabile soldato non aveva a difesa che la serenità della propria coscienza; il sentimento della dignità d'uomo offesa gli contraeva leggermente il viso; alcuni che il riconobbero, lo chiarirono per quell'uomo che era, e lo conducevano al palazzo del Marino, ove trovavansi Pompeo Litta, l'Anelli, il Giulini ed il Clerici. Questi poco dopo partirono. Il Fanti fu ritenuto, e a quando a quando vedevasi trascinare innanzi, da quella gente scaldata, persone, ch'essa diceva sospette e che il generale con vari stratagemmi salvava. Alla perfine potette anch'egli sottrarsi da tale incresciosa posizione, e coi suoi aiutanti di campo tornare al palazzo del Re. I più esacerbati, e frenetici erano quelli che si erano firmati per l'atto della infausta fusione, i quali scorrazzavano le contrade, bestemmiando al nome di Carlo Alberto e alla fede in lui avuta. Nella confusione dei poteri, nello imperar della plebe atterrita da un pericolo che la minaccia od offesa da supposti tradimenti, le sentenze dissolute danno plauso e trionfo; le oneste e vere, supplizio. Allora il più ardito che si presenti e colle sue parole incarni i pensieri degli adunati, ne è il capo. Nè il capo mancò in tale frangente. Le piccole partite in sul nascere, tosto ingrossarono e si fecero moltitudine schiamazzante e ruinosa. L'un disse «Morte a Carlo Alberto! Morte al Re traditore! al palazzo Greppi!» E tutti ad accorrere, e con ricambiati discorsi e con grida di minaccia, aiutarono all'atto reo. Per la via quanti s'incontravano vestiti della divisa piemontese erano insultati, picchiati e peggio; le regie carrozze, capovolte e frugate; il baccano più feroce e ribaldo che mai; la milizia civile di guardia al palazzo o fugge o la si accomuna co' sediziosi. Allora invasa la corte, e la plebaglia su per le scale. Ma quivi alcuni coraggiosi carabinieri bastano a farla rinculare chè non havvi gente più vigliacca e codarda quanto quella che medita o commette assassini. Molti ufficiali superiori erano nell'appartamento ove trovavasi il re; e — per la più parte impaurati e sgomenti — mal presagivano su ciò che potesse: avvenire. Il rumore della strada cresceva; su per le scale l'orda de' furiosi addoppiavasi, al cui empito i carabinieri a dura prova potevan resistere. Quand'ecco entra nell'anticamera il maggior generale, conte Maurizio Nicolis di Robilant, e voltosi agli astanti: «Spero, signori, che noi sguaineremo la spada a difesa della persona del Re.» Quindi si fa sulla scala e tenta acquetar l'ira negli animi concitati. Il tenente colonnello Ardoino — antico patriota che le calunnie de' retrogradi avevano nel 33 colorato colle tinte dell'assassino e costrettolo per quindici anni a spendere il proprio valore per tutelare dal dispotismo le non sue contrade — per meglio aggiungere lo intento pietoso, vi si slancia egli pure; ed udito come il capo de' sediziosi, giovane dalla barba e dai capelli biondissimi, parlasse italiano con forestiero accento, con sicurtà grande esclama: «Poveri illusi! Io conosco costui nel qual voi fidate! Non è già un nostrano. Egli è un tedesco, mandato dal suo governo a seminar zizzanie fra noi, a far nascere contese civili, acciò nel mentre che gl'Italiani si sgozzan tra loro, entrino qui gli imperiali.» Il manigoldo balbetta parole confuse, si guarda intorno, legge l'ira sur ogni volto e dassi a fuggire. E tutti lo seguono a precipizio. Ma quei della strada sommano già a più centinaia. I pericoli, i timori si fanno più forti. Un tribuno di plebe salito sur una sedia, chiede con baldanza che il Re si presenti; e Carlo Alberto apre le imposte e francamente si mostra sul verone; e per alcun tempo vi rimane segno a parecchie archibugiate e ad invettive le più grossolane. L'orator su accennato — reso ardito e potente dalla bassa moltitudine che dominava — si rifà accusatore del principe per la sua fuga del 21; ricorda gl'imprigionamenti, gli esilii, le morti, le sevizie comandate dal Re dodici anni più tardi; ripete i sospetti di tradimento nel campo; lo dichiara vie più traditore in Milano; e consiglia la commossa ciurmaglia ad atti colpevoli, ribaldi. E gli accorati dalle ruine della patria, che omai a tutto credevano, addoppiavano gl'impeti e le ingiurie contro re Carlo Alberto, il quale, sereno in tanto gravi perigli, pone la mano sul petto, quasi per dimostrare la propria lealtà e resta segnacolo di ben altri colpi. «O guerra o morte» seguitano ad urlare tra le imprecazioni ed i fischi quei della strada. Ed il duca di Genova, credendo che quegli arditi sarebbero stati capaci a tener la promessa — e lo avrebbero potuto, se i fatti non fossero fortunatamente più difficili delle parole — rispondeva loro com'egli, ammirando l'animo dei cittadini milanesi, sarebbesi posto alla loro testa per vincere o morire con essi. La folla applaudì; ma qualcun sorse per chiedere che il Re di sua bocca confermasse quel voto. Richiesto, si presentò di bel nuovo; il popolo, però avea mutato mente, giacchè un altro oratore, sur una sedia, avea detto che per esser sicuri facea d'uopo vedere il nero sul bianco ed emetter fuori una promessa in istampa. Vennero di fatto pubblicate queste parole: «Il modo energico col quale la intera popolazione si pronuncia contro qualsiasi idea di transazione col nemico, mi ha determinato di continuar nella lotta, per quanto le circostanze sembrino avverse. Io rimango fra di voi coi miei figli.» E Carlo Alberto strappava la capitolazione, sperando nella provvidenza di Dio. In quel mentre con immenso scoppio andava in aria il palazzo del genio, ove trovavasi la provvisione delle polveri; non dovevano essere stranieri al misfatto gli sprigionati dalla galera di Mantova, di cui il Radetzky aveva innondata la Lombardia; nè gli ufficiali austriaci travestiti, i quali — profittando di tanta confusione capitanavano l'orda degli eccessivi cogli infami artifizi riesciti altra volta in Gallizia. Il municipio impensieriva a tale novella; e vedendo che il Re era deciso a combattere ancora, fidando sulla cooperazione di uomini, i quali nell'istante del pericolo — perchè con tali elementi così deve accadere — sarebbero tutti scomparsi, inviò di propria mente, al declinare del quinto del mese, una sua deputazione al Radetzky per pregarlo di ratificare i capitoli già convenuti.»

