LE
CHIESE.
Altaria tua! Domine
virtutum.
(Ps. 83, p.
4).
Oh di preghiera e verità e conforto
E sublimi pensieri amate
case,
Case di Dio! sin da'
primi anni a voi
Con rispettosa tenerezza
il guardo
Io rivolger godea, come
a ricovro
Di prole addolorata
entro riposta
D'ottimo padre stanza,
a' filïali
Lamenti sempre
ascoltator benigno.
Lunghe l'infanzia mia
tenner vicende
D'infermità e mestizia.
A me d'intorno
Giubilavano vispi e
saltellanti,
E di bellezza angelica
festosi,
I pargoletti di que'
giorni, ed io,
Nato robusto al par di
lor, caduto
In rio languor vedeami, ed
in secreti
Indicibili spasmi; e
spesse volte
Morte ponea sovra il mio
crin l'artiglio,
Ma per gioco ponealo, e
mi sdegnava.
Così che pur ne' dì
quando men egro
Io strascinava il
corpicciuolo, e lieta
La voce uscìa dalle mie
smorte labbra,
Tra i floridi compagni,
ascosamente
Spesso mie brevi gioie
interrompea
La pietà di mia fral,
misera forza;
Ed impeti frequenti
allor d'angoscia
Il petto mi premean,
sicch'io fuggiva
A nasconder mie lagrime
solinghe;
E quei che mi scopriano
indi piangente
Per ignota cagion, mi
dicean pazzo.
Salve, o gotici, begli
archi del Tempio
Che di Saluzzo è gloria!
Archi, ove m'ebbi
Alle mistiche fonti il
nome caro
D'un tra i vati gentili,
onde graditi
Sonaron carmi per le
patrie valli.
Palpiti d'esultanza
erano i miei
Quando me tenerello a
quell'angusta
Chiesa portava a' dì
festivi il pio
Braccio materno; e
ricordanza vive
In questo cor della
speranza arcana
Che molcea i mali miei,
quando su quelle
Antiche, venerande are
il mio ciglio
Supplicemente ricercava
Iddio.
E salve, o tempio di men
nobil foggia,
Ma parlante a me pur
dolci memorie,
In Pinerol, città
seconda, ov'io
Riposai le mie inferme
ossa crescenti!
Là nelle vespertine
ombre, al chiarore
Della lampada santa, io
colla madre
E col fratel pregava la
pietosa
Degli Angioli Regina e
degli afflitti,
Ed in secreto a lei mi
cordogliava
De' malefici influssi,
onde a' miei nerbi
Strazio era dato, ed al
mio cor tristezza,
Ed aïta io chiedeale,
ovver la tomba.
Ma l'infantil querela
uscìa con sensi
D'aumentata fiducia, e allevïarsi
In me sentìa l'affanno,
e sentia l'alma
Di pensier fecondarmisi
e d'amore.
Nelle tue, Pinerolo,
aure dilette
L'adolescenza mia fu di
soavi,
Religïosi gaudii
confortata;
E indelebile è in me
l'ora solenne,
Quando, trepido il sen,
mossi all'altare
Tra drappelletto di
fanciulli il grande
Atto a compir, di
confermar col proprio
Conoscimento le promesse
auguste,
Che di virtù magnanima
al battesmo
Pronunciarono labbra
altre per noi.
Oh nobil rito! oh santo olio! oh possente
Grazia del Crisma! oh simboli
che tanto
A sublimi desiri alzan
la mente!
Con pompa veneranda il Pastor santo
Presentasi all'altare, e
a lui corona
Fan suoi pii Sacerdoti
in aureo ammanto.
Celestiale armonia nel tempio suona
Di cantici divoti, e di
pietate
Palpita il core a ogni
gentil persona;
E più alle madri che nel vel celate
Delle viscere lor sui
cari frutti
Tengono le pupille
innamorate,
Scongiurando che a Dio s'elevin tutti.
«Re del ciel che noi madri volesti
Di que' giovani spirti
diletti,
Nel dolore li abbiam benedetti
Pria che i cigli
schiudessero al dì;
Nel dolore li abbiamo
allattati,
Custoditi li abbiam nel
dolore:
Ah, per essi t'offriamo,
o Signore,
Tutto ciò che nostr'alma
patì!
