RAFAELLA.
Cantica.
La Cantica di Rafaella doveva
essere il principio d'un'azione più vasta che non è quella presentemente qui
disegnata. Fu il primo saggio ch'io abbia eseguito di tal genere di
componimenti, or sono molti anni; ma siffatto lavoro essendo andato perduto con
altri scritti dalla mia gioventù, ho pigliato più tardi a ricomporlo con
affezione, ma non più come episodio di poema esteso. Quel poema, nella guisa
ideata dapprima, aveva per oggetto di far sentire quanta debba e possa essere
sugli uomini l'efficacia delle virtù della donna. Io congegnava a tal uopo una
serie di fatti, collocandoli in Italia a' tempi dell'Imperadore Ottone II, e
divisando con simili diversi quadri di mostrare altresì qual fosse l'Italia
d'allora sì in bene sì in male, e quanti bei temi a poesia possa offerire la
vita del medio evo. Foscolo bramava che ci dividessimo l'assunto di dipingere
que' secoli, egli con una serie di tragedie della qualità della sua,
Ricciarda, ed io con poesie narrative. Sebbene fosse fautore caldissimo
degli studii classici, amava egli pure i soggetti de' mezzi tempi, soltanto
volendo che si trattassero con gusto severo, e non con quelle soverchie licenze
d'invenzione e di stile, che da taluni della scuola romantica s'andavano
introducendo.
RAFAELLA.
Responsio mollis frangit
iram, sermo
durus suscitat furorem.
(Prov. 15. 1)
O bell'arte de' carmi! Onde l'amore,
Il dolcissimo amor, che sin dagli anni
D'adolescenza io ti portava, e afflitto
Da lunghi disinganni
anco ti porto?
Non per la melodìa, misterïosa
Sol de' söavi accenti, e non per l'aura.
Degli applausi sonanti entro le sale
De' colti ingegni, e non per la più cara.
Delle lodi, - la lagrima e il sorriso
Delle donne gentili. Innamorato,
O bell'arte de' carmi, hai la mia mente
Colle nobili istorie. Il tuo incantesmo
È per me la parola alta e pittrice
De' secreti dell'anima, ed un misto
Di semplice e di grande e di pietoso,
Che nessun'altra bella arte con tanta
Efficacia produce. A te ne' voli,
Cui fantasìa ti trae, tutte concede
Sue grazie il vero; e tu, se Poesia
Inclita sei, quella ond'amante io vivo,
Tutte del ver serbi le grazie, e ornarle
Sai di delicatissimo splendore
Che non punto le offende e non le muta,
E pur le fa per molti occhi più dive,
Più affascinanti l'intelletto. Incede
Senza carmi e con leggi altre men gravi
Più scioltamente un narrator, siccome
Senza cinto la vergine; ma il cinto
Converte la vaghezza in eleganza.
Suoni sull'arpa mia,
suoni la lode
Delle forti sull'uom dolci potenze,
Onde il femmineo cor va glorïoso;
E mia cantica dica oggi le pompe
Del Parlamento di Verona, e quale
D'un magnanimo vate era il periglio,
E più il periglio d'un illustre oppresso
Se vergin trovadrice alla crucciata
Alma d'un generoso imperadore
Pacificanti melodìe opportune
Dal mite e saggio cor non effondea.
Quando Italia ordinar,
lacera in mille
Avversanti poteri, ebbe promesso.
Il rege Ottone, e di Verona al circo
Chiamò l'alta adunanza, ove concorse;
Ogni baron d'elmo o di mitra ornato,
Ch'oltre o di qua dell'alpi avesse nome,
Immensa moltitudin coronava
Sull'anfiteatrale ampia scalea
La vasta piazza, in mezzo a cui d'Augusto
La maestà fulger vedeasi, e quella
De' reggenti minori. A gara e dritti
S'agitavano e accuse. Ora fremente
Rattenendo la giusta ira nel petto,
Or con dolce sorriso, il re supremo
Ascoltava e tacea dissimulando,
Però che pria di pronunciar sue leggi,
Gli altri indagava e maturava il senno.
