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Silvio Pellico
Poesie inedite

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  • VOLUME SECONDO.
    • RAFAELLA.
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RAFAELLA.

 

Cantica.

 

La Cantica di Rafaella doveva essere il principio d'un'azione più vasta che non è quella presentemente qui disegnata. Fu il primo saggio ch'io abbia eseguito di tal genere di componimenti, or sono molti anni; ma siffatto lavoro essendo andato perduto con altri scritti dalla mia gioventù, ho pigliato più tardi a ricomporlo con affezione, ma non più come episodio di poema esteso. Quel poema, nella guisa ideata dapprima, aveva per oggetto di far sentire quanta debba e possa essere sugli uomini l'efficacia delle virtù della donna. Io congegnava a tal uopo una serie di fatti, collocandoli in Italia a' tempi dell'Imperadore Ottone II, e divisando con simili diversi quadri di mostrare altresì qual fosse l'Italia d'allora sì in bene sì in male, e quanti bei temi a poesia possa offerire la vita del medio evo. Foscolo bramava che ci dividessimo l'assunto di dipingere que' secoli, egli con una serie di tragedie della qualità della sua, Ricciarda, ed io con poesie narrative. Sebbene fosse fautore caldissimo degli studii classici, amava egli pure i soggetti de' mezzi tempi, soltanto volendo che si trattassero con gusto severo, e non con quelle soverchie licenze d'invenzione e di stile, che da taluni della scuola romantica s'andavano introducendo.

 

 

 

RAFAELLA.

 

Responsio mollis frangit iram, sermo

durus suscitat furorem.

(Prov. 15. 1)

 

O bell'arte de' carmi! Onde l'amore,

Il dolcissimo amor, che sin dagli anni

D'adolescenza io ti portava, e afflitto

Da lunghi disinganni anco ti porto?

Non per la melodìa, misterïosa

Sol de' söavi accenti, e non per l'aura.

Degli applausi sonanti entro le sale

De' colti ingegni, e non per la più cara.

Delle lodi, - la lagrima e il sorriso

Delle donne gentili. Innamorato,

O bell'arte de' carmi, hai la mia mente

Colle nobili istorie. Il tuo incantesmo

È per me la parola alta e pittrice

De' secreti dell'anima, ed un misto

Di semplice e di grande e di pietoso,

Che nessun'altra bella arte con tanta

Efficacia produce. A te ne' voli,

Cui fantasìa ti trae, tutte concede

Sue grazie il vero; e tu, se Poesia

Inclita sei, quella ond'amante io vivo,

Tutte del ver serbi le grazie, e ornarle

Sai di delicatissimo splendore

Che non punto le offende e non le muta,

E pur le fa per molti occhi più dive,

Più affascinanti l'intelletto. Incede

Senza carmi e con leggi altre men gravi

Più scioltamente un narrator, siccome

Senza cinto la vergine; ma il cinto

Converte la vaghezza in eleganza.

Suoni sull'arpa mia, suoni la lode

Delle forti sull'uom dolci potenze,

Onde il femmineo cor va glorïoso;

E mia cantica dica oggi le pompe

Del Parlamento di Verona, e quale

D'un magnanimo vate era il periglio,

E più il periglio d'un illustre oppresso

Se vergin trovadrice alla crucciata

Alma d'un generoso imperadore

Pacificanti melodìe opportune

Dal mite e saggio cor non effondea.

Quando Italia ordinar, lacera in mille

Avversanti poteri, ebbe promesso.

Il rege Ottone, e di Verona al circo

Chiamò l'alta adunanza, ove concorse;

Ogni baron d'elmo o di mitra ornato,

Ch'oltre o di qua dell'alpi avesse nome,

Immensa moltitudin coronava

Sull'anfiteatrale ampia scalea

La vasta piazza, in mezzo a cui d'Augusto

La maestà fulger vedeasi, e quella

De' reggenti minori. A gara e dritti

S'agitavano e accuse. Ora fremente

Rattenendo la giusta ira nel petto,

Or con dolce sorriso, il re supremo

Ascoltava e tacea dissimulando,

Però che pria di pronunciar sue leggi,

Gli altri indagava e maturava il senno.

Fra le orrende in que' dì scagliate accuse

Contro a veri o supposti empi, colpita

D'Insubre cavalier venne la fama,

La fama d'Ugonel. Gli s'apponea

Da un ribaldo, il qual retti avea vissuti,

A giudizio del popolo, molt'anni,

Atroce fatto di perfidia e sangue:

Una lunga covata inimicizia

Verso il prode Emerigo, e astute fila

Per ingannarlo sotto il sacro ammanto

Delle gioie amichevoli; ed in fine

La morte stessa d'Emerigo, oprata,

Per artifizi d'Ugonel, con feri

Di streghe incantamenti o con veleno.

