LE
PROCESSIONI.
Vexilla Regis prodeunt.
(Eccl. hymn.).
Dolce è l'aspetto
De' templi santi,
Dove tra faci
Sfolgoreggianti,
Dove tra incensi,
Dove tra canti
Di Dio grandeggia
La maestà;
Dove al mortale
Le sacre mura
Tolgono il resto
Della natura,
Dove ogni oggetto
Ch'ei raffigura
Gli dice: «Adora,
L'Eterno è là!»
Nondimeno allorquando dal tempio
Uscir vedesi
l'Onnipotente,
Tra le mani d'un debil
vivente,
Pe' sentieri che tutti
calchiam,
Pare a noi che vieppiù
ci sorrida,
Che vieppiù ci si faccia
fratello:
Per pregarlo un impulso
novello,
Una nova speranza
sentiam.
Egli è il Re che diffondersi brama,
Che pacifico vien dalla
reggia,
Che fra i sudditi amati
passeggia,
Che lor volge parole
d'amor:
Egli è il padre che
visita i figli,
Che s'appressa a ciascun
de' lor petti,
Che lor mostra quant'ei
si diletti
Di cercarli, di starsi
fra lor.
Oh nel moltiplicar tuoi benefici,
Ricca d'industrie
amabili e sublimi,
Religïon che a' tuoi
sinceri amici
Con sì söavi grazie
amore esprimi!
Religïon, che pur ne' tuoi
nemici
A lor dispetto
meraviglia imprimi!
Religïon d'imperscrutati
veri,
Bella in tuoi grandi
lampi e in tuoi misteri!
Splendono innumerati i santi modi
Con che rammenti agli
uomini il Signore,
Con che il Signor
medesmo offerir godi
Alla vista de' popoli ed
al core;
A te non basta in mezzo
a preci e lodi
Sull'ara alzar la diva
Ostia d'amore;
Fuor de' delubri, tu la
traggi, e in pie
Feste l'elèvi per le
dense vie.
Perchè iroso talun le venerande
Processioni con ribrezzo
guata?
Perchè immagina ei tutta
in miserande
Cure avvolta la turba
ivi adunata?
In ogni loco, ottusa al
Bello, al Grande
Langue, è ver, più
d'un'alma sciagurata,
Ma gente è pur che il
Grande, il Bello ancora
Sente con forza, e,
quando sente, adora.
Alme sono, in cui
ragione
Ed amante fantasia
Tal serbarono armonia
Che abbellisce ogni
pensier:
Chi ragion vuol tutta
gelo
Senza slanci, senza
affetto,
Tarpa l'ali
all'intelletto,
Non s'innalza fino al
ver.
Tutto Ciò che santo
brilla,
Che divelle dalla creta,
Che solleva ad alta
meta,
Dobbiam credere ed amar:
D'infelici sprezzatori
Non confondaci lo
scherno:
Vile sforzo è
dell'inferno
ogni cosa dissacrar.
Quali volge a noi la
Chiesa
Rimembranze in tutti
riti?
Son materni, dolci
inviti
A speranza ed a fervor.
Il Signor quando
discende,
Quando incede in mezzo a
noi,
Chiede amore a' figli
suoi,
Chiede e in un largisce
amor.
Indelebil mi sei, giorno lontano
Allor che in giovenili
anni a me stanza
Era söave lido
oltramontano:
Cessava la sacrilega burbanza
Dalla falsa republica
ostentata
Contro la dolce degli
altar possanza;
E l'ardito mortal che, rovesciata
La licenza volgar, lo
scettro prese,
Volle che laude fosse a
Dio ridata.
Da lungo tempo augusta dalle chiese
Pompa uscita non era
d'alternanti
Supplici turbe a
fervid'inni intese,
Ricordavano solo alcuni santi
Vecchi le amate feste,
ove il Signore
Passeggiava cogli uomini
preganti.
Di repente riviver lo splendore
Ecco di quelle feste a'
Franchi lidi,
Ad un cenno del Corso
Imperadore.
E con gara magnifica allor vidi
Il popolo esultar, che
finalmente
Fosser compressi di
bestemmia i gridi:
E la città del Rodano opulente
Sfoggiò tappeti e drappi
ed archi e troni
Al quaggiù ridisceso
Onnipotente.