Fra le orrende in que'
dì scagliate accuse
Contro a veri o supposti empi, colpita
D'Insubre cavalier venne la fama,
La fama d'Ugonel. Gli s'apponea
Da un ribaldo, il qual retti avea vissuti,
A giudizio del popolo, molt'anni,
Atroce fatto di perfidia e sangue:
Una lunga covata inimicizia
Verso il prode Emerigo, e astute fila
Per ingannarlo sotto il sacro ammanto
Delle gioie amichevoli; ed in fine
La morte stessa d'Emerigo, oprata,
Per artifizi d'Ugonel, con feri
Di streghe incantamenti o con veleno.
Carissimo al regnante
era Emerigo
Per assai merti in guerra e pace, e quando
Avvenne del baron la crudel morte,
Fu visto nella reggia il coronato
Balzar dal soglio, e impallidire, e gli occhi
Empirglisi di lagrime, e le grandi
Rammemorar virtù del cavaliero,
Giurando alta vendetta.
Ora Ugonello
Vincolato ecco giace entro i profondi
Umidi cavi di vetusta torre;
E provata apparendo omai la nera
Trama ed i sortilegi e l'omicidio,
Gode l'accusator, gode una turba
D'invidïosi or satisfatta, e ognuno
Di que' nemici aspetta la imminente
Del prigionier condanna; e non pertanto
V'ha moltitudin pur d'illustri e d'imi,
Che reo stimar non san quel, già fra' sommi
Seguaci di virtude annoverato.
Le cure mille del
Tedesco Impero
E del regale Italo serto, e il vivo
Desìo di non fallir, tengon sospesa
L'alma d'Otton per varii giorni. Intanto
Veniva egli nel circo alle adunanze,
E più del consüeto era cruccioso,
E de' suoi fidi gl'intelletti ognora
Feansi industri con feste a serenarlo.
Misti alla densa
spettatrice folla
Palpitavan due petti, usi coll'arpa
A ridir cose non del volgo: a loro
D'ogni grande spettacolo la vista
Era di grandi sensi ispiratrice.
Uno è il vecchio Romeo, guerrier de' monti
Onde scende Eridan; l'altro Aldigero,
Suo figliuolo e discepolo: Aldigero
Non noto sol per gl'inni suoi gagliardi,
Ma formidabil nelle patrie pugne,
E cor, cui sublimato ha degno amore
Per la vergin de' cantici lombardi,
Rafaella, a que' dì gloria d'Olona.
Fascino avea sull'anima d'entrambi
Que' bellicosi spiriti la luce
De' poetici studi. Il vïandante
Le valli attraversando in notti estive,
Vïolarsi i dolcissimi silenzi
Da dilette armonie sui colli udiva;
Ed erano i due vati, ardenti spesso
Di quell'estro recondito e divino,
Che più tra il riso degli ameni campi
Che nel fragor delle città sfavilla.
Ma l'estro sempre non traean da' belli,
Maravigliosi di natura aspetti.
Or contemplavan, bianchi di spavento,
Le tempeste che visitan la terra
Come i ladroni, e menan beffe al pianto
De' poveri, cui tutto han divorato;
Or lunge ramingavano, e sui laghi;
E sui precipitevoli torrenti
E sulle oceanine onde le spume
Ivan solcando ne' perigli, all'urto
Più feroce de' venti, allor che il legno
E s'innalza e sprofondasi impazzato,
E qual degl'imbarcati urla, qual prega
Con pentimento e con secrete angosce,
Quale il nocchiero interroga, e il nocchiero
Non risponde, ma sibila convulso.
Oltre a tai casi di
terrore, a cui
Aldigero e Romeo s'eran per lungo
Vario peregrinar dimesticati,
Da' lor nobili cuori assaporata
Era la voluttà delle battaglie:
Nelle imprese santissime, e il terrore
Conoscean delle stragi, e l'alta febbre
Della sconfitta, e del trionfo i gaudii.