Il tuo spirto divino discenda
In que' teneri ingegni
inesperti:
Li fortifichi, li alzi,
li accerti
Della Croce per l'arduo
cammin.
Oggi intendano e
intendan per sempre
Che non nacquero a
ignobile cura,
Che son enti d'eccelsa
natura,
Che la palma celeste è
lor fin!
Il tuo spirto divino addolcisca
Que' germogli del sesso
più forte:
Non paventin perigli, nè
morte,
Ma li tempri alto senso
d'amor!
Il tuo spirto divino
sostenga
Que' germogli del sesso
più amante:
Sieno spose, o sien
vergini sante,
Ma in bell'opre virile
abbian cor!
E delle accolte, lagrimose madri
Col tacit'inno pe'
figliuoli amati
Il secreto consuona inno
de' padri;
Sebbene i maschi petti ammaestrati
Da esperïenza e fantasie
più meste,
Veggan su que' fanciulli
or sì beati
Minacciose adunarsi, atre tempeste.
«Giovin'alme, or
v'assecura
Quella pace che gustate
E all'Altissimo giurate,
Immutabil fedeltà:
Ma non conscii voi tocca
l'aurora
D'un'età di prestigi e
di guerra,
Che vi chiama, vi
sprona, v'afferra,
Vi strascina, a qual
meta non sa!
Ah, noi pur dal Crisma
santo
Confermati esultavamo,
E spogliar l'antico
Adamo
Era saldo in noi desir!
Ma spuntato quel tempo
tremendo
Che i mortali a cimento
conduce,
Spesse volte falsissima
luce
In rei lacci ne fece
languir.
Più gagliardi, più
assistiti
Da invisibili portenti
Voi non domino i cimenti,
Voi più traggano a
virtù:
Una stirpe formate di
prodi
Che agli esempi
vigliacchi s'involi,
Che la Chiesa gemente
consoli,
Ch'altre stirpi consacri
a Gesù»!
Mentre de' genitori i voti accesi
Sorgono per la prole
benedetta,
Stanno i fanciulli all'alta
pompa intesi,
E ciascun d'essi palpitando aspetta
Lo Spirto Santo e la
percossa, donde
L'alma a patir per nobil
opre è eletta.
All'unzïone, al tocco, alle profonde
Del Vescovo parole, il
giovin core
Con proposti magnanimi
risponde.
Mai paventato non avea il Signore,
Come il paventa in
quest'istante, e mai
Non avea per Lui tanto
arso d'amore!
Nessun dica al fanciul: «Tu obblïerai
Questo gran dì»: più non
possibil crede
Volgere a colpa
affascinati i rai:
Trasmutato a quel rito in uom si vede;
Sdegna le vanità, sdegna
i piaceri;
Più non vuol che
Speranza e Amore e Fede,
E benefici, puri, alti pensieri,
E studi gravi, e
faticante vita
Pe' divini del Golgota
sentieri!
Ah! benchè poi dopo cotanto ardita
Dolce fidanza, a tempo
non lontano
Trascorra ov'a lui
d'uopo è nova aïta,
Al Crisma santo ei no, non mosse invano:
Però che in lui ritorna
con possanza
Questa voce secreta: «Io
son cristiano»!
E ripiglia la Croce, e al ciel s'avanza.
A me quella secreta, amabil voce
Più nella giovinezza non
diè posa,
Sì che sovente alla
gettata Croce
Rivolsi la pupilla
timorosa;
E sebben mi paresse
incarco atroce,
La riportai con
esultanza ascosa,
Rammentando mia
infanzia, quella Chiesa,
E quel Crisma, e la
possa indi in me scesa.
E qual fu lo splendor d'un altro giorno:
Il giorno in cui di sè
nutrimmi Iddio!
Ah! non in tempio di
gran pompa adorno
Trarre allor mi fu dato
al festin pio:
Genitori e fratei
piangeanmi intorno,
E venne il Pan celeste
al letto mio!
E l'accolsi agognando
inclita sorte
Dopo la sovrastante ora
di morte
Ma l'offerta ch'io pronto a Dio porgea,
Non fu accettata, e
lunghi dì ancor vissi!
Oh! chi può dir con qual
d'amore idea
Morte sperando al
Salvator m'unissi?
