ALESSANDRO VOLTA.
Erat vir ille simplex et rectus,
et timens Deum.
(Job. I. 1).
Europa e il mondo onor ti rende, o Volta,
Per l'altissimo ingegno
ond'hai natura
Scrutata, e in gravi
magisterii svolta.
E fin che indagin glorïosa dura
Di scïenze tra i figli
della terra,
Il nome tuo d'obblio non
fia pastura.
Ma non sol perchè piacque a te far guerra
De' fisici misteri
all'ignoranza,
Giusta laude il cor mio
qui ti disserra.
Vidi altro merto ch'ogni merto avanza
Splender nella tua
grande anima, ardente
D'ogni santa e magnanima
speranza.
In tua vecchiezza, a me giovin demente
T'avvicinava il caso....
ah! non il caso,
Ma la bontà del senno
onnipotente!
E ti vidi anelar, perch'io süaso
Dai falsi lumi d'empietà
non gissi,
Ma dal lume del ver
crescessi invaso.
Un dì, seduto appo quel Sommo, io dissi
Quai m'affliggesser
dubbii sciagurati
Sovra i destini a
umanità prefissi;
E gli narrai quai mi tendesse aguati
Mia fantasia superba,
investigante
Supremi arcani, a noi da
Dio negati.
«O tu, gli dissi, che vedesti avante
Più di molti mortali
entro a' secreti,
Fra cui traluce il
sempiterno Amante,
Dimmi in qual foggia in mezzo a tante reti
Di volgari credenze e
d'incertezza,
Circa la fede il tuo
pensiero acqueti».
Il buon vegliardo a me con pia dolcezza:
«Figlio, anch'io lungo
tempo esaminando,
Tenni la mente a
dubitanze avvezza;
E a' giovani anni mi turbava, quando
Mi parea che del secolo
i primai
Di Fè il giogo scotesser
venerando,
E s'infingesser di scïenza a' rai
Scoperto aver ch'Ara,
Vangelo e Dio,
Fuor ch'esca a plebe,
altro non fosser mai.
Temea non forse alfin dovessi anch'io
Da' miei studi esser
tratto a dir: - La scuola,
Che mi parlò d'un
Crëator, mentìo.
Ma benchè ardito e avverso ad ogni fola,
E benchè in secol tristo
in ch'ebbe regno
Quella filosofia che più
sconsola,
E benchè procacciassi alzar lo ingegno,
Sì che a Natura io
lacerassi il velo,
Sempre d'Iddio vidi
innegabil segno».
Così Volta parlava, ergendo al cielo
La cerulea pupilla
generosa,
Poi seguitava con
paterno zelo:
«Degli audaci all'imper resister osa,
Che da lor alta fama
insuperbiti
Noman religïone abbietta
cosa!
Mal per dottrina ostentansi investiti
Di maggior luce che non
dan gli altari:
Io negli studi ho i
passi lor seguiti,
Nè scorto ho mai ch'uom veramente impari
Saldo argomento a
diniegar quel Nume,
Che splende nel creato
anco agl'ignari.
E se d'umano spinto all'acume
Diniegare è impossibile
l'Eterno,
Lui trovo pur di
coscïenza al lume».
«Lui troviam tutti! dissi; e mai governo
Del mio cor non faranno
atee dottrine,
Ma fuor del tempio assai
dëisti io scerno.
E tu forse a costor più t'avvicine,
Che non a quei che
dall'Uom-Dio portate
Estiman del Vangel le
discipline».
«T'inganni, o giovin! replicò (e sdegnate
Sfavillaron le ciglia
del vegliardo,
Poi su me si rivolsero
ammansate).
T'inganni, o giovin! Nel Vangel lo sguardo
Figgo come ne' cieli, ed
in lui sento
Tutto il poter di verità
gagliardo.
Sento che negli umani un vïolento
S'oprò disordin per
peccato antico,
E che vizio e virtù son
mio tormento,
Sento che il Crëator rimase amico
De' puniti mortali; e, a
noi disceso
Per esserne modello, il benedico.
Sento che siccom'Egli uomo s'è reso,
Divino debbo farmi, e
tutto giorno
Viver per lui d'amor
sublime acceso.