«La novella dell'attentato bociavasi già tra le file, e gli ufficiali della brigata di Savoia, indignati per tanto eccesso, eransi riuniti per deliberare in qual modo potesse farsi salva la persona del Re. Gabriele Massimiliano Ferrero, Carlo di Coucy, e Leone di Cocatrix vennero deputati a rappresentare presso i differenti corpi della ordinanza le comuni inquietudini e le prese determinazioni. Ma re Carlo Alberto, informato del pensier generoso che movea le sue genti e deciso a tutt'uomo d'impedire la fratricida discordia ordinò pace ed obblio. «Dovess'anche questo popolo assassinarmi» egli disse «non permetterò giammai che i miei soldati si pongano al rischio di versare il sangue italiano!» Il duca di Genova, malgrado l'ordine di raggiungere la propria divisione, volle rimanersi presso suo padre per tutelarne a qualunque costo la vita. Il sergente Orengo, giacente ferito nell'ospedale, trascinossi fino al palazzo Greppi, e appoggiato l'infermo corpo ad una colonna della porta, rispose alle minacce di morte colle grida reiterate di «Viva il Re!» Serbino queste pagine il ricordo di una fedeltà così coraggiosa. Il colonnello d'artiglieria Alfonso della Marmora, scorgendo come i forsennati si affaticassero nello adattar sotto l'uscio un barile di polvere con sinistre intenzioni, si gittò da una finestra nel giardino e coll'aiuto de' bersaglieri e di un battaglione della brigata Piemonte infugò quegli arditi, che mai più ricomparvero. Verso il mezzo della notte, Carlo Alberto, saputo come lo arcivescovo e il podestà avessero — a nome del municipio — stipulato i capitoli sulle sorti della città, col cuore angosciato ed oppresso deliberò rientrare nei proprii Stati. Una più lunga dimora potea compromettere il popolo, l'esercito e sè medesimo. Escì dunque dal palazzo e si diresse a piedi alla volta della porta Orientale; dopo breve riposo continuò il cammino per porta Vercellina in mezzo alle tenebre più profonde, tra il rintocco delle campane a stormo, tra lo scoppio della moschetteria che diè morte a parecchi soldati al suo fianco. Con lunga e penosa fatica venne sgombera la via dalle molteplici barricate esterne, e l'esercito in tre colonne potette alla fine dirigersi a Magenta e Abbiategrasso per rientrare in Piemonte. Un solo battaglione della brigata Guardie rimase col duca di Genova in Milano per consegnare la porta Romana agli Austriaci e per tutelare le convenzioni del municipio5.