Mille fïate poscia a me riedea
La ricordanza di quel
giorno, e dissi:
«Deh, possa ancor con sì
sublime amore,
Come in quel dì, ricever
io il Signore!»
Quindi appena sui piè mi ressi alquanto
Dopo quel memorando atto
divino,
Mossi alla chiesa, e di
dolcezza ho pianto,
Ivi tornando al sovruman
festino:
E mi parea che con dolor
più santo
Io sopportassi l'egro
mio destino,
E che tutto il mio core
arder dovesse
In avvenir di quelle
fiamme istesse.
L'ombra del tempio al giovinetto è invito
A pensieri gentili ed
elevati:
Tacite preci, canto,
augusto rito,
Tutto ivi il trae da'
ciechi impeti usati;
Tutto l'inizia a pregiar
l'uom, munito
Di ragione e d'affetti
alti ispirati;
Santa filosofia quivi il
matura
Sì che in terra egli
stampi orma secura.
Che se ignobile in terra orma sovente
Stampa il mortal che pio
fu giovanetto,
Non è già perchè sia
guida impotente
Religïone a obbedïente
petto,
Ma perchè alla celeste
Conducente
Sveltosi l'uom, s'affida
a novo affetto,
E segue il proprio
orgoglio e i vili esempi,
E teme la beffarda ira
degli empi.
Oh come lor beffarda ira scagliata
Contro gli altari l'alma
mia percosse!
Ed, ahi! la prima voce
scellerata,
Che da innocente fede mi
rimosse,
Uscì da tal, che, dopo
aver sacrata
Sua vita al tempio, il
divin giogo scosse!
Quanto è alta luce pio,
ver Sacerdote,
Tant'è funesto mastro
ogni Iscariote!
D'inferno una smania
Tormenta quel tristo,
Che indegno consacra
La coppa di Cristo,
Che insegna il Vangelo
Con labbro infedel;
Che invidia de' laici
Le vesti e la chioma,
Che irato sogghigna
Sui cenni di Roma,
Che nutre eresia
Mal cinta da vel.
Ossesso quel petto
Quïete non gode
Se in alme innocenti
Non getta sua frode,
Se non avvelena
Lor candida fè:
Ei spera, involando
Credenti al Signore,
Estinguere il verme
Che rodegli il core,
E dirsi: «Per gli empi
«Castigo non v'è».
Tal fu lo sciagurato, onde la prima
Fïata io stupefatto e
impaurito
Intesi accenti di
bestemmia astuti
Contro a' misteri,
dietro cui l'eterna
Maestà del Signore
all'uom traluce.
Avess'io a
quell'apostata strappata
L'indegna larva!
L'avess'io al cospetto
De' giusti vilipeso! Io
stoltamente
Tacqui, e volsi nel cor
le rie parole
Dell'incarnato Sàtana, e
sorrisi
Al suo ingegnoso e
perfido sorriso,
E in forse stetti, fra i
dettami austeri
Da verità segnatimi, e i
dettami
Lieti e superbi del
parlante serpe.
Da quel funesto giorno
io non potei,
No, disamar le sante are
paterne,
Ma a quando a quando io
le mirava, incerto
Se venerar le dovess'io,
siccome
Ne' miei dì d'innocenza,
o se più senno
Fosse obblïarle o
irriderle, e aver soli
Idoli i miei voleri e il
mio ardimento.
Così varcai
l'adolescenza, e gli anni
Toccai di giovinezza,
ebbro di studi
E di speranza nelle
forze innate
Del mio altero
intelletto. E pure i templi
Secreto avean per me
fascino sempre!
E sovente io gettava i
baldanzosi
Libri, e fuggìa le
argute, empie congreghe,
Per raddurmi solingo e
sconfortato
Sotto i tuoi grandïosi
archi vetusti,
Lugdunense Basilica, ove
i primi
Apostoli di Gallia hanno
sepolcro!
Oh bella chiesa! Quante
volte prono
Colà pregando e meditando
io piansi
Le natìe abbandonate
Itale sponde,
E il focolar lontano,
ove la madre
Ed il padre e i fratelli
erano assisi,
E piansi in un mie
tenebre, miei dubbi,
Mie passïoni, ed il
perduto Iddio!