Sento che puote ingegno essere adorno
Di ricco intendimento e
di scïenza,
Della Croce adorando il
santo scorno;
E m'umilio con gioia e reverenza
Col cattolico volgo a
questa Croce,
E in lei sola di scampo
ho confidenza».
Eloquente dal cor rompea la voce
Del buon canuto, come a
tal, cui forte
Dell'error d'un amato
angoscia cuoce.
«Tu mi garrisci e in un mi riconforte,
Dissi, e poichè alla
Chiesa un Volta crede,
Spezzar de' dubbii spero
le ritorte».
«Le spezzerai! quegli gridò con fede;
Vedrai che bella fra'
più colti ingegni
Anco religïosa anima
incede!
Nè immaginar che lungo tempo regni
La gloria de' filosofi
or vantati,
Che fur di scherno e di
superbia pregni:
Pochi anni ti prenunzio, e smascherati
Vedrai que' mille turpi
falsamenti,
Con che in lor carte i
fatti han travisati.
Il più splendido autor di que' furenti,
Che tutto diffamò col
vil sogghigno,
E con tai grazie che
parean portenti,
Malgrado i pregi del suo stil vòlpigno,
E il suo bel Lusignano
e sua Zaìra,
Detto sarà filosofo
maligno.
Ei tutti i dì già meno ossequio ispira,
E Francia, ond'ei sembrò
tanto dottore,
Già del mentir di lui parla,
e s'adira.
Ed al crollar del gran profanatore
La ciurma crollerà dei
men famosi,
Che volean Dio strappar
dall'uman core».
Io di Volta ridire i luminosi
Sensi mal so, ma
dell'egregio vecchio
Amor mi prese, e più a
lui mente posi.
Più fïate percossero il mio orecchio
I suoi santi dettami, e
più fïate
Divisai farli di mia
vita specchio.
Io meditando tue parole amate,
O incomparabil uom, più
non gustava
Degli audaci le carte
avvelenate.
Ancor pur troppo da te lungi errava,
Ma pur m'innamoravan que'
volumi
Che il dolce genio tuo
mi commendava.
Io debol era, ma ogni dì i costumi
Del mondo a me tornavan
più molesti:
Chè li scernea della tua
fede ai lumi.
Sovente i giorni miei trascorrean mesti,
Perocchè i tuoi consigli
io non seguìa,
Mentre pur mi fulgean
veri e celesti.
Varie sorti e distanze a quella mia
Tenerezza per te scemàr
vantaggio,
E poco al tuo savere io
mi nodrìa.
Vedendoti di rado, il mio coraggio
Appo la Croce non durò
abbastanza,
E a follìe tributai
novello omaggio.
Ahi! diè l'Onnipossente a mia incostanza
Castigo di
sventura e di catena,
E lurid'antro a me
divenne stanza!
Tu, certo, benchè allor pensieri e lena
Ti s'infiacchisser per
decrepiti anni,
Raccapricciasti di mia
orribil pena,
E con secreti gemiti ed affanni
Per me a' pie' del
Signore hai dimandato
Sollievo e forza, ed
alti disinganni.
Ei t'esaudiva, e il creder tuo stampato
Così alfine in
quest'alma addentro venne,
Che più da dubbii non
andò crollato.
E gaudio e libertà poscia m'avvenne,
E rividi la madre e il
genitore
Dopo la sanguinosa ansia
decenne.
Ma ne' giorni del mio lungo dolore
Molte vite finìan la
mortal traccia,
E di batter cessò tuo
nobil core.
Duolmi che più non posso infra tue braccia
Gettarmi alcun momento, e
alzare il ciglio
In tua paterna,
veneranda faccia.
In tutti i dì del mio terreno esiglio
Pregherò Dio che schiuda
a te sua reggia,
Se mai fuor ti legasse
aspro vinciglio.
Ma te già spero nell'eletta greggia!
Di là mi vedi, e preghi
impietosito
Che in tua pace
per sempre io ti riveggia.
Perdonami se tardi io t'ho obbedito!
A tua amistà m'affido, e
affido pure
Quel diletto mio Porro,
a te gradito!
Impetra il fin dell'alte sue sciagure;
Impetra ch'io con esso e
gli altri amici
Troviam nel divo Amor gioie
secure,
Sì che n'abbian giovato i dì infelici!
|