SAN CARLO.
Bonus pastor animam suam dat
pro ovibus suis.
(Ioh. 10, v.
11).
Oh! quanto degno è di fiducia un grande
Di pietà e sacrificii
operatore,
Che fu debol mortale, ed
ammirande
Forze trovò nel suo
sublime amore!
Fama antica non è che
voci espande
Sovra Carlo, d'Insubria
almo Pastore;
Ei visse quasi ieri, e
sue pedate
In tutto il suol natìo
sono stampate.
E perocchè de' secoli non volve
Oscura nube di sua vita
i fatti,
Dir non possiamo: «Era
d'un'altra polve,
Era di tempi al dolce
errar men atti».
Dir non possiam: «Noi tal etade involve,
Che irresistibilmente al
mal siam tratti».
Ma ravvisiam come in
orrendi tempi
Possan pur di virtù
fulgere esempi.
Sotto il tempio gigante di Milano
Un delubro contien la sacra
spoglia;
Colà viene il devoto da
lontano,
E de' commessi falli si
cordoglia,
E fede ha ch'ivi niun
pregar sia vano,
E torna speranzoso alla
sua soglia;
E narrato è di cuori, un
dì perversi,
Che furono per sempre al
ciel conversi.
Talora a quel delubro io discendea
Dubbio su tutto, e quasi
su Dio stesso,
E lung'ora solingo ivi
gemea
Da sciagurate passioni
ossesso,
Poi vedea mover giù
dalla scalèa
Il poverel da' suoi
malori oppresso,
Ch'appo il corpo del
Santo s'inchinava,
E di lui la beata alma
pregava.
La fè del poverello io con dolcezza
Invidiando, era commosso
al pianto,
E vergognava della ria
stoltezza
Che sovente di senno
usurpa il manto;
E allor tutta splendeami
la bellezza
Del culto ch'elevar può
l'uom cotanto;
E Carlo io pur pregava, e
in me largita
Tosto sentìa di maggior
fede aita.
Sempre onorai quel forte: ad onoranza
M'astringon que'
magnanimi mortali,
Ch'osano concepir l'alta
speranza
Di sveller d'infra il
mondo orrendi mali;
Ch'osan, non per
vendetta od arroganza
Contro a poter di
soverchianti eguali,
Ma di Dio per amore e
delle genti
Confonder dell'iniquo i
rei contenti.
Di Carlo a' tempi, vïolenza e orgoglio
Spesso ne' sommi e
oscenità regnava,
E de' vili costumi il
turpe loglio
Indi più nella plebe
pullulava;
Innocenza per tema e per
cordoglio
Da ogni parte ascondeasi
e palpitava,
E se la raggiungea
braccio nefando,
Irrugginito era di legge
il brando.
E perchè inetta era la legge ultrice,
L'uomo spogliato del
paterno avere,
E il padre della vergine
infelice
Che a lui rapita avea
truce potere,
Fean la propria lor
destra esecutrice
Di cieche stragi e di
perfidie nere,
E in mezzo al sangue gli
uomini cresciuti
L'ire feroci esser
credean virtuti.
E per maggior calamità d'allora
Premeano Italia immiti ferri
estrani,
Onde tra parte e parte
ardean tuttora
Più frequenti gli
oltraggi e gli odii insani;
E perchè il volgo
stolido peggiora
Quando vien retto da
esecrate mani,
La podestà straniera
incrudelìa
Quanto più il volgo
oppresso l'abborrìa.
E in sì gravi sciagure, onde cotanta
L'ignoranza e l'obblio
dell'Evangelo,
Anche la schiera che
dovrìa più santa
Sfavillar, perchè
interprete del Cielo,
Campioni egregi aveva,
sì, ma oh quanta
Feccia sol mossa a
farisaico zelo,
Inimica di Roma, e
sovvertente
Co' rei costumi ipocriti
la gente!
Su' tristi giorni suoi Carlo fremea:
Data non gli era
onnipossente mano,
E pur argin gagliardo
imporre ardea
A quel di vizi orribile
oceàno.