Gioiva la caterva udendo i buoni
Racconti de' vegliardi,
ed esclamava:
«Di novo esser del ciel
vogliam campioni!»
Intanto ognun con dignità n'andava
Qua e là per le strade
brulicando,
O a' pensili balconi
susurrava,
Lo spettacol santissimo aspettando.
Del cannone il fragor nuncio prorompe,
E da ogni parte ecco
seguir silenzio;
La procedente pompa in
quell'istante
Prese le mosse avea del
tempio. E oh quale
In tutta quella turba
apparìa senso
Misto di gaudio, di
stupor, d'ossequio,
Di terror sacro! E nel
quadrivio tutti
Protendeano la testa,
impazïenti
D'appagar le pupille in
quel sublime
Intervenir del Re
dell'universo
Tra le infelici vie che de' mortali
Cingon le case!
Il cinguettìo s'andava
A poco a poco intorno rïalzando,
Sin che ad un capo della via rifulse
La prima Croce, e la seguia drappello
Di devoti cantanti. Allor di novo
Regnò silenzio. A quella prima Croce
Ed al suo stuolo, stuoli altri seguìro,
Con altre Croci ed elevate insegne,
E varii ammanti, onde scerneansi varie
Affratellanze di civili uffici
E di sacerdotali. Inteneriva
Quell'ineffabil mistica armonia
Degli aspetti, moltiplici, e dell'inno
Da tante bocche e tanti cuor sonante,
E del brillar dell'infinite faci,
Il pio simboleggianti amor ridesto.
Bello il mirar là sovra
antiche gote
Lagrime di piacer! Là, sovra gote
Di dolci verginelle e di lor madri
Lagrime d'agitate alme, ferventi
Di carità reciproca e di gioia!
E là l'ansante genitrice in alto
Il suo bimbo elevar, sì ch'egli scorga
La maestà del rito, ed insegnargli
A riportar la tenera manina
Sulla fronte e sul petto e sulle spalle,
Balbettando la trina alma parola,
Che de' cattolici è gloria e salute!
Poi tragittate le
abbondanti schiere
Che annunciavan l'Altissimo, ecco un nembo
Di timïàmi, e fra quel nembo pria
Vago drappello d'angioli incensanti,
E fiori per la sacra aura spargenti;
Indi - oh spavento! oh amore! - indi Colui
Che la terra creò, che creò i cieli,
Che l'uom creò, che all'uom s'unì, e divisa
Dell'uom l'ambascia, il consolò e redense!
A cotal vista l'adorante
folla
Genuflessa cadeva, ed i singhiozzi
Udii di molti che dicean: «Signore,»
Pietà di me che te cotanto offesi,
Ed ammenda desìo!»
- Stava fra i mille
Colà prostrato un giovane infelice,
Ch'empio non era stato, e sempre in core
D'amor favilla avea per Dio nodrita,
Ma pur sovente dal demòn superbo
Delle dubbiezze invaso avea lo spirto.
E certo le dubbiezze eran flagello
Da Dio permesso, perchè umìl non era
Di quel giovin lo spirto, e si credea
D'altissima natura, atto all'acquisto
D'ogni saper cui non s'aderge il volgo;
E lungh'ore ogni dì sedea solingo
Fra libri ottimi e pessimi, e scrutava
La verità - dimenticando spesso
D'invocarla dal ciel. Ma in quel gran giorno
Dell'adorabil pompa, in quel momento
Che a mille a mille si prostràr gli astanti,
Ed anch'egli prostrassi; il giovin, pieno
Poco prima di tenebre, una luce
Vide novella, e umilïò l'altero
Intelletto con gioia, e senza orgoglio
Fu per più giorni e immacolato e forte.
E quando quell'audace
irrequïeto
Tornava a' suoi deliri, investigando
Con indagin profana alti misteri,
Scontento si sentiva e sen dolea;
Ed in sè di quel giorno Lugdunense
La ricordanza ridestava, in cui
S'era con fede innanzi a Dio gettato;
E tale avventurosa ricordanza
Lui consolava, e gli rendea sovente,
Od accresceagli della fede il raggio!
