AROLDO E CLARA
CANTICA.
Ideai e
verseggiai la cantica d'Aroldo e Clara molto prima di scrivere i
Saluzzesi; ma la pongo qui perché il soggetto si collega con quello del
precedente poemetto.
Questa
cantica nacque in giorni di somma sventura, ne' quali io, sentendomi troppo
inclinato a sentimenti di sdegno, procacciava di vincerli col ragionare fra me
stesso sulla bellezza della mansuetudine. Era in me indelebile un consiglio del
buon Alessandro Volta, il quale un dì m'aveva detto queste parole,
distogliendomi dallo scrivere satire: - «La poesia arrabbiata non migliora
nessuno; e se v'avviene di sentirvi iracondo e propenso a spargere la bile in
versi, paventate di diventar maligno. Vorrei anzi che allora cercaste di
raddolcirvi, poetando sopra qualche nobile esempio di carità e d'indulgenza.»
AROLDO E CLARA.
Sed
si esurierit inimicus tuus, ciba illum;
si
sitit, potum da illi.
(Ep. Ad
Rom. 12.)
I.
Piangi, o la più gentil fra le convalli
Dello spumante Pellice, ove un giorno
Alle sale d'Aroldo i Saluzzesi
Cavalieri affluìano ad alte feste.
Più non vedrai delle sue torri a sera
Uscir giulivo il cieco vecchio Aroldo,
Caramente appoggiando un braccio e l'altro
Sovra Ioffrido e Clara, ed il canuto
Ciglio volgendo con amor, ma indarno,
Ai dolci rai del tramontante sole.
Que' figli suoi nascean gemelli,
e santa
Tenerezza li univa. Or sola e mesta
Clara accompagna il cieco padre a sera
Fuor della torre, perocchè il gagliardo
Fratel devote ha l'armi alla difesa
Del pio Tommaso suo ramingo prence
Contro i nemici della patria terra.
Rosseggiava bellissimo un
tramonto
Sulle nevi lontane, e stupefatto
Pareva il sol che dal romito albergo
A salutarlo non venisse il vecchio.
Ahimè, quell'era di sventura un novo
Spaventevole dì! Schiudesi alfine
La porta del castello, e con veloci
Passi agitatamente escono Aroldo,
Clara e più servi; nè il canuto ciglio
Ai soavi del sole ultimi rai
Volger si cura. Che avvenia? - Dal campo
Infausto messo è giunto. Il pro' Ioffrido
Contro l'usurpator del saluzzese
Seggio osando tropp'oltre avventurarsi
Nel calor della pugna, il circondaro
L'empie straniere spade, e prigion cadde.
Speme di riscattar sì cara vita
Nutre il barone antico; e vuole ei stesso
Trar supplichevol senza indugio al truce
Fortunato invasor, che se talora
Immolar gode i miseri captivi,
Talor si placa a ricca d'oro offerta,
Molto dovendo da sua iniqua sede
Oro il tiranno effonder sulle bande
Dell'alleato provenzal monarca.
Giunto al margin vicino ove al
tragitto
Nel rigonfiato Pellice è apprestata
La navicella, Aroldo porge il bacio
Del congedo alla figlia. Allora al collo
Gli s'avvinghia la pia. - Sola a mie stanze
Non riederò, buon genitor; pupilla
Esser della tua fronte a chi s'aspetta
Se non a me? Forse pietà maggiore
Assalirà dello sdegnato sire
Il cor, s'umano ha cor, prona a' suoi piedi
La veneranda tua canizie e gli anni
Giovenili di vergine scorgendo,
Che colla vita del fratel la vita
Chiede del padre.
Vuole opporsi Aroldo,
Ma mentre in barca ei scende, ella d'un balzo
Già vel precede, e al consentir paterno
Fa cogli amplessi vïolenza, e l'onde
Perigliose attraversano. Ma ov'era
L'Angiol del vecchio afflitto e l'Angiol tuo,
Generosa innocente? A voi non velo
Fecer colle tutrici ale a celarvi
Alla vista de' prossimi ladroni
Che irrompono co' brandi alla rapina.
Voler divino ai nembi di sfortuna
Lascia possanza sovra i giusti un tempo;
Ma breve è il tempo sotto il sole, e arcana
Nei patimenti una virtù Dio pose
Ch'anco i giusti migliora e a sè li innalza.