Non disperò della
sublime idea,
Il soccorso affidandol
sovrumano,
Vide ch'altri giovar
uomo può sempre,
Se a virtù somma sè
medesmo tempre.
Dio benedisse quell'eroica brama,
Il suo servo su molti
altri estollendo,
E tal gli die di giusto
Presul fama,
E linguaggio amorevole e
tremendo,
Che, mentre de' perversi
ad ogni trama
Fu visto questi oppor
senno stupendo,
Ad amarlo costretti o a
paventarlo,
Tutti il messo di Dio
scerneano in Carlo.
Chè se rigore e dignitosa vita
Il Vescovo integerrimo
imponeva,
Ei pria mollezza avea da
sè sbandila,
E co' poveri il pan
condivideva,
E l'austera sua mente
era addolcita
Da quel sorriso che gli
afflitti eleva;
Co' superbi terribile
soltanto,
D'ogni infelice
intenerialo il pianto.
Del paterno suo cor fur monumento
Ospizi per famelici ed
infermi,
E istituti ove sprone ed
alimento!
Dato venia
d'intelligenza a' germi,
E il suo forte,
moltiplice intervento,
Ove occorrean
contr'ingiustizia schermi,
E l'impulso ch'ei diede
a' patrii ingegni
Verso i nobili fatti e i
pensier degni.
Sua immensa carità, suo santo ardire
Suscitogli appo il trono
alti nemici;
A impudenti rampogne, a
spregi, ad ire,
Grida si mescolar
calunniatrici:
Nudrir fu detto
scellerate mire,
Tutti i dolenti a sè
facendo amici;
Dei regi udissi
schernitor chiamato,
Che il lituo avea sopra
gli scettri alzato.
Lasciava ei che la collera stridesse.
E della Chiesa ognor
sostenne il dritto:
Finchè vestigi sulla
terra impresse
Contro a sè vide mosso
empio conflitto;
Ma se alcun della grazia
ai lampi cesse,
Con gioia obbliò Carlo
ogni delitto;
E spesso tal, che più
l'aveva offeso,
Alfin d'amor per lui
sentiasi acceso.
Gl'implacati di Carlo abborritori
Quai tra' mortali furo?
I farisei!
La più abbietta genìa di
traditori!
Color che in ogni età
sono i più rei!
Color che della Chiesa
ambìan gli onori,
Poi core e mente
ribellaro a lei!
Que' sacerdoti che
fautor si fanno
Di sfrenatezza eretica e
d'inganno!
Chi è quell'infelice maledetto
Che porta in fronte i
torvi occhi di Giuda,
E come Giuda si percuote
il petto,
Perchè più in rimirarlo
altri s'illuda?
Schiavo sempre viss'ei d'iniquo
affetto?
Di virtù l'alma ebb'egli
sempre ignuda?
O dopo aver d'amor di
Dio avvampato,
Cadde e non sorse, ed a
Satàn s'è dato?
Per quai sequele di misfatti orrende
Scritte nel libro degli
eterni guai,
Dove cancellatrice più
non scende
Del sangue di Gesù
stilla giammai,
Un mortifero bronzo oggi
egli prende,
E d'empia gioia brillano
i suoi rai?
A' rei socii sorride,
esce del chiostro,
E l'arme sotto il manto
asconde il mostro.
Sì! del truce delitto ei socii avea!
Ed appunto i supremi del
convento!
Eran tre questi indegni,
e li stringea
D'infernale amicizia
giuramento.
Lor chiostro che di
santi un dì fulgea,
Fatto avean di turpezze
abitamento.
Ministro e amico loro
astuto e forte
Era colui che or volge
opra di morte.
Uscito appena il perfido omicida,
Guardansi e
impallidiscono i preposti,
E un di costoro
all'assassino grida:
«Riedi! il sappiam che
intrepido ognor fosti;
Questo novo cimento or
mal t'affida;
Riedi! sii obbedïente a'
cenni imposti!»
Ma in covil di superbia
e di licenza
Vano e risibil nome è
obbedïenza.
«Ahimè! questi prorompe, ei non m'ascolta!
Che faceste, o compagni,
a suscitarlo?