V'amo, o Processïoni! e v'amo tutte,
Pubbliche preci dalla
Chiesa alzate
Ad inforzarci in
perigliose lutte!
Io son quell'un, che da dubbiezze ingrate
Afflitto in gioventù,
pur vi cercai,
Ed hovvi schiettamente
indi onorate.
E non sol nelle feste, ove, i suoi rai
Nascondendo, intervien
l'Ostia divina,
D'indicibil dolcezza io
m'esaltai;
Ch'ovunque l'uom pregando pellegrina
Affratellato al suo
simìle e canta,
Sento un poter che a Dio
mi ravvicina.
Quant'amo l'adunanza umile e santa
De' confidenti nell'amor
di Quello
Che di bei fiori le
convalli ammanta!
Congregati alle miti aure d'un bello
Mattin di maggio, in
copia anzi la chiesa
Ecco stan villanel con
villanello.
Ed ecco, il piede innoltran per la scesa
Giovani donne, e nel
tugurio resta
L'avola antica alle
faccende intesa.
Ed il sacro Pastor move la festa,
Guidando i parrocchiani
in mezzo ai prati,
E in mezzo a' campi e in
mezzo alla foresta.
Mirano con dolcezza i germogliati
Frutti di quel terreno,
e pel ricolto
Litanïando invocano i
Bëati;
E il passegger da lunge dando ascolto
Alla rustica prece, si
commove,
Ed anch'egli a pregar
sentesi volto,
E forse da mal opra indi si move.
Udran certo la prece
devota
I Bëati che sono appo
Dio;
L'udrà l'Angel del bosco
e del rio,
L'udrà l'Angel del monte
e del pian;
E le debili umane parole
Commutando in concento
divino,
Le alzeran fino
all'Unico-Trino,
E felice la messe
otterran.
Ma se pur le parole
dell'uomo
In concento divin
commutate
Al Signor non salissero
grate,
E vibrasse tremendo flagel,
La preghiera che alzaro
i credenti
Infeconda giammai non si
fora,
Sempre i cor la
preghiera migliora,
Sempre l'uom riconcilia
col ciel.
E dopo l'anno in cui sole o procella
Di frutti la campagna
han desertato,
Riedono i contadini in
la novella
Stagion di maggio al
supplicare usato.
Di sue peccata ognun
castigo appella
L'arsura o i nembi del
trist'anno andato;
Ognun con penitenza più
sincera
Da Dio depreca tai sciagure,
e spera.
Venga a que' giorni il vate ed il pittore
Sulla bella collina
d'Eridàno,
E contempli quel quadro
incantatore
Cui son limite l'alpi da
lontano.
Di bellezza uno spirito
e d'amore
Diffuso è là sui monti,
e là sul piano,
E qui sui poggi, e sui
due fiumi, donde
Accarezzan Taurin le
amabil onde.
Il vate ed il pittor vedrà un incanto;
A sì bel quadro unirsi
novo ancora:
Escon le forosette in
bianco ammanto
Da diversi tuguri anzi
all'aurora,
Ed affrettano il passo
al loco santo,
Ove la campanetta suona
l'or;
Passar indi tra questo
albero e quello
Vedesi colla Croce il
pio drappello.
Pingetemi raggiante dall'Empiro
Degli Angiol la Regina
che sorride:
Dicesi che talor nel
sacro giro
Delle Rogazïoni alcun
lei vide;
Dicesi che commossa dal
sospiro
Di quell'anime semplici
a lei fide,
Col divin Figlio i campi
benedisse,
Nè gragnuola per molti
anni li afflisse.
E belle son le supplici
Pompe di penitenza in
alto lutto,
Quando da morbo orribile
A gran terrore un popolo
è condutto.
Per alcun tempo attonite
Portano le cittadi il
flagel rio,
Indi, poichè ogni
provvida
Arte inutile appar,
volgonsi a Dio.
Ed allor sorgon uomini
Per eloquenza e santo
cor sublimi,
E con ardir magnanimo
Rinfacciano lor colpe ai
grandi e agl'imi.
Della rampogna ridere
Vorrìa il perverso, e
già il malor lo afferra:
Jeri con vil tripudio
Opprimea l'innocenza,
oggi è sotterra.