Sbandato di predoni era un
drappello,
Che della guerra col favor raccolto
S'era d'Itale spiagge e di straniere
A rubamenti ed omicidii, altero
Linguaggio alzando di zelanti eroi,
Campioni della patria e di Manfredo.
S'azzuffan del baron coi fidi servi,
E nell'orrenda mischia ad uno ad uno
Dal soverchiante numero feriti
Vengon que' servi, e de' vincenti in mano
Son le ricchezze che a comprar la vita
Destinava del figlio il cieco sire.
Intero un dì per boschi e per
dirupi
Ei trascinato colla figlia venne,
Ma il manto della notte ai duo infelici
Prestò propizie tenebre, e dal mezzo
Del brïaco drappel de' masnadieri
Quetamente si trassero alla valle.
Come lontani fur dall'empia
frotta,
E ardiron favellare, il cieco strinse
La figlia al seno, e grazie alte le rese
D'averlo addotto a salvamento, e lei
Per l'accorto suo senno e per la dolce
Filial carità ribenedisse.
- Or dove, o padre, senza aïta
alcuna
Ci avvïeremo?
- O Clara mia, remoti
Siam dal nostro castello, e a ritornarvi
Il tempo mancheria; son prezïosi
Tutti gl'istanti; acceleriamo il passo
Verso il campo nemico, appo le triste
Di Saluzzo rovine. O senza doni
Compariremo anzi al tremendo sire,
Ma sincere promesse il piegherranno
A moti di clemenza. Inoltre ho fede
In mia canizie e in queste spente occhiaie
E nel pianto che versano, e ben anco,
Figlia, nel tuo.
Pensava Aroldo ospizio
Prender non lunge, ove la figlia al raggio
Della luna scorgea l'amica torre
D'un consanguineo sir. Ma là giugnendo,
Odon che il giorno pria furibonda oste
Era quivi passata e avea deserta
La rocca e trucidato il castellano,
E devastato a' villici i tugurii.
Il negro pan de' villici dispersi
Piangendo rompe colla figlia Aroldo,
E beono alle lor tazze. Indi sen vanno
Per tutti i casolari, invan cercando
Palafreno o giumento: avean le schiere
De' nemici avidissime votata
In que' lochi ogni stalla.
- Ahi, dilungati
Vieppiù ci siam dal tetto nostro, o padre!
Or dove andrem?
- Pedon la via si segua
Sino al mattin: buio non è, dicesti.
Fa cor; preghiamo camminando, e al guardo
D'altri ladron te, mia dovizia or sola,
Te il ciel pietoso asconderà.
Sì disse,
E di padre l'affetto e di sorella
Lena lor porge insino all'alba. Il campo
Mostrossi allora al pauroso orecchio
Della fanciulla pria che agli occhi.
- O padre,
Odi tu, disse, odi tu roco un suono
Simile al suon della bufèra o a quello
Di molte acque correnti?
Il vecchio capo
Ei soffermò, ed immemore un istante
Delle sue angosce, alzò la barba e rise.
-Oh di qual gioia quel fragor
m'empiea
Negli anni miei di gloria! È il campo, o figlia!
Noto è ad orecchio di guerrier quel suono,
Come voce di sposa al suo diletto.
Un dì così fremente io il bellicoso
Aere appena sentia, sovra il mio scudo
Battea forte l'acciaro, e dai precordii
Metteva un grido che atterrìa da lunge
Del nemico le scolte. E i miei congiunti
Dicean: «Voce è d'Aroldo, oggi si pugni,
Chè dove è Aroldo, è la vittoria.» Or fiacca
È questa voce, e più la destra, e al breve
Giubilo del guerrier tosto succede
In me a quel suono il trepidar del padre.
Proseguiro alcun tempo, e quindi
Clara,
Che sino allor söavemente a' detti
Del genitore avea frammisti i suoi,
Incominciò a interrompersi, e risposte
Dar che, non conscio l'intelletto, un moto
Parean sol delle labbra. A poco spazio
Vedea della distante oste per l'aure
Quasi di nave altissimi duo pini
Elevarsi e ondeggiar, poscia fermarsi
Come al suolo confitti. E secondata
Venìa quell'opra da un clamor che il primo
Clamor non era, ma or fischiante or rotto
Da infami ghigni o da cupo silenzio.