Perduto, no, per me non
era! e il lume
Di lui mi sfolgorava
alcune volte
Sì che sparìan le
tenebre, e di novo
Io mandava dal core inni
di gioia.
Ma tempi erano quei di
non verace
Filosofia, sulle rovine
sorta
Di molti altari, e sovra
molto sangue;
E la Gallica terra,
infra sue pesti,
Di sacerdoti rinnegati avanzo
Chiudea velenosissimo; e
i più feri,
Più studïosi e scaltri
eran nemici
De' sacri templi,
rïaperti allora,
E dal Corso magnanimo
scettrato
Arditamente in onoranza
posti.
Un di que' Giudi
inverecondi a' passi
Miei s'attaccò:
l'ornavan lusinghieri
Eletti modi, e pronto
ingegno, e il foco
De' sottili motteggi
scoppiettanti,
E facile parola, e
d'infiniti
Libri conoscimento, e
quell'audace
Sentenzïar che sicuranza
appare.
Sommessa voce ripetea
d'orecchio
In orecchio: «Ei fu
monaco»! E la macchia
Sciagurata d'apostata
sembrava
Sedergli orrenda sulla
calva fronte,
E dir: «Nessun più sulla
terra l'ami!»
E nessun più l'amava, e
nondimeno
Ascondean tutti l'intimo
ribrezzo,
E cortesi accoglieanlo,
e davan plauso
Alla dolce arte della
sua favella.
Quella canizie al
disonor devota
Orror metteami e in un
pietà. Più giorni
L'esecrai, l'osservai,
gli porsi ascolto
Come a stupendo rettile,
e gli chiusi
I miei pensieri; indi
scemò l'occulto
Raccapriccio, e piegai
più tollerante
L'alma alle grazie di
quel falso ingegno.
Oh pe' giovani cuori
alta sventura
Lo scontrarsi in sagaci
empi, che fama
Di lunghi studi
grandeggiar fa al guardo
Dell'attonito volgo, e
d'intelletti
Che pur volgo non sono!
Al rinnegato,
Pur non amandol, mi
parea di stima
Ir debitor per l'inclite
faville
Del possente suo spirto,
e palesava
Ei di mia riverenza e
d'amistade
Gentil, singolar brama;
e questa brama
Era al mio stolto
orgoglio esca gradita.
Lunghe non fur tra noi
le avvicendate
Confidenze ed indagini,
e m'invase
Giusto corruccio, e da
colui mi svelsi:
Ma le illudenti sue
dottrine, a guisa
Di succhiante invisibile
vampiro,
Stavan su me, riedean
cacciate, e furmi
A tutti i giovanili anni
tormento.
Più vivo in me si raccendea l'amore
Delle case di Dio,
quando rividi,
Bella Italia, il tuo sole
animatore,
E m'accolsero i cari
Insubri lidi,
Dove gli avi mostrar
quanto al Signore
Fosser devoti e a grande
intento fidi;
Tal sacra ergendo
maestosa mole,
Che a lodarla il mortal
non ha parole.
Troppo ancora in Milan l'anima mia
Tra giochi e alteri studii
vaneggiava,
E glorïosi amici e fama
ambìa,
Ed ogni dì più folli
ombre afferrava.
Ma pur di salutar
malinconia
Frequente un'ora i
gaudii miei turbava,
E al tempio allora io
rivolgeva il piede,
E in me scendea
consolatrice fede.
E l'amato mio Foscolo infelice,
Sebben lui fede ancor
non consolasse,
Talor volea con umile
cervice
Mescersi all'alme per
cordoglio lasse,
Che la bella de' cieli
Imperadrice
Imploravan che a lor
grazia impetrasse;
E quando al tempio a
sera ei mi seguiva,
Indi commosso e
pensieroso usciva.
Oh quante volte insiem quella scalea
Ascendemmo del duomo
inosservati!
Quante volte in quegli
archi ei mi traea,
E là susurravam detti
pacati
Sul beneficio d'ogni
eccelsa idea,
Sui vantaggi dell'are
all'uom recati,
Sulla filosofia
maravigliosa
Che della Chiesa in ogni
rito è ascosa!
Oh allorquando vi penso, io spero ognora
Che, pria di morte
almen, quell'alto ingegno
Avrà veduta la söave
aurora
Del promesso agli umani
eterno regno!