Gagliarda fu l'offerta
sua, ma stolta,
Di tor dal mondo
l'esecrato Carlo.
Sempre scherniste di
dolore avvolta
La presaga alma mia, ma
il vero io parlo:
Tanto di colpa in colpa
osi vi feste,
Che omai l'abisso a
tutti noi schiudeste».
«Codardo! esclama un de' compagni; pensa
Che ognor la sorte al
nostro messo arrise;
La sua destrezza in
tutte imprese è immensa,
E altre volte le man di
sangue ha intrise.
Move or egli ad oprar
fra turba densa,
E fian le menti da
terror conquise,
Sì che non arduo esser
gli dee celarsi,
E illeso nelle tenebre
ritrarsi».
Il terzo ostenta egual baldanza, e dice:
«Purch'egli atterri il
Vescovo odïato!
S'anco andasse scoverto
l'infelice,
E in ferri tratto, e a
morte strascinato,
Chi potrà dimostrar
ch'eccitatrice
Fosse la nostra voglia
all'insensato?
Al venerevol Carlo inni
alzeremo,
E il suo uccisor cogli
altri imprecheremo».
Intanto l'omicida affretta il passo,
E sui preposti a
sogghignar si sforza;
Sembragli il loro cor
vigliacco e basso,
Quand'è più d'uopo
irremovibil forza;
E dice: «Io ben son
certo che a me lasso,
Se la prospera stella
oggi si smorza,
Intenti solo ad evitar
lor danno,
Costor l'amistà mia
rinnegheranno.
Spero che gioïrò di mia vittoria,
Ed eroe da lor labbra
udrò chiamarmi!
Quel Carlo ch'ogni
nostra ascosa istoria
Investigare osava e
minacciarmi,
Vedrà come del lituo
anzi la boria
Per la salute del mio
chiostro io m'armi!
Ma s'io perir
dovessi?... oh allora tutto
Meco trarrò l'empio
convento in lutto!»
Giunge il ribaldo al vescovil ricinto,
Ed ascende al tempietto,
ove il Pastore,
Da' famigliari sacerdoti
cinto,
La preghiera seral
porgea al Signore.
Ivi d'oranti assai
stuolo indistinto
Pïamente con esso
effondea il core:
Palpita mal suo grado
l'omicida,
E ancor «Ti penti!»
l'angiol suo gli grida.
Ma soffocò tutti i rimorsi, e rise
Dell'angiol suo e di
Dio, come di larve.
Con ira gli occhi sovra
Carlo affise,
Ed esecrando zelator gli
parve.
A liberarne il mondo si
decise,
E certo il proprio
scampo gli trasparve;
Allo scoppiar
dell'avventata morte
Ratto balzar fidava
oltre le porte.
Salmi sciogliendo il Presul benedetto,
Quel nobil verso di Davìd
dicea:
«Non si turbi, nè tremi
ora il mio petto!»
Quand'ecco sfolgorar la
canna rea.
Al fero tuono, ognun
d'ambascia stretto
Dal suol sorgendo, «Ov'è
il fellon?» chiedea.
Da tergo il colpo giunto
era su Carlo,
E, oh prodigio! non
valse ad atterrarlo.
«Non si turbi nè tremi ora il cor mio!»
Con ferma voce ripigliò
il Prelato,
E in ginocchio rimase a
lodar Dio,
Ed a pregar pel mostro
sciagurato.
S'udì questi ulular:
«Preso son io!»
E il giorno maledire in
ch'era nato,
Ed il padre e la madre, e
più il perverso
Chiostro, ov'ei s'era in
tutti vizi immerso.
Taccia il mio carme le bestemmie atroci
Del traditore e
l'infernal suo riso,
Quando mirò degli
abborriti soci,
Appo i supplizi,
impallidito il viso;
E taccia come, anco
all'estreme voci,
Ei sperar ricusò nel
Paradiso:
L'alma sua dal carnefice
spiccata,
Fu dal re dei demon
presa e baciata.