Prendon la Croce gli
umili,
E più d'un già superbo
anche la prende,
E il penitente cantico
Da migliaia di cuori al
cielo ascende.
Religïon fortifica
Gli animi che depressi
avea paura,
E quindi all'aer
malefico
Più robusta resiste anco
natura.
Religïon le torbide
Coscïenze deterge, indi
le calma,
E più efficaci i
farmachi
Opran nell'uom, qualor
pacata è l'alma.
Accumular prodigii
Potria certo il Signor,
ma senza questi
Pur con sue leggi solite
Sana e protegge chi a
ben far si desti.
Il penitente popolo
Dopo le preci meno
ismorto riede,
E più costante esercita
Sua carità, perchè
doppiata ha fede.
Ed allor men sovente abbandonati
Van gli egri da' famigli
e da congiunti;
E più d'un egro che di
duol perito
Fora per l'abbandon,
s'altri l'aiuta,
Forze ritrova, e più del
morbo i dardi
A lui non son mortiferi.
In tal guisa
Scema la strage a poco a
poco, e cessa.
Ah! in questi miseri anni
Europa invasa
Dall'indica per l'aer
corrente lue,
Quanta per ogni loco
alzar dee lode
A te, Religion! Dove i
più ardenti
Soccorritori delle
inferme turbe?
Eran color che a
beneficio spinti
Venìan da fede! Eran le
pie fanciulle
Vincolate da voto a farsi
ovunque
Ancelle de' languenti! Eran dell'are
Degni ministri! Erano
illustri o scuri
Concittadini che
schernir solea
La vigliacca empietà,
perchè prostesi
Sovente all'are onde
traean virtude!
E te fra tanti
ardimentosi egregi,
Ottogenario Vescovo,
annovrava
La nostra Cuneo dianzi,
a' più tremendi
Lunghi giorni di morte e
di spavento!
Te col drappello de'
tuoi forti amici
Cingeano indarno gli
ululi codardi,
E i turpi esempli di
color che aïta
Negavano a' giacenti!
Impallidìa,
Ma per alta pietà, non
per paura
La vostra fronte, ed al
pallor gentile
Succedea sulle guance il
nobil foco
Della vergogna per
l'altrui fiacchezza.
E quando truce cova, e
già scoppiando
Va in queste Taurinensi
aure la lue,
Chi a' bisogni provvede
e rischi affronta,
E sprona, e gare generose
incìta?
Alme prodi son desse, a
cui ben nota
Religion senno e
costanza infonde!
E fra tali, io con
giubilo un amico
Vidi primo scagliarsi
all'ardue cure
Che salvaron la patria;
e fra i gagliardi
Che il seguitavan, godo
altri a me cari
Scorgere e benedire, e
vieppiù amarli!
Ma il dolor pur
rammentiamo
D'altre turbe
supplicanti:
Stirpe misera d'Adamo,
Numerar chi può tuoi
pianti?
Più d'una volta
Furon vedute
Disperar quasi
Della salute
Assedïate
Degne città.
L'oste che i muri
Ivi circonda;
Desolò questa
E quella sponda;
Scevra si vanta
D'ogni pietà.
Pubbliche preci
La Chiesa intima,
Anzi agli altari
Ciascun s'adìma,
Indi procede
Ignudo il piè.
La mescolanza
Del lor dolore,
Del loro grido
Al Salvatore,
In tutti i petti
Cresce la fè.
Dopo la pompa
Il capitano
Ripon sull'elsa
L'ardita mano,
Ed ispirato
Snuda l'acciar,
«Chi di voi sente
«Iddio con noi?
«- Tutti il sentiamo!»
Sclaman gli eroi.
Apron le porte,
Vanno a pugnar.
Scossa, atterrita
L'oste nemica,
A ripulsarli
Mal s'affatica;
Già si scompiglia,
Si dà a fuggir.
Mai non è, vinto
Chi vincer crede:
Negl'irrompenti,
Opra la fede:
Salva è la patria
Presso a perir!
Chi son que' feroci
Che d'Asia partiti,
Di tutto Occidente
Percorrono i liti?
Rapinan, devastano
Campagne e città.
Il lor capitano
È demone od uomo?
Da niuna possanza
Giammai non fu domo.
Flagello di Dio
Nomar ei si fa.