A' sensi suoi creder dovea? Le
cime
Parean gravate de' duo legni, e il pondo
Che le gravava non scerneasi. Udito
Spesso Clara ha di barbari supplizi,
Ove ad appesa vittima lo strale
Drizzano i bersaglieri, ed ottïen palma.
Quei che divide dalle ciglia il teschio.
Di tai supplizi un questo fora?
Oh dubbio
Peggior di morte! E chi alla sbigottita
Dice s'uno colà de' morïenti
L'amato suo fratello ora non sia?
Chi le dice se il passo al genitore
Vietare a forza ella non debba? Ahi lassa!
E se il padre trattien, non di Ioffrido,
Che forse ancor sull'albero non pende,
Cagionerà la morte?... Ad ogni costo
Vadasi al fatal loco!
Il piè, tremando
In ciò pensare, affretta. In man la mano
Della meschina Aroldo tien. - Di gelo,
Fra sè diceva, è questa man, siccome
Quella ch'io strinsi di sua madre al letto
Ove s'estinse.
Indi il vegliardo scuote
Il capo, quasi scuotere volesse
Un malaugurio, e non potea. - Di morte,
Figlia, i negri m'inseguon pensamenti.
Abbi pietà di mia vecchiaia, e i cari
Detti mi porgi che tue labbra sciorre
Uniche san, quando scorato è il padre.
Nata ne' giorni di sventura, e in
erma
Torre cresciuta, ove sorelle e madre
Vide spirar, sollecita a sinistri
Presentimenti schiuder l'alma, è fatto
In lei religïon. Si raccapriccia
In udir che s'affaccin alla mente
Del genitore e in quest'istante i negri
Pensamenti di morte. A lui si volge,
Apre le labbra - e i consolanti detti
Ch'uniche sciorre un dì sapean, non trova:
Non trova, ed ahi! la prima volta è questa
Che inobbedito di suo padre è il cenno.
- Più de' pensier miei tristi or
malaugurio
M'è il tuo silenzio, ei dice.
E lo spavento
In lei crescendo, e a' rai primi del sole
Splender veggendo le volanti frecce,
Improvviso s'arresta. - Oh genitore!
Non c'inoltriam: non odi tu le strida
Degli assassini?
- Il figlio, il figlio mio
Forse a morte strascinano: affrettiamci.
- Deh, padre, ferma! a' piedi
tuoi ten prego.
Io stessa innanzi andronne, e se Ioffrido
In vita è ancor, di novo al fianco tuo
Tosto mi rendo, ma te... O ciel! raddurre
Te vivo a casa allor io posso almeno!
- Sciagurata, che parli? Orrende
cose
Forse tu vedi e a me non dici. Ovvero
Fra quelle voci che il mio antico orecchio
Non distinte percuotono, tu scerni
Voci di morte e del fratello il nome.
Che vedi tu? Che al giovenil tuo orecchio
Porta il tumultüoso aere d'atroce?
- Nulla, o buon padre. Ma
t'arresta; pensa
Che se tu, giunto appo i nemici, udissi
L'orribil caso... tu m'intendi... allora
Orfana forse rimarrei nel campo.
- Me perder temi, e non t'avvedi,
insana,
Che scellerata è tua pietà? Egli muore,
E tu qui mi rattieni? Il varco sgombra,
Tel comando, obbedisci.
All'inusata
Ira paterna impaurissi Clara;
S'alzò. Con passi rapidi il cammino
Misura il cieco, e strascinata quasi
La giovinetta il segue. Erasi spersa
La turba intanto che cingea i duo pini,
E presso a questi il padre e la sorella
Arrivan di Ioffrido. Ella più volte
Erse il ciglio tremando, e insanguinate
Scorse due salme, e incontanente a terra
Ritrasse il guardo. E non varrìa sovr'esse
Fiso tenerlo ad indagar; chè franta
Han la coppa del cranio, e dal mozzato
Lor sembiante piovea cèrebro e sangue.
Ma quell'orrida vista e lo
spavento
Forza a' ginocchi tolgonle ed al core:
- Padre! dic'ella, padre!... E
qui stramazza
A' piè d'Aroldo.