Spero che quella forte
anima ancora
Nodrito avrà del ciel
desìo sì degno,
Che quel Dio che sol
vuole essere amato
Avrà i tardi sospiri
anco accettato!
Con reverenza visitava io pure
Altre in Milano
vetustissim'are:
Quella ov'a
Sant'Ambrogio ama sue cure
Il buon Lombardo con fiducia
alzare,
Ed il sacel, dove
Agostin le impure
Fiamme alfin volle in
sacra onda smorzare,
E colà volgev'io nella
mesta alma
Sete di verità, sete di
calma.
Ed in talun di quegli alberghi santi
Una donna io vedea
ch'erami stella;
E a lei movendo i guardi
miei tremanti,
S'umilïava mia ragion
rubella:
Mi parea ch'a me un
angiolo davanti
Stesse per me pregando,
e allora in quella
Amica del Signor ponendo
io speme,
«Ah sì, diceva, in ciel
vivremo insieme!»
Ma de' templi alla mistica dolcezza
Vinto non era appien
l'orgoglio mio:
Il passo indi io traea
con leggerezza,
E i gravi intenti
rimettea in obblio:
Rossor prendeami appo
colui che sprezza
Chi, pari al volgo, osa
implorare Iddio:
Io mi volgeva a Dio, ma
come Piero,
Interrogato, ahi!
rinnegava il vero!
E poi non come Piero io mi pentiva
Con dïuturno, generoso
pianto;
Incostante nodrìa fede
mal viva,
E a guisa d'infedele
oprava intanto:
Allor fu che la folgor
mi colpiva,
E ogni mortal mio
giubilo andò franto,
E in man mi vidi
d'avversario forte,
Me condannante a duri
ceppi o morte.
Oh lunghi di catene e d'infiniti
Strazi del core
inenarrabili anni!
Ed oh! com'anco in
giorni sì abborriti
Mia fantasia godea
sciogliere i vanni,
E fingersi ogni sera
entro i graditi
Templi, ed ivi esalar
gli acerbi affanni!
Poche amate persone e i
patrii altari
Erano allora i miei
pensier più cari!
Oh quai mi parver secoli
Que' primi anni di
duolo,
In che fra mura
squallide
Vissi cruciato e solo!
Nè mai con altri
supplici
Sorgea la prece mia,
Ed il desìo del tempio
La pace a me rapìa!
Mi si pingeano i fervidi
Religïosi incanti,
Le grazie che sfavillano
D'in sugli altari santi:
E di Davidde i gemiti,
E gli avvivanti lumi,
E le armonie
dell'organo,
E i mistici profumi,
E l'ineffabil agape,
Ove il Signore istesso
Pasce e solleva ad
inclite
Speranze l'uomo
oppresso.
Allor la vil perfidia
Del mondo io ricordando,
Dare ai profani gioliti
Giurava eterno bando,
E con insonni pàlpebre,
E con preghiera accesa
Chiedea versar mie
lagrime
Ancora entro una chiesa.
Mi sovvenian le placide,
Ombre de' monasteri,
E le velate vergini,
Ed i romiti austeri:
E tormentosa invidia
Prendeami di que' petti
Ch'appo gli altari
effondere
Doglia potean e affetti.
Ma in quella mia nel
carcere
Brama de' sacri ostelli,
Söavi sensi teneri
Pur si mescean novelli.
Rendeva al Cielo io
grazie
Che i genitori amati
Piangere almen potessero
Anzi all'altar
prostrati.
Anzi all'altar che ai
miseri
Sol può istillar
virtute,
Che rïalzar può l'anime
Da angoscia più
abbattute!
Un giorno alfine, oh fortunato giorno!
Nunzio ne venne che
sariane schiuso
Della comun preghiera
ivi il soggiorno:
E tratto per brev'ora allor dal chiuso,
Rividi il tabernacolo,
ove alberga
Colui che in ciel di
gloria è circonfuso.
Tempio quello non è ch'ardito s'erga
Sovra eccelse colonne, e
in maraviglia,
Quasi reggia celeste, i
cuori immerga.
Poco più che a magione umìl somiglia,
E pur ivi m'invase quel
tremore
Che per solenne ossequio
all'uom s'appiglia;
E per quell'ara palpitai d'amore,
Come mai palpitato io
non avea,
E in ver sentii ch'ivi
sedea il Signore!