Benchè mirasse nel suo clero istesso
Carlo intelletti perfidi
cotanto,
Lo sperante suo cor non
fu depresso,
Ma allor anzi doppiò di
zelo santo;
Non ebber più nel
santüario accesso
Tai che d'avi o
d'ingegno avean sol vanto;
Purificata ei la
lombarda Chiesa
Volle ed ottenne, ad
alti esempli intesa.
Mentre corregger egli e sublimare
I suoi tempi ed i
posteri anelava,
E in peste orrenda visto
fu esemplare
Di pietà fra la turba
afflitta e ignava,
E in nessuna miseria il
casolare
Del poverello ei mai non
obblïava,
Pur non tacea di basse
alme lo sdegno,
Ed era ei spesso ai
vilipendii segno.
La luce de' suoi fatti alle sincere
Menti dimostra qual mortale
ei fosse;
E quando ascese alle
superne sfere,
Confusa alfin calunnia
ammutolosse.
Della Chiesa ogni santo
condottiere
Sovra l'orme di Carlo
indirizzosse,
Ed oggi ancor sulle
lombarde rive
Delle virtù del Grande
il frutto vive.
Io nulla son, ma ad onorarti appresi,
E so che sei possente
appo il Signore,
E con fè al tuo sepolcro
mi prostesi,
Ed il pensare a te
m'innalza il core:
Odimi, Carlo, e i miei
sospiri accesi
T'abbian per me ne'
cieli intercessore!
Delle giust'opre caldo
amor chiegg'io,
Chieggio vederti un
giorno in seno a Dio!
Tra gl'Itali non v'ha petto gentile,
Cui söave non sia la
rimembranza
Di pastor sì benefico
all'ovile,
D'uom ch'agli altari diè
tanta onoranza.
Chi, solcando il Verban
con petto umìle,
Non mirò intenerito in
lontananza
L'antica Arona, ove le
limpid'acque
Lietamente dir sembrano:
«Ei qui nacque!»
In anni oggi remoti e sempre cari,
Quell'amabil pur fei
pellegrinaggio.
Gli ultim'astri fulgean
tremoli e rari,
Perocch'era una prima
alba di maggio,
E sui monti segnava
oggetti vari
Impallidito della luna
il raggio,
Finchè cedendo a luce
più gioconda,
Più languidetta in cielo
era e nell'onda.
Ed allor sulle cime orïentali
Rosseggiavan leggère
nugolette,
E spuntavan del sole i
dolci strali,
Qua e là indorando le
contrarie vette;
Ed i fiotti del lago or
dianzi eguali
S'increspavano al tocco
delle aurette,
E nel lor fasto
signorile e vago
L'isole risplendeano in
mezzo al lago.
E le spiagge lunghissime e distanti,
E le molli e le ripide
pendici
Mostravan con moltiplici
sembianti
I lor tugurii poveri e
felici,
E i campanili de'
tempietti santi,
Ove già del mattino ai
sacri uffici
Del vigil bronzo
l'eccheggianti note
Chiamavan le rideste
alme devote.
Oh quali eran miei palpiti veggendo
Arona, verso cui più
concitati
Dal desiderio andavano
battendo
I remi de' nocchieri
affaticati!
Colà s'innalza, e sta
benedicendo
Colossale un'effigie i
lidi amati:
L'effigie del Pastor,
per cui d'Arona
Benedetto nel mondo il
nome suona.
Su quell'alto colosso eran mie ciglia
Lungamente fissate da
lontano,
E quella fè che a tutto
il cor s'appiglia
Da me espelleva ogni
pensier profano.
Parea al mio spirto pien
di maraviglia,
Che il Santo stesso,
alzando ivi la mano,
Accennasse di Dio le
creature
Benedir tutte, e benedir
me pure!
Come allora, oggi esclamo con affetto:
Proteggi, o Carlo, la
Lombarda terra,
Ed ogn'Itala sponda, ed
ogni petto,
Ovunque ei sia, che
preci a te disserra!
Se germe è in noi di
ben, rendil perfetto,
All'opre vili insegnaci
a far guerra,
Veglia su noi qual
padre, ed i tuoi figli
Sprona e guida a
vittoria infra i perigli!
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