E mentre brancolando
Col caro pegno tra le braccia fugge
D'in mezzo della via, però che udito
Brigata di cavalli ha scalpitante
Di qua dal campo alla sua volta, e ignaro
Ad un de' lati fermasi, ove un tronco
D'albero sente; innanzi a lui lo stuolo
Giunge de' cavalieri. Era Manfredo,
Che di baroni provenzali cinto
Per intenti di guerra iva il terreno
Intorno visitando. Una fanciulla
Scorge egli tramortita ed un vegliardo;
E voltosi ad Aroldo, acerbamente
Così gli grida: - O discortese e stolto,
Perchè nel sangue d'un fellone e sotto
Il patibolo tratta hai quell'afflitta,
Cui toglie i sensi il raccapriccio?
- Oh sire,
Oh novo sire di Saluzzo! esclama
L'antico cavalier, cui non intera
L'aspra parola del crudel pungea,
Nota è ad Aroldo ancor la voce tua:
Aroldo io son dalle romite torri
Che si specchian nel Pellice. E l'illustre
Tuo genitor te adolescente spesso
Adduceva a mie sale, e co' miei figli
In un calice sol beevi a mensa.
Ah per memoria del tuo estinto padre
Oggi pietà di me ti prenda! Il figlio
Ch'unico maschio avanza a mia vecchiaia,
E cadde tuo prigion, deh non rapirmi!
Io non leggeri doni a te in riscatto
Dal mio castel portato avea, ma iniqui
Predatori per via m'hanno assalito.
Alle mie braccia il caro figlio rendi,
E qual tributo m'imporrai ti solvo,
Pareggiasse anco de' miei campi aviti
L'intero pregio.
- O sciagurato Aroldo,
Di qual osi tributo or favellarmi,
Se finor tutto mi negasti? È tardi.
- Tardi, o sire, non è. Seguita,
è vero,
Fu da bollente figlio mio l'insegna
De' prischi Saluzzesi e di Tommaso,
E la vittoria a tua prodezza arride.
Ma tu il fervido oprar del giovinetto
Dona pietosamente al supplicante
Suo genitor che in venti pugne il sangue
Versò pel nobil padre tuo, quand'esso
Con tanta gloria signorìa qui tenne.
- È tardi, o vecchio, e duolmene.
In te accogli
Tutta la forza ond'è capace il core
D'un cavalier. Sovra quel legno pende
Un trafitto cui grazia altra non posso
Conceder più che di ritorlo ai corvi,
E consentirgli de' suoi cari il pianto.
Disse, e accennando che una
guardia il morto
Dalla croce calasse e all'infelice
Lo rimettesse, cogli sproni un tocco
Dïede al cavallo e col suo stuol disparve.
Clara i sensi racquista, e oh di
dolore
Qual novo orrendo
palpito! Era dunque
Il fratel suo quel miserando ucciso!
Eccolo tolto dal funesto legno;
Ed ella il raffigura a cicatrici
Che sul petto ei portava. Oh come il vecchio
E l'angosciata giovin su quel corpo
S'abbandonan piangendo! Ella in lino
L'infranta testa pïamente avvolge,
E chiede aiuto ai vïandanti. A dolce
Carità si commove una famiglia
Di Saluzzesi agricoltori, e dato
Viene un carro con bovi, onde al lontano
Castello il morto cavalier si tragga.
II.
Or da quel giorno d'ineffabil lutto
Rivolgiamo la mente oltre a sei lune,
E la mesta mia cantica, i solinghi
Pianti dell'orbo vecchio e di sua figlia
Commiserando, svolga altra vicenda.
Era una sera: alle vetuste mura
Del baron s'appresenta un fuggitivo,
A cui ferite e febbril sete esausta
Miseramente avean la voce. Aroldo
Piena di vino gli mandò una coppa
Con questi detti: Al focolar t'accosta
Sin che apprestata sia la cena, e al sire
Perdona del castel s'ei di sue stanze
Non uscirà, dove cordoglio il tiene.
Clara portò que' detti, e il
fuggitivo
Che al maestoso inceder cavaliero
Parea e mendìco a' finti panni, il volto
Pria si coverse, indi con pronti passi
Balzar tentò fuor della soglia, a guisa
Di mortal che, caduto in impensato
Orribile periglio, aneli scampo.