Le Slaviche terre,
Le terre Tedesche
Sopportan sue stragi,
Sue luride tresche;
Le Gallie lo veggono
Sovr'esse piombar.
Ma il barbaro in mezzo
Al sangue, alle prede
Non gode, se Roma
In polve non vede;
Ed eccol dall'Alpi
Furente calar.
Qual possa di braccio
Avria soffermato
Chi tanto al suo ferro
Già, avea soggiogato?
Qual gente dal Tevere
Incontro gli vien?
Un duce canuto,
Magnanimo, forte,
Non forte di schiere
Datrici di morte;
La sola sua fede
Il guïda, il sostien.
Quel duce vestiva
D'Apostolo il manto;
Portava in sue mani
Il Re sempre Santo;
E folto seguialo
Pregante drappel.
Ed Attila, fero
Flagello di Dio,
Innanzi agl'inermi
Tremò, impallidìo,
E disse: «Non voglio
«Pugnar contro il Ciel!»
Perchè retrocesse
Con tanto spavento?
Vid'ei nelle nubi
Un vero portento,
O tutto il prodigio
Oproglisi in cor?
Dicevano gli Unni
Con rabida voce:
«Per quale incantesmo
«Ci vinse la Croce?»
Ed Attila urlava:
«Fuggiamo il Signor!»
Ah! dolce siami ricordarmi ancora
Processïoni d'altri
cuori amanti,
Volte a far sì ch'uom
santamente mora;
Allorquando a' fratelli doloranti
Sovra il letto di morte
vien portato
Quel Dio che si commove a'
nostri pianti.
Brama la Chiesa intorno a sè adunato
Stuolo di figli allora,
ed indulgenza
Materna a chi v'accorra
ha pronunciato.
Per le vie con sollecita frequenza
Suona la nota squilla
annunziatrice
Di quel mister d'amore e
sapienza.
E già la donnicciuola, osservatrice
De' pii dettami, il suo
lavor sospende,
E prega per l'incognito
infelice,
E lascia l'officina, e il passo tende
Con altri umili artieri
al loco santo,
E il cereo appo l'altar
ciascuno accende.
Ivi ad artieri e a donnicciuole accanto
S'inginocchiano tai, che
più cortese
Hanno il contegno e le
sembianze e il manto.
Il vario grado qui sparisce; intese
Tutte quell'almo al Re
del Ciel si stanno
Che in man dell'uom
dalla sua gloria scese.
Sostegno quattro fidi ecco si fanno
Al padiglion, sotto cui
l'Ostia viene
Riparatrice dell'eterno
danno
Escon del tempio, e in meste cantilene
Salmeggiano il bel carme
in che il Profeta
Reo si chiamava, ed
estollea sua spene.
All'ansio mover della schiera è meta
Il tetto di fratello o
di sorella,
Cui forse morte è già da
Dio decreta.
E talor quell'afflitta anima in bella
Giace magion, che al
volgo ivi stupito
Rammemoranza d'alte
gioie appella.
Allor più d'un fra gl'infimi è colpito
Dal sentir ch'è pur cosa
egra e mortale
Uomo a sorti sì
splendide nodrito.
E tra sè dice: «Ai fortunati oh quale
«Stolta invidia portai,
se tutti dee
«Involver duolo ed
esterminio eguale!»
E mentre le atterrite alme plebee
Il vil livor depongono,
e commosse
Pregan per lui che l'ultim'aure
bee,
Con dolcezza rammentan com'ei fosse
Modesto in sua possanza,
e come pure
L'altrui miseria a pietà
sempre il mosse.
Ovver tristi rammentan le pressure
Ch'oprate lunghi giorni
ha il vïolento,
Insultando degl'imi alle
sventure.
Lagrime versa quei di pentimento,
E scorge di perdon
raggio felice
Entro al cor ricevendo
il Sacramento:
E a sè d'intorno mira e benedice
La carità di quella pia
congrèga,
Che i torti obblìa
dell'alma peccatrice,
E pel suo scampo sempiterno prega.