Carissimo al regnante era Emerigo

Per assai merti in guerra e pace, e quando

Avvenne del baron la crudel morte,

Fu visto nella reggia il coronato

Balzar dal soglio, e impallidire, e gli occhi

Empirglisi di lagrime, e le grandi

Rammemorar virtù del cavaliero,

Giurando alta vendetta.

Ora Ugonello

Vincolato ecco giace entro i profondi

Umidi cavi di vetusta torre;

E provata apparendo omai la nera

Trama ed i sortilegi e l'omicidio,

Gode l'accusator, gode una turba

D'invidïosi or satisfatta, e ognuno

Di que' nemici aspetta la imminente

Del prigionier condanna; e non pertanto

V'ha moltitudin pur d'illustri e d'imi,

Che reo stimar non san quel, già fra' sommi

Seguaci di virtude annoverato.

Le cure mille del Tedesco Impero

E del regale Italo serto, e il vivo

Desìo di non fallir, tengon sospesa

L'alma d'Otton per varii giorni. Intanto

Veniva egli nel circo alle adunanze,

E più del consüeto era cruccioso,

E de' suoi fidi gl'intelletti ognora

Feansi industri con feste a serenarlo.

Misti alla densa spettatrice folla

Palpitavan due petti, usi coll'arpa

A ridir cose non del volgo: a loro

D'ogni grande spettacolo la vista

Era di grandi sensi ispiratrice.

Uno è il vecchio Romeo, guerrier de' monti

Onde scende Eridan; l'altro Aldigero,

Suo figliuolo e discepolo: Aldigero

Non noto sol per gl'inni suoi gagliardi,

Ma formidabil nelle patrie pugne,

E cor, cui sublimato ha degno amore

Per la vergin de' cantici lombardi,

Rafaella, a que' dì gloria d'Olona.

Fascino avea sull'anima d'entrambi

Que' bellicosi spiriti la luce

De' poetici studi. Il vïandante

Le valli attraversando in notti estive,

Vïolarsi i dolcissimi silenzi

Da dilette armonie sui colli udiva;

Ed erano i due vati, ardenti spesso

Di quell'estro recondito e divino,

Che più tra il riso degli ameni campi

Che nel fragor delle città sfavilla.

Ma l'estro sempre non traean da' belli,

Maravigliosi di natura aspetti.

Or contemplavan, bianchi di spavento,

Le tempeste che visitan la terra

Come i ladroni, e menan beffe al pianto

De' poveri, cui tutto han divorato;

Or lunge ramingavano, e sui laghi;

E sui precipitevoli torrenti

E sulle oceanine onde le spume

Ivan solcando ne' perigli, all'urto

Più feroce de' venti, allor che il legno

E s'innalza e sprofondasi impazzato,

E qual degl'imbarcati urla, qual prega

Con pentimento e con secrete angosce,

Quale il nocchiero interroga, e il nocchiero

Non risponde, ma sibila convulso.

Oltre a tai casi di terrore, a cui

Aldigero e Romeo s'eran per lungo

Vario peregrinar dimesticati,

Da' lor nobili cuori assaporata

Era la voluttà delle battaglie:

Nelle imprese santissime, e il terrore

Conoscean delle stragi, e l'alta febbre

Della sconfitta, e del trionfo i gaudii.

E sovente il canuto ad Aldigero

Avea parlato questi detti:

- A' vati

Uopo è molto veder, che terra e cielo

Offran lor di magnifico e tremendo,

E ciò che s'è veduto indi in solinghe

Ore volger nell'alma, conversando

Colla propria mestizia, e colle sacre

Memorie degli estinti, e col Signore

Eccoli ambi in Verona. Ivi li trasse

La fama dell'eccelso intendimento,

Che tanti spirti còngrega da mille

Contrade lontanissime, e la fama

Delle regali, portentose pompe.

Spalanca i bei cilestri occhi Aldigero

Nel vasto anfiteatro, inclito avanzo

Degli antichi Romani. Oh quanta folla

Sugli estesi gradini è brulicante!

Quanto splender nel sottoposto foro,

Intorno al soglio di colui che Italia

Regge e Lamagna, e in Occidente è primo!

- Oh padre! ei dice; qual soggetto a carme

D'italo trovadore, e come il labbro

Di Rafaella, se in Verona or fosse,

L'alzerebbe sublime! Un gran monarca

Che di due nazïoni i sommi aduna

Per drizzar tutti i torti! E quel monarca

Giudice è tal, che può cotante sciorre

Inveterate liti, e le può sciorre

O com'angiol di Dio, disseminando

Sapïenza ed anelito di pace,

O com'angiol di Sàtana, con ratto

Piglio i buoni strozzando od illudendo!