Ma nella mossa impetuosa a lui
Manca il fievole spirto, e piomba a terra.
Clara il soccorre, il mira, ed alla negra
Ricciuta barba e al crine ella il ravvisa.
Chi era? Chi!... Manfredo! il già
possente
Desolator della sua patria! il ladro
Che alla corona del nepote osava
Stender la man sacrilega, e sul capo
Inverecondo imporsela, e i diritti
Calpestar più sanciti, e di Saluzzo
Dirsi benefattor, serva a stranieri
Brandi facendo la natìa contrada!
Fortuna alfin l'abbandonò: fuggiasco
Da compiuta sconfitta è l'empio sire,
E per sottrarsi agl'inseguenti ferri
Ei s'è imboscato in varii lochi, e ignote
Calcò deserte rupi. Indi pel sangue
Nella pugna perduto e per la rabbia
Gli s'era da brev'ora intorbidato
Sì fattamente il lume del pensiero,
Che mal sapea dov'ei movesse, e giunto
Era ai campi d'Aroldo altra credendo
Sponda toccar. Qui più dal dolce tempo
D'adolescenza riportate mai
Non avea l'orme, ed alberi e tugurii
Mutato avean l'aspetto della terra.
Sol quand'ei vide Clara, appien
le soglie
Raffigurò d'Aroldo, e se bastata
A lui fosse la possa, ei rifuggìa.
Manfredo! e senza guardie! e
semivivo,
Sotto il tetto dell'uom cui trucidato
Non in battaglia, ma in supplizi ha il figlio!
Clara il conosce, e mentre a lui gli spirti
I famigli richiamano, ella corre
Alle stanze del padre, e già già quasi
A lui così sclamava: - Esci, un prodigio
Ad ammirar del Dio delle vendette:
Sull'ossa di tuo figlio a spirar viene
Il suo assassin!
Ma in quell'istante gli occhi
Della donzella alzaronsi a parete,
Onde pendea dell'Uomo-Dio morente
Effigie veneranda, e a quella vista
L'irrompente parola in cor rattenne.
Religïoso fremito la invase
Dinanzi a quell'effigie.
- Oh mio Signore!
Quai voci arcane alla tua ancella parli?
Tu irreprensibil fosti e sì infelice!
E a quei che l'uccidean pur perdonavi!
Or chi sa? Forse il dolce mio fratello
Pe' falli suoi fuor dell'eterna reggia,
In carcer sotterraneo, o d'inquieti
Elementi per l'alte aure ludibrio
Sta ancor penando, e a liberarlo vane
Fervon le preci, e in loco d'esse un atto
Di virtù nostra è d'uopo! O fratel mio!
Forse quest'atto or chiedi. Ah, virtù somma
È il perdonar! Cert'è che in cielo entrando
Tu perdonar, tu e noi, tutti dobbiamo
Come a noi perdonato ha il Redentore!
Ma padre è Aroldo: esser maggior potrìa
Delle forze d'un padre il dare aïta
D'un caro figlio all'uccisor. La lancia
Ei no giammai non bagnerìa nel sangue
D'uom che toccò la mensa sua... Ma pure
Chi può segnar dove talor trascorra
Nella foga dell'ira un core offeso?
Chi mi consiglia? Ah tu; gran Dio, tu solo!
Disse, e prona curvossi, e
lungamente
Con ambascia pregò. Temea d'orgoglio
Esser tentata; innanzi a Dio temea
Calunnïar la santa alma del padre.
Ma nella mente repentino un raggio
Di fidanza pienissima le splende,
E ratta sorge e dice: - Ah sì, fratello!
Questo è il momento in che del ciel la porta
A tue brame si schiude: io di tua gioia
Sento il reflesso, e quella gioia è Dio!
Un servo entrava: - Damigella, o
carco
D'inaudite peccata, o fuor di senno
È lo stranier. Che far dobbiam? D'Iddio
Parla tra sè com'uom cui prema occulto
Di vendette terribili spavento,
E di qui vuol fuggir.
- Tosto bardata
Per lui sia mia cavalla.
Il servo parte
Maravigliato, ed obbedisce. Intanto
Antico armadio la fanciulla schiude,
Ed indi tratto un de' paterni manti,
Al leve suo tesor poscia s'affretta
D'auree monete, e in una borsa il pone.