Chi sì fredda laudar mente potrìa
Sì del bello avversaria
e del sublime,
Che la potenza non
ammiri ed ami
Del gran mister? Mentre
all'infermo è data
Per patire o morir forza
oltr'umana,
Uno spirto di serii
pensamenti
E di mutua pietà gli
astanti afferra;
E ciascun dal palagio
ov'oggi han regno
Le dolorose infermità e
la morte,
Riede a sue ricche sale,
o al suo tugurio,
Più memore del cielo e
più benigno.
Nè spettacol men alto è
quando tragge
Il Pan celeste al
miserando letto
Dell'indigenza. Fra lo
stuol seguace
Dell'adorabil visita
divina,
Donna s'annovra illustre
e generosa,
Ben conscia già di
luride scalee
E di covili ov'han
mendici albergo.
Ed ella dietro al
Salvatore ascende
Alla povera stanza; e
gentilmente
Del suo splendido stato
si vergogna,
Ed aïtar tutti vorria
gli afflitti.
Egra giace una vedova,
ed intorno
Lagrimosi le stanno i
figliuoletti
Della fame dimentici, e
accorati
Sol perchè temon pe'
materni giorni.
Della Comunïon pur non
vorrebbe
Questa mirarli nel
solenne istante;
Pensar vorrebbe solo a
Dio; ma gli occhi,
Pensando a Dio, ricadon
sovra i figli,
E s'empiono di pianto. -
«Oh figli miei!
«All'infrenabil mio
materno lutto
«Deh non badate, e voi
consoli Iddio!
«A lui vi raccomando: ei
padre ognora
«Fu de' pupilli derelitti;
piena
«Fiducia abbiate in
lui!» Così l'inferma
Geme ed abbraccia ad uno
ad uno i cari;
Poi, vinta
dall'angoscia, obblia di nuovo
La voluta fiducia, e per
delirio.
Lamentosa prorompe: «Oh
delle mie
Viscere amati frutti!
ov'è chi prenda
Cura di voi, quand'io
sarò sotterra?
- Per mezzo mio li aiuterà il Signore!»
Dice l'illustre donna
ivi prostrata;
E s'alza, ed alla vedova
giacente
Le braccia stende, e al
sen la stringe; e questa
Effonde il core in voci
alte di gioia,
Dicendo: «Io moro
consolata! a' figli
«Che in terra lascio,
resterà una madre!»
Io vidi, io stesso un
giorno in mezzo a' campi
Avvïarsi la visita
d'Iddio
A povera magion. Seguii
la turba,
Per l'infermo pregando,
e quell'infermo
Canuto essere intesi
agricoltore
Presso al centesim'anno.
Ove giacea
L'onorato vegliardo? In
una stalla!
A manca erano i buoi;
spazio bastante
Libero stava a destra, e
un letticciuolo
Ivi il padre capìa della
famiglia.
E in quella stalla il
Creator del mondo
Entra a soccorrer
l'uomo! ad onorarlo!
A nutrirlo di sè! tanto è
il prodigio
Dell'umiltà divina, o
tanto agli occhi
Del Crëator sublime cosa
è l'uomo!
Ah! ben desso è quel Dio
che in una stalla
Nascer degnava, e
palesar che in pregio
Gli era il mortal, non
per potenza ed oro,
Ma per l'umana sua nobil
natura!
Oh mirabile vista quel
languente
Che dal guancial la
testa sollalzava,
Bella per bianche
chiome, e pel sorriso
Della pace di Dio!
mirabil vista
L'atto in cui della
debil creatura
Cibo si fa il Signor!
Chi non di dolce
Stilla bagnate aver
potea le ciglia,
Ripetendo le preci? - E
la pietosa,
Ond'or parlai, che della
vedov'egra
L'oppresso spirto avea
racconsolato,
Non è del vate
invenzion. Mi stava
Quell'angelica donna
appunto a fianco
Or nella stalla del
canuto. E quando
Il Sacerdote retrocesse,
allora
Sorse l'egregia, e
avvicinossi al letto,
E favellò non so quai
detti al vecchio,
E nelle antiche palpebre
io vedeva
Gratitudin rifulgere e
contento.
Ma non così pacifiche
Sempre si volgon l'ore
Al figlio della polvere,
Quando patisce e muore.
Colui tre volte misero
Che in suoi peccati è
spento,
Di cui la gente mormora:
«Non ebbe il
Sacramento!»