E sovente il canuto ad Aldigero
Avea parlato questi detti:
- A' vati
Uopo è molto veder, che terra e cielo
Offran lor di magnifico e tremendo,
E ciò che s'è veduto indi in solinghe
Ore volger nell'alma, conversando
Colla propria mestizia, e colle sacre
Memorie degli estinti, e col Signore
Eccoli ambi in Verona.
Ivi li trasse
La fama dell'eccelso intendimento,
Che tanti spirti còngrega da mille
Contrade lontanissime, e la fama
Delle regali, portentose pompe.
Spalanca i bei cilestri
occhi Aldigero
Nel vasto anfiteatro, inclito avanzo
Degli antichi Romani. Oh quanta folla
Sugli estesi gradini è brulicante!
Quanto splender nel sottoposto foro,
Intorno al soglio di colui che Italia
Regge e Lamagna, e in Occidente è primo!
- Oh padre! ei dice;
qual soggetto a carme
D'italo trovadore, e come il labbro
Di Rafaella, se in Verona or fosse,
L'alzerebbe sublime! Un gran monarca
Che di due nazïoni i sommi aduna
Per drizzar tutti i torti! E quel monarca
Giudice è tal, che può cotante sciorre
Inveterate liti, e le può sciorre
O com'angiol di Dio, disseminando
Sapïenza ed anelito di pace,
O com'angiol di Sàtana, con ratto
Piglio i buoni strozzando od illudendo!
- Figlio, taci per or;
bevi a larg'onda
I robusti concetti, e le speranze,
E il paventar magnanimo. Indi cresce
Dell'ingegno l'acume, e in avvenire,
A
fulminar le laide opre de' vili,
E a cingere di luce i generosi,
Ti detterà più invigoriti i canti.
Terminò dell'augusto
parlamento
L'affaccendato primo giorno, e allora
Fino al seguente dì venner le regie
Cure sospese, ed il pensoso Sire
Collo scettro i baroni accomiatava.
Gli applausi de' baroni Imperadore
L'acclamavan del mondo, e le caterve
Piene di maraviglia e di letizia
Ripetean l'alto grido.
Asceso Ottone
Sul candido destrier, per la più larga
Trapassa delle vie (dall'eccheggiante
Arena al suo palagio) ampia corsìa
Tutta sparsa di fiori e di tappeti
E d'ardenti profumi, entro le mura
Della città scorrendo. A tanti viva
Il festoso clangor si maritava
Di cento e cento trombe; ed a' guerrieri
Ed a' cavalli il cor battea sì lieto,
Qual batter suol della vittoria al suono.
Quel moversi de' popoli
irruente
Verso le regie case, un mar parea,
Che traripando inondi la campagna,
E le universe voci, ancor ch'allegre,
Rombavan sì moltiplici e sì ferme,
Che la tremenda ricordavan foga
Di città che o si scagli alla rivolta,
O per subiti incendi o per tremoto
Impetüosa dagli alberghi spanda
Uomini e donne, e per le vie cozzante
Strilli fuggendo la insensata turba.
Si discernea ch'ell'era gioia, e pure
Era una gioia che mettea spavento.
A quel mar traripato
argine intorno
Incrollabil si feano estesi armenti
D'italici corsieri e di tedeschi,
Affrenati da' prodi, irti di lance,
E le precipitose onde giganti
S'agitavan represse gorgogliando.
In tali urti di gente il
buon Romeo
Da una parte fu spinto, e da altra parte
Spinto venne il suo figlio, e vanamente
Qua e là si cercan lungo tempo un l'altro,
E a chiamarsi a vicenda alzan la voce.
Il sole iva all'occaso,
e detto avresti
Ch'ei discendesse in mezzo al gregge umano,
Tutto affollato sulla immensa terra.