Brev'ora fu, ma pure indi io sorgea
Trasmutato in altr'uom,
portando in seno
Il Salvator che i mesti
accoglie e bea.
E tale in que' momenti era il baleno
Della luce divina in me
raggiante,
Che il patir mi parèa di
gioia pieno,
E leve il ferro mi parea alle piante.
Oh di Spielbergo semplice chiesuola,
Ove non s'alzan preci
altre giammai,
Che del mortal che
cingesivi la stola,
E di viventi infra catene
e guai,
Ah, in te risplende pur
Quei che consola!
Quei, che del fiacco non
respinge i lai!
Quei, che l'amaro calice
accettando,
Com'uomo il rimovea
raccapricciando!
Con qual desìo la settima festiva
Aurora io nel mio
carcere attendea!
Per sei giorni in
mestizia illanguidiva,
O la mente pensosa egra
fervea,
E talor preda sì di
larve giva,
Che il lume di ragion
perder temea:
In quell'ore io talvolta
Iddio cercava,
E, inorridisco in dirlo!
io nol trovava.
Ma il giorno del Signor rivedea alfine,
E mettea lieto suon la
pia campana,
E a söavi pensier l'alme
fea chine,
E a ricordanze dell'età
lontana:
Potenze inespressibili,
divine
Scemar parean l'orror
della mia tana,
E a me, come a fanciul,
batteva il petto
Di quel festivo bronzo
al suon diletto.
Poi tutte disparian mie cure atroci
Quando il pietoso
sgherro aprìa le porte,
E de' compagni mi
giungean le voci,
E la imperante seguivam
coorte;
Gli avvinti si porgean
cenni veloci
Di costante amistà
nell'aspra sorte;
Ma non a tutti amici ivi
era dato
Incontrarsi, parlar,
pregare allato.
Sempre, sempre novella, alta esultanza
Il commosso m'invase
animo, quando
In quell'incolta ma pur
sacra stanza
Posi il piè, mie catene
strascinando,
E in simbolica vidi umil
sembianza
Suoi sfolgoranti rai
Gesù ammantando
Benedirci, e per noi con
inesausto
Amore offrirsi al Padre
in olocausto.
Colà il Signor mi favellava al core,
E la sua voce somigliava
a quella
D'amorevole, ansante
genitore
Che a sè un figliuolo
sconsolato appella,
E «Disgombra gli dite,
ogni timore
«Che mai mia tenerezza
io da te svella!
«Veggio che disamar tu
me non sai,
«E ciò che indi tu vuoi,
tutto otterrai!»
Ei mi diceva inoltre: - «Io t'ho punito
«Non già per rabbia onde
avvampar non soglio,
«Ma perchè il prego mio
non era udito,
«E sì correvi per le vie
d'orgoglio,
«Che obblïato me
avresti, e lui seguìto
«Che l'alme adesca
all'eternal cordoglio:
«Con forte piglio il
correr tuo rattenni,
«Ma t'amai, t'amo, e per
salvarti io venni!»
Io mi gettava allora a' piedi suoi
Con dolcezza ineffabile,
e piangeva,
E sclamava: «Signor, fa
ciò che vuoi
«Di questo figlio della
debol Eva!»
«Sordo vissi, pur
troppo, a' cenni tuoi,
«Ma tua incorante voce
or mi solleva:
«Nulla sperar dovrei, ma
poichè m'ami,
«Un don ti chieggo ancor
- ch'io ti rïami!»
E poi prendea fiducia, e proseguìa
A lui tutti schiudendo i
miei desiri:
Lo supplicava per la
madre mia
Che sparso avea per me
tanti sospiri!
Pel dolce padre calde
preci offrìa!
Per tutti quegli amati
onde i martìri
M'eran del martìr mio
più dolorosi,
E ch'io tanto di me
sapea bramosi!
Del Moravo castello umil
tempio,
Quante grazie ti debbo
soavi!
Il mio spirto pöetico
alzavi
Dai terreni, opprimenti
dolor.
Io sentiva entro te que'
dolori,
Ma diversi, ma misti a
contento:
Io chiedea raddoppiato tormento,
Purchè Dio m'addoppiasse
l'amor.