La luce sinistra degli incendi suburbani; il continuo trarre degli archibugi contro le mura; il frastuono delle campane a martello; l'inaspettato giungere di Garibaldi con cinquemila uomini a Monza; l'avere il Re stracciato i discussi capitoli; il girovagare de' contadini armati per le campagne, senza sapersene lo scopo; tutto ciò poneva lo sgomento nel cuore di Radetzky e de' suoi generali. Credettero la ritirata di Goito, di Cremona, di Lodi un tranello loro teso per distaccarli dalle loro fortezze e distruggerli sommariamente con una guerra omicida e mai rallentata di truppe e di popolo armato. Il Maresciallo mandò i suoi ufficiali travestiti per ogni dove a esplorare il terreno. L'indomani, in sul meriggio, fece il suo ingresso nella città. Le vie erano spopolate e nude; le case in molti luoghi deserte; chè, più di centomila abitanti eransi prima dell'alba e poi precipitati fuor delle porte. Piangendo accorati, traendo seco le poche robe e i bambini e i malati e le donne e i vecchi cadenti, smarriti quasi del senno, muovevano quelli innanzi senza direzione, senza scopo, privi di danaro e di ogni altro mezzo da sostentarsi. Alcuni, stremati dal dolore, o deboli di corpo, o non adatti alla fatica delle marce, od a resistere ai raggi di un sole cocente, impazzarono, o caddero morti sulla polvere della strada. Altri raggiunsero i soldati piemontesi, i quali, memori delle fratellevoli cure avute in Milano, ove i cittadini offerirono loro quarantamila camicie in un giorno, ove vennero cibati di pane bianco e di doppia razione di carne, di cacio e di vino, ove furono presentati di sigari e di denaro, aiutarono i derelitti come meglio poterono; e, messo ad armacollo il moschetto, portarono fra le braccia i bambini che pel lungo cammino non valevano più a reggersi in piedi. Misera consolazione, perchè tremenda!

Innanzi por termine a narrare d'una guerra cominciata sotto i più felici auspici, e che l'imperizia del capo supremo, dei governi provvisori, e il tradimento di alcuni generali trassero a sì miseranda fine, sacrificando un esercito a cui non mancava certo il valore, dobbiamo un cenno di lode ai volontari tutti, i quali, malgrado l'obblio in cui furono tenuti, soffrirono con abnegazione ogni disagio, e combatterono sempre con estremo ardimento. Il pugno di prodi Alpigiani alla custodia dello Stelvio non venne pur mai meno a sè stesso; esso più volte rintuzzò gli attacchi dei nemico, fortemente stabilito sulla linea del Taufers, Glums, Schluderns e Trafoi; e i soldati del Reisinger del Wellington e i cacciatori tirolesi ebbero a provare quanto fosse ardito il volontario italiano! Ne' combattimenti allo Stelvio s'ebbe a compiangere la perdita di un volontario, il Clerici di Milano, il quale soltanto da ventiquattro ore era corso ad offerire la sua vita alla patria. Si copersero di gloria il Lavizzari, l'Arrigosi, un tal Battista De Gasperis, e molti altri generosi di cui non potemmo raccogliere i nomi.

 




5 C. A. Vecchi.






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