Così ver l'agitato ospite mosse,
E que' doni offerendogli - D'Aroldo
Questa, gli disse, è la vendetta, o sire.
Fremea la generosa in lui mirando
L'uccisor di Ioffrido e il formidato
Di Saluzzo oppressor, ma pïamente
Frenò il ribrezzo, e dal balcon la corte
Del castello accennando, a lui soggiunse:
- Ecco a' tuoi cenni un corridor:
se lena
Ti basti, fuggi, e t'accompagni il cielo!
Clara sparve, ciò detto. E
l'infelice
Tiranno - Angiol! gridò. - Poi diè dal core
Uno scroscio di pianto. Ed allor forse
Pentimento verace a lui fu strazio,
Le proprie atroci colpe rammentando,
E rammentando il giovine Ioffrido,
E quel misero cieco che appoggiato
Ad un alber credeasi, e gli grondava
Sovra la testa, ahi, di suo figlio il sangue!
Frettoloso Manfredo i doni tolse;
L'inaudita pietà benedicendo,
D'Aroldo cinse su le spalle il manto,
E quindi a pochi tratti il vide Clara
Dalla fenestra, che, al cortil venuto,
Con sembiante commosso intorno intorno
Iva gli occhi volgendo, e verso il cielo
In atto di preghiera ergea le mani,
Poi le briglie toccava ed era in sella.
Fermato ivi un istante, ad alta
voce
Mise queste parole: - Aroldo! Aroldo!
Tu sol Manfredo hai vinto. Io del perduto
Seggio e de' vituperi onde vo sazio,
Consolarmi potrò; non potrò mai
Consolarmi d'aver tua nobil alma
Col più truce rigore insanguinata.
Udì il vecchio baron quel forte
grido,
E balzò dalla seggiola esclamando:
- Figlia! il nemico nostro! il maledetto
Uccisor di Ioffrido!
E sul rugoso
Pallido volto del canuto il foco
S'accese del furore. A' piedi suoi
Clara gettasi allora, e gli palesa
Ciò che d'oprar le ispirò Iddio.
- No, Iddio
Questo non t'ispirò! prorompe Aroldo;
Manfredo è un empio! ei di dominio sete
Portò infernal su queste invase terre,
Che al suo nepote, a lui sovrano, tolse!
Infame della patria e del suo prence
Manfredo è traditor. Per sollevarsi
Sulla sede non sua, trasse alleati
E Provenzali e Càlabri e venduti
Guelfi di tutta Italia allo sterminio
De' nostri feudi e delle nostre plebi,
E incenerì Saluzzo!... e il figlio mio,
Il figlio mio su scellerata croce
A' carnefici suoi diede bersaglio!
Lunga e tremenda di rammarco e
d'ira
Fu l'eloquenza dell'antico. A lui
Clara abbracciava le ginocchia, e santi
Detti porgea con supplice dolcezza:
- Le iniquità punir sol puote
Iddio;
Noi non possiam sul misero fuggiasco
Punirle coll'acciar: solo a punirle
Una guisa n'è data, ed è il perdono.
Càlmati, o genitor; pensa che o degno
Per penitenza diverrà Manfredo,
O, rimanendo iniquo, a lui carboni
Saranno inestinguibili sul core,
Giusta il dir dell'Apostolo, i rimorsi
E fra l'alme perverse il danno eterno.
A Dio il giudicio! a noi l'umil dolore,
E il benefico palpito e l'eccesso
Della pietà non sol sugl'innocenti,
Ma pur sui rei, perocchè tutti d'uopo
Del perdono di Dio morendo avremo!
- Oh mia figliuola! sclama alfine
Aroldo,
Ti benedico; santamente oprasti!
L'alza, al petto la stringe, e
lagrimando
Mercè le rende che alla prova il senno
D'esacerbato padre ella non mise.
Un dì alle torri del baron fu
visto
Giungere di Manfredo un messaggero
Da lontana contrada, e apportatore
Venìa di ricchi doni. Eran tre lune
Che pace avean l'ossa d'Aroldo, e muto
Era il castello, ed in vicino chiostro
Cinta di sacre lane, i dolci salmi
L'orfana, per la cara alma del padre
E del fratel, tutte le notti ergea.
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