Io il disprezzo
acquistava de' ferri,
Ma non più quel
disprezzo superbo
Che del vinto fa l'animo
acerbo
Contro quei che nel
lutto il gettàr.
Io sperava, io credea
che i vincenti
M'assegnasser destin sì
tremendo,
Non vil odio, ma sol
rivolgendo
Di giustizia rigor
salutar.
Io dicea che se in pugno
tenuto
Uno scettro in que'
giorni avess'io,
Gli avversanti
dell'animo mio
Con isdegno atterrati
avrei pur:
E scernea che son
fremiti ingiusti
Que' dell'uom che da
forti domato,
Non ripensa ch'ei forza
ha sfidato,
Che d'un dritto essi i
vindici fur.
Compiangea il fato mio,
ma pensando
Qual dover mosse i
giudici miei:
Ma pensando che in ciel
li vedrei
S'io perdon ritrovava al
fallir.
E di grazia per me
sospiroso,
Supplicava ogni grazia
per essi,
Presentendo i reciproci
amplessi
Là dov'ira non puossi
nodrir.
Della chiesuola de'
prigioni uscito,
Io ritornava entro mia
mesta cella
Col sen da mille affetti
intenerito,
Con fantasia più
generosa e bella:
L'ineffabil poter del
santo rito
Avermi parea dato alma
novella:
Ed intero quel dì lieto
sciogliea
Di David gl'inni, ed
inni altri tessea.
Oh facoltà di poëtar
gioconda,
Ma più negli anni
orribili del lutto,
Quando forza divina il
core inonda
E d'eccelsi pensier lo
infiamma tutto!
Quando nell'uom tal
grazia sovrabbonda
Che a benedir sue croci
indi è condutto!
Face di poesia! senza
una chiesa,
No, non saresti in me
rimasta accesa!
E se tal possa amabil
dell'ingegno
In me si fosse per
dolore estinta,
Languito avrei d'ira e
superbia pregno,
O l'alma a vil furor
sariasi spinta:
Della vita un frenetico
disdegno
Spesso prendeami in
tanti mali avvinta,
Poi la luce de' sacri
inni tornando,
Io riponea l'empio
disdegno in bando.
Il mortal che in mestizia
s'inabissa,
E fero soffre
ineluttabil danno,
Sempre in oggetti d'ira
il guardo affissa;
Ogni umano gli par vile
o tiranno;
L'altrui virtù al suo
torbo occhio s'ecclissa;
In tutti sogna i
benefizi inganno;
E fraterna pietà posta
in obblio,
Disama e niega e
maledice Iddio.
Filosofar s'immagina il
fremente
Calunnïando il mondo e
il Créatore;
Ma chiudendo a' pensieri
alti la mente
Tutto mira a traverso
empio livore,
Bugiarda estima ogni men
atra lente;
Satana è il suo maestro
e il suo autore;
Armi date e coraggio a
quell'ossesso,
Ed eccol trucidare altri
o sè stesso.
Vicino a quella infame
insania giacqui
Più d'una volta a'
giorni incarcerati;
Ed allor tetramente mi
compiacqui
Ricordando que' libri
sciagurati,
Che nell'audace secolo
in cui nacqui
Plausi a ferocia e
suicidio han dati,
E col velen de' rei
volumi in petto,
Volvea il fin
dell'apostol maladetto.
Grazie, chiesuola, a'
prigionieri amica!
Da te emanava inenarrato
incanto!
Da te riedea la mia
fiducia antica
Nell'assistenza del tre
volte Santo!
In te il perdon non mi
costò fatica!
In te d'amore e di
dolcezza ho pianto!
In te ne' tristi dì
ripigliai lena,
E sino al termin
sopportai mia pena!
Improvvisa comparve
un'aurora
Che distinguer
dall'altre non seppi,
E la sera ivan sciolti i
miei ceppi!
Ed uscii dall'orrendo
castel!
Del decennio l'angoscia
mortale
Un istante, un accento
avea sgombra:
Dalla fossa qual reduce
un'ombra,
Mi stupìan terra ed
uomini e ciel.
Traversai valli e balze
straniere,
M'avvïai della patria a'
bei lidi,
L'Alpe ascesi, ed oh
gioia! rividi
La natíva penisola
alfin.