Quella vista, e la splendida vaghezza
De' nugoletti occidentali, e il molle
Nell'aere della sera innominato
Religïoso incantamento, e in blandi
Fremiti omai converso il fracassìo,
Ed a que' blandi fremiti commista
La grata dissonanza or de' nitriti
Che le briglie scotendo alza, presago
Della vicina stalla, il corridore;
Or di persone salutanti, o mosse
A subitanee risa; or d'allungato
Grido di chi da lunge appellar sembra
Con dolce affetto un qualche suo smarrito,
De' trovadori commovea lo spirto.
Alle söavi rimembranze è
schiuso,
Più in quella vespertina ora che in altre
Dell'intero suo giorno, il cor dell'uomo,
Perocchè il dileguarsi della lampa
Che a tutti è lieta, inchina ogni pensante
Ad affetti patetici, e al ricordo
Del dileguarsi della vita. Allora
Diciam la requie a' nostri pii, che insieme
Un dì con noi frangeano il pane, e al sacro
Ospital nappo s'estinguean la sete,
E che falce di morte indi ha mietuto;
E se remota è la natìa convalle,
L'invochiam sospirando, e riportiamo
Alle cene domestiche e alla pace
Del proprio letto il desïoso sguardo.
E le vergini piangono a quell'ora
Più dolcemente o la perduta madre,
O l'amica, od il prode, a cui risposto
Avea già il cor, se non le labbra: «Io t'amo!»
Ed a quell'ora tutto ciò nell'alma
Sente un alto poeta, e più che mai
Con mistica armonia s'ordinan belle
D'egregi fatti istorie entro sua mente.
Tal ben era Aldigero, e
in sè volgea
Fantasie nobilissime, e lui pure
Premeva uopo di carmi. E nondimeno
Sue fantasie turbava una tristezza,
La tristezza gentil de' generosi,
Nel dire entro il cor suo, che, mentre tanta
Qui la festa fervea, mentre brïaca
Di piaceri e spettacoli e conviti
Era pur la genìa, carco di ferri,
In cupe volte di prigion, nel lezzo
E nel dolore un Ugonel giacesse
Senza conforto di parola amata,
Nè di soave illusïon, presago
Di quell'orrendo palco e di que' neri
Veli, e del manigoldo, e della scure!
E quell'oppresso era Ugonel! Colui,
Che il senno de' miglior dicea innocente!
Di loco in loco errò
Aldiger lung'ora,
Indi all'ansante petto altra potenza
Tormentosa s'aggiunse. Udì levarsi
Dalle regie pareti una celeste
Musica d'inni e corde, e a quelle sedi
Egli tragge, vi giugne, e appena dice:
«Son trovador», si schiudono le cinte
Dell'amplissima sala, ove al fulgore
Di faci innumerevoli e di gemme,
Alla guisa d'un Dio, da inebbrïante
Pompa sedea bëato il re de' regi.
Cinquanta arpe sonavano,
ed eletti
Trovadori ed elette trovadrici,
Bellissime di forma e verecondia,
Coralmente cantavano salute.
Al formidato e caro sir. Fra quelle
Vergini illustri, chi s'affaccia al guardo
Maravigliato d'Aldigero? È dessa!
L'inimitabil Rafaella! Alcuna
Ei dianzi speme non nutrìa che addotta
Ivi da' consanguinei ella venisse,
Inenarrabil giubilo s'indonna
Dell'amante garzon; ma il foco ei cela,
E mira, e pènsa, e ascolta, e più di prima
Vago di carmi ha il fervido intelletto.
Qual di lui fassi
l'esultanza, quando
Onorevol romor da tutte parti
S'alza di gente che il ravvisa e dice:
- Non è quegli Aldiger? Certo, è Aldigero!
Il famoso Aldiger! - Lo stesso Ottone
Ode il pronto susurro, e poichè tanta
Dell'estro d'Aldigero è qui la fama,
Vuole che un'arpa a lui si porga e canti.
Penetrato era intanto
ivi Romeo,
E testimon d'onor sì grande al figlio,
Di tenerezza lagrimò: tremava
Nondimeno il canuto, a cui più noto
Era che al figlio suo, quanta abbisogni
Innanzi ai re prudenza; egli tremava,
Conscio dell'arditissimo desìo
Di verità che in Aldiger fervea.