Assai meno, assai meno infelice
Di chi muor senza luce
d'ammenda
È colui che da legge
tremenda
Vien dannato a precoce
morir!
Fur gravissimi forse i
delitti
Che macchiaron la vita
del tristo;
Ma piangendoli a' piedi
di Cristo,
Spera in ciel perdonato
salir.
Ed anco a tal dannato a fera morte
Religïon moltiplica sua
cura:
Ella sola al gran passo
il rende forte,
Che vinta da terror fora
natura.
Arrivato d'un tempio
appo le porte
Perchè il fermano? Oh
ciel! che raffigura?
Dall'altar mossa l'Ostia
avvivatrice,
Conforta ancor la
vittima infelice.
E la vittima piange benedetta
L'ultima volta dal
Signore in terra,
E con più vigoroso animo
accetta
La fune onde il carnefice
la serra:
Che è mai la morte al
misero che aspetta
Grazia colà, dove non è
più guerra?
Ch'è mai la morte
all'uom quaggiù imprecato,
Se Iddio gli dice in
cor: «T'ho perdonato!»
Le varie pompe tutte
Uopo non è che annovri
il verso mio,
Onde sovente addutte
L'anime sono a
rammentarsi Iddio,
E onde abbelliti vanno
Di vita il corso ed il
postremo affanno.
Io tutte v'amo. quante
Istitüì la provvidente
Chiesa
Processïoni sante!
Sol per la mente a basse
cose intesa,
Il senno dell'altare
Non benefizio, ma
stoltezza appare.
Io v'amo, o pompe! ed
amo
Pur la più mesta; quella
in cui giacente
Nel fèretro seguiamo
Il simil nostro, che di
nobil ente
Sulla terra mutossi
In carne data a' vermi e
in poveri ossi.
Oh commovente gara
Il congregarsi ad onorar
per via
La sventurata bara!
L'alzare ancora in
fùnebre armonia
Un voto pel fratello,
Di cui le spoglie
inghiottir dee l'avello.
Soleasi a' dì lontani,
Che barbari a ragion
forse son detti,
Ed in cui pur gli umani
Portavan reverenza a' begli
affetti,
Soleasi da' congiunti
Pianto sacrar, solenne
a' lor defunti!
Mutò la degna usanza,
E quando un genitor
serrato ha il ciglio,
Più intorno non gli
avanza
Nè la consorte, nè un
diletto figlio:
Decenza impone a questi
Sgombrar lochi per morte
oggi funesti.
Ah! ben più venerando
Era a' tempi de' barbari
il compianto
Delle famiglie, quando
I figliuoli mescean
lagrime e canto,
Venendo primi dietro
All'orribile e in un
caro ferètro!
Fretta mi par non pia
Il fuggire un amato,
appena e' muore;
Il non voler qual sia
Prova a lui dar di
pubblico dolore:
Ma ben è ver, che ascoso
Pur gronda il pianto - e
spesso è più doglioso!
Se quei che vincolati
Son per sangue col
morto, alla gemente
Pompa non son restati,
Folta dietro la bara è
pur la gente:
Misto al terror, v'è un
forte
Amor nell'uom per l'alta
idea di morte.
Chi vive puro, i grandi
Proponimenti inforza a
quella vista,
E chi traea nefandi
I giorni suoi, sogguarda
e si contrista:
D'ognuno a tal pensiero
Scossa è la mente e
richiamata al vero!
Ma poichè il più giulivo e il più dolente
Fra quanti riti a noi la
Chiesa espone,
Ha in sè di grazia
spirto onnipossente,
Che al cor favella ed a
virtù dispone,
Star giammai non si
vegga ivi il credente
Col vil sorriso che a
bestemmia è sprone:
Ne' templi e fuor de'
templi ogni atto pio
Puote e debbe nostr'alme
alzare a Dio.
V'amo, o pompe divine! e prego il Cielo
Ch'io mora in patria ove
sien usi santi,
Ove alla tomba il mio
corporeo velo
Dato non sia da ignoti o
da sprezzanti,
Ma pochi amici con
pietoso zelo
Seguano la mia bara
salmeggianti,
E valga sì de' lor
sospiri il merto,
Che tosto siami il sommo
regno aperto!
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