Al dolcissimo letto del
padre
Egro giunsi, ma giunsi
felice:
Lui rividi e la mia
genitrice;
Tra lor braccia mie pene
avean fin!
Ahi! nuove, pene sempre cingon l'uomo,
Bench'ei talvolta in
impeto giulivo
Tutte calamità creda
aver domo!
Piansi più cuori amati onde me privo
Gli strali avean
d'inesorata morte,
E più d'un ch'io
lasciato avea captivo!
Allegrar mi volea della mia sorte,
Ma spesso in cupo
involontario duolo
Mie deboli potenze ivano
assorte.
Ciò ch'io patissi, Iddio conosce solo,
La mente rivolgendo a
tanti cari
Del cui lungo martir non
mi consolo!
Il mondo mi dicea! «Se ancora impari
Ad ambir le mie feste e
i miei sorrisi,
Sollevati saran tuoi
giorni amari».
Ma indarno sovra lui le ciglia affisi:
Ei più non mi rendea
que' dì lontani
Ch'io con altre dolci
alme avea divisi!
Gratitudin destavanmi gli umani
Che generosi mi
plaudeano intorno,
Ma i plausi lor pur
rïuscianmi vani.
In sì frequente di dolor ritorno,
Il loco ove ogni dì
forza racquisto
È quel dove le sante are
han soggiorno:
Ogni mattin là prono a' piè di Cristo
Breve, benefic'ora io
volger amo,
Ed esco allor più
dolcemente tristo,
E conformarmi al divin cenno io bramo.
«Entro i templi, pari al
volgo,
Di prostrarti non
vergogni?
Lascia, stolto, i vieti
sogni:
Sol ne' sensi è verità.
Pari a noi, sii glorïosa
Del tuo secolo facella:
Al pensar de' forti
appella
La crescente umanità».
«Al pensare de' forti l'appello;
Forti son que' che regge
l'Eterno:
Molti errori nel volgo
discerno,
Ma non quando umil viene
all'altar;
Ma non quando suoi falli
ripensa;
Ma non quando li lava
col pianto;
Ma non quando de' Santi
nel Santo
Alza i lumi, e lo vuol
seguitar».
«D'un Iddio pur si
favelli;
Ma di templi, ma di
riti,
Ma di spiriti contriti
Fastidito è il pensator.
Basta a gloria delle
genti
Predicar virtù civile,
Maledir ogni opra vile,
Intimar fraterno amor».
«Ch'altro grida la voce dell'Ara,
Che civili, fraterne
virtuti?
Fiacchi sono del senno gli
aiuti,
Se l'Eterno virtù non
impon.
D'uomo il senno ch'a Dio
non s'eleva
Con qual dritto imporrà
sacrifici?
Senza Dio l'uom ne'
giorni infelici
Ruba, insidia, trucida a
ragion».
«Se adorar si vuole un
Nume,
Sieno semplici omai
l'are;
Vane pompe ad esecrare
Ne consiglia l'Evangel:
Volgi l'alma a culto
novo;
Il vetusto s'abbandoni:
Non più incensi,
effigie, suoni;
Ma qui l'uom, là il Re
del ciel».
«Sventurati! v'abbagliano l'ire;
Gl'intelletti ad amore
schiudete,
E virtù e verità
scorgerete
Nelle pompe che
innalzano il cor:
Non son vane se non pel
fremente
Che lor sacra potenza
dileggia,
Che il suo rigido spirto
vagheggia
Non il bel, non Iddio,
non l'amor!»
«Chi son quegl'iniqui
Che parlan di Dio?
Chi sei che linguaggio
Usurpi d'uom pio?
Dai ceppi in che fosti
Sol frode provien.
Da noi t'allontana
Ch'a Dio, a Sacerdoti
Vivemmo fedeli
Dagli anni remoti,
Mentr'empie covavi
Dubbianze nel sen!»
«Felici voi che al lume eterno ingrati
Non foste mai, siccome
questo insano!
Ma nulla tolgo a voi, se
ardisco alzati
Tener gli affetti al
Salvator Sovrano.
I templi non a soli
intemerati
S'apron, ma accolgon
pure il pubblicano:
Di voi, di me pietà
prenda il Signore,
Ed in noi colla fede
istilli amore!»
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