Ed infatti Aldiger,
poste le dita
Sull'auree corde, e dolcemente svolta
Ossequïosa melodìa, la sacra
Maestà benedisse, indi i sublimi
Doveri commendando de' regnanti,
Osò mischiar con reverenti encomii
Sentenze tai, ch'eran flagello al core
Di taluni fra i grandi, e l'infiammato
Inno rivolse a pingere l'uom giusto,
Che i maligni allontanano dal trono
Con atroci calunnie. E la pittura
Dell'improvvido vate apertamente
D'Ugonel presentava e le sembianze,
E le virtù, ed il carcere. In suo cieco
Zelo pel vero il trovador pregava
D'Augusto la giustizia a diffidenza
Contro orribili accuse, e predicea
Indi a lui gloria, ed agl'iniqui infamia.
Otton s'alzò sdegnato, e mise un cenno,
E l'inno s'interruppe, e dalle mani
D'uno scudier tolta al cantor fu l'arpa;
E la popolosissima assemblea
Alzò lungo susurro, in cui sommesso
Plauso verso Aldiger mostravan molti,
Ma plauso da rispetto e da paura
Alternamente soffocato. I cuori
Più ad Ugonello e ad Aldiger propensi
Nuocer temeano maggiormente ad ambi,
Se quel plauso sciogliean.
Qui l'assennato
Imperador volle calmare il moto
Di quella moltitudine di menti,
Mostrando alma pacifica, e di novo
Sovra il trono s'assise, e chiese il canto
Delle arpatrici. Ognuno imitò il sire,
Dissimulando la imprudente scossa
Data ai pensieri dal gagliardo vate,
E dolcissima scese sugli spirti
Delle virginee voci insiem sonanti
La musica celeste. Ognun per altro,
Benchè temprato a palpiti più miti,
Volgendo la pupilla in sul monarca,
Contristar si sentìa; chè nell'augusta
Faccia, atteggiata indarno alla quïete,
Balenava recondito corruccio,
E l'occhio suo fulmineo esser parea
D'imminente rigor nuncio tremendo.
I più avveduti spettatori scritta
La morte vi scorgean del pro' Ugonello.
Ad Aldiger s'approssimò
Romeo,
E - Che festi? gli disse sotto voce;
Che fia di te? Finta indulgenza è questa,
Che te impunito breve tempo lascia:
Libero uscirai tu di questa cinta?
E se pur libero esci, ove allo sdegno
Ti sottrarrai del rege? Oh potess'io
Trarti di qui!
Pietosa a lor d'intorno
Volea la folla schiudersi allo scampo
Del perigliante vate. - Uso alla fuga
Non son, disse Aldiger; se travïommi
Nell'impeto dell'estro il buon desìo,
Tal non è colpa che celarmi io debba,
E molta ho fè nel retto cor del sire.
Sebbene irremovibil dal
suo loco,
Pur mesto era Aldiger, tardi mirando
Assai sciagure sovrastanti, e prima
L'accelerato d'Ugonel supplizio,
E rimordeagli coscïenza. - Io reo,
Secretamente a sè dicea, d'audace
Orgoglio fui; me ne punisce Iddio!
Dopo il virgineo insiem
sonante accordo,
Palma Ottone degnò batter con palma,
E sorridendo già sorgea, bramoso
Di portar lunge da cotanti sguardi
Alfin l'arcana impazïenza. Il passo
Rafaella avanzò, novo tintinno
Assumendo sull'arpa, ed il cortese
Imperador si rifermò nel seggio,
Brevi credendo reverenti augurii
Dalla ispirata udir vergine illustre.
Rafaella tremanti avea le bianche
Mani sovra le corde, e uscìa tremante
Dal dolce petto il modulato suono,
E le guance arrossìano e di pallore
Si ricoprìano, e il grande occhio fulgente
Errava intimidito, e s'atterriva
Del re incontrando il formidato sguardo.
Quel gentil trepidar della fanciulla
Di tutte grazie adorna, intenerìa,
E maggiormente a lei tutti amicava.