- Figlio, taci per or; bevi a larg'onda

I robusti concetti, e le speranze,

E il paventar magnanimo. Indi cresce

Dell'ingegno l'acume, e in avvenire,

A fulminar le laide opre de' vili,

E a cingere di luce i generosi,

Ti detterà più invigoriti i canti.

Terminò dell'augusto parlamento

L'affaccendato primo giorno, e allora

Fino al seguente dì venner le regie

Cure sospese, ed il pensoso Sire

Collo scettro i baroni accomiatava.

Gli applausi de' baroni Imperadore

L'acclamavan del mondo, e le caterve

Piene di maraviglia e di letizia

Ripetean l'alto grido.

Asceso Ottone

Sul candido destrier, per la più larga

Trapassa delle vie (dall'eccheggiante

Arena al suo palagio) ampia corsìa

Tutta sparsa di fiori e di tappeti

E d'ardenti profumi, entro le mura

Della città scorrendo. A tanti viva

Il festoso clangor si maritava

Di cento e cento trombe; ed a' guerrieri

Ed a' cavalli il cor battea sì lieto,

Qual batter suol della vittoria al suono.

Quel moversi de' popoli irruente

Verso le regie case, un mar parea,

Che traripando inondi la campagna,

E le universe voci, ancor ch'allegre,

Rombavan sì moltiplici e sì ferme,

Che la tremenda ricordavan foga

Di città che o si scagli alla rivolta,

O per subiti incendi o per tremoto

Impetüosa dagli alberghi spanda

Uomini e donne, e per le vie cozzante

Strilli fuggendo la insensata turba.

Si discernea ch'ell'era gioia, e pure

Era una gioia che mettea spavento.

A quel mar traripato argine intorno

Incrollabil si feano estesi armenti

D'italici corsieri e di tedeschi,

Affrenati da' prodi, irti di lance,

E le precipitose onde giganti

S'agitavan represse gorgogliando.

In tali urti di gente il buon Romeo

Da una parte fu spinto, e da altra parte

Spinto venne il suo figlio, e vanamente

Qua e là si cercan lungo tempo un l'altro,

E a chiamarsi a vicenda alzan la voce.

Il sole iva all'occaso, e detto avresti

Ch'ei discendesse in mezzo al gregge umano,

Tutto affollato sulla immensa terra.

Quella vista, e la splendida vaghezza

De' nugoletti occidentali, e il molle

Nell'aere della sera innominato

Religïoso incantamento, e in blandi

Fremiti omai converso il fracassìo,

Ed a que' blandi fremiti commista

La grata dissonanza or de' nitriti

Che le briglie scotendo alza, presago

Della vicina stalla, il corridore;

Or di persone salutanti, o mosse

A subitanee risa; or d'allungato

Grido di chi da lunge appellar sembra

Con dolce affetto un qualche suo smarrito,

De' trovadori commovea lo spirto.

Alle söavi rimembranze è schiuso,

Più in quella vespertina ora che in altre

Dell'intero suo giorno, il cor dell'uomo,

Perocchè il dileguarsi della lampa

Che a tutti è lieta, inchina ogni pensante

Ad affetti patetici, e al ricordo

Del dileguarsi della vita. Allora

Diciam la requie a' nostri pii, che insieme

Un dì con noi frangeano il pane, e al sacro

Ospital nappo s'estinguean la sete,

E che falce di morte indi ha mietuto;

E se remota è la natìa convalle,

L'invochiam sospirando, e riportiamo

Alle cene domestiche e alla pace

Del proprio letto il desïoso sguardo.

E le vergini piangono a quell'ora

Più dolcemente o la perduta madre,

O l'amica, od il prode, a cui risposto

Avea già il cor, se non le labbra: «Io t'amo!»

Ed a quell'ora tutto ciò nell'alma

Sente un alto poeta, e più che mai

Con mistica armonia s'ordinan belle

D'egregi fatti istorie entro sua mente.

Tal ben era Aldigero, e in sè volgea

Fantasie nobilissime, e lui pure

Premeva uopo di carmi. E nondimeno

Sue fantasie turbava una tristezza,

La tristezza gentil de' generosi,

Nel dire entro il cor suo, che, mentre tanta

Qui la festa fervea, mentre brïaca

Di piaceri e spettacoli e conviti

Era pur la genìa, carco di ferri,

In cupe volte di prigion, nel lezzo

E nel dolore un Ugonel giacesse

Senza conforto di parola amata,

Nè di soave illusïon, presago

Di quell'orrendo palco e di que' neri

Veli, e del manigoldo, e della scure!

E quell'oppresso era Ugonel! Colui,

Che il senno de' miglior dicea innocente!

Di loco in loco errò Aldiger lung'ora,

Indi all'ansante petto altra potenza

Tormentosa s