Oh! prepotenza de' söavi
incanti
Che la donna somigliano al bambino,
E pur la spargon di virtù nascosa
Che ratta vince ogni viril fortezza!
Oh! come l'uom, quell'apparente infanzia
Mirando in viso della donna, e in tutti
I morbidissimi atti di quell'ente,
Gli s'avvicina con fiducia, e ardisce
Dirsi maggiore, - ed a quell'ente quindi
Che sì debol parea, tributi solve
Di reverenza, e a sè maggior lo estima!
Per quel poter che nelle
forme regna
E nella voce della donna, e astringe,
Le feroci, virili alme ad ossequio,
Dato alla donna è svolger ne' suoi detti
Mirabili ardimenti; ed ardimenti
Non sembran quasi, ma sospiri e preghi.
Chi rivelato avea tal
maestrìa
Alla vergin de' cantici? Addolcisce
A sua voglia e fortifica. Ispirava
Pietà col suo tremor; poi quella voce
Dianzi timida tanto, e quell'aspetto
Sembran di cherubin conscio a sè stesso
Di grazia e d'autorevole potenza
Irresistibil. Ne stupisce Ottone,
Ma non puote adirarsene, e diletto
Anzi ne prova sommo. E Rafaella
Seppe scansar ne' generosi carmi
Quel periglioso, indefinibil punto
Di baldanza per ottimi consigli,
Che irritar puote qual pungente biasmo;
E non pertanto ella assai disse a laude
Della giustizia ne' regnanti, e disse
Necessarii gl'indugi, ove affrettata
Da esortatori fremebondi venga
Di talun la caduta. Ogni pensiero
Della bella arpatrice era incalzante
A virtù, ma siccome i detti blandi
Di madre, che a virtù sprona e accarezza
L'indociletto garzoncello, o come
I detti d'una figlia a piè del padre.
Quell'umiltà, quella
dolcissim'arte,
Que' prorotti dal cor supplici versi
Vinser l'alma del grande Imperadore,
E gl'intenti ei capì di Rafaella.
Battè le regie palme, e alla percossa
Unissona fur segno, onde gli astanti
Baroni il plauso prolungàr sì forte,
Che ne tremaro il suolo e le colonne.
Otton chiamò la vergine,
le cinse
L'eburneo collo di splendenti gemme,
E dal suol rïalzandola, degnossi
Dirle: - Qual grazia chiederesti? - Ed ella:
- Se t'offese Aldiger, deh! gli perdona,
E mite sii nelle condanne, o sire!
Cessò la festa, e pieno
di söave
Commozïone era d'Otton lo spirto,
Ed all'intime stanze dei riposi
Riträendosi, disse al più fidato
De' cancellieri suoi: - M'avea lo schietto,
Ma severo Aldiger mosso a tal ira,
Ch'io divisava d'Ugonel la morte;
Pacato or sono, e indugierò.
Felice
Quel freno ai moti del rigor! felice
La sapïente vergine che a brame
Di verità togliea l'impeto scabro
Delle audaci parole, e ammorbidìa
Con abbondante carità i consigli!
Il sospendersi i fulmini, die' loco
A gravi scoprimenti: entrò discordia
Fra gl'inimici d'Ugonel; le accuse
Si contraddisser; la menzogna apparve;
Del Sassone Emerigo l'omicida
Fu manifesto e dato a morte; e colmo
Di gloria uscì del carcer suo Ugonello.
Fu grato all'Imperante
il liberato
Ed alla vergin trovadrice; e vide
Ch'ella amava Aldigero, e che Aldigero
Per l'emula ne' carmi si struggea,
E fra i varii parenti accordo trasse,
E l'imen si compiè. Sorrise Ottone
Ai degni sposi, e a Rafaella disse:
- Temprato dal tuo pio genio celeste,
Il vigor d'Aldiger più non m'irrìta.
Nè da quel dì Romeo
gl'impeti incauti
Non temè del figliuol: fatto era questi
Prode leon che a gentil maga è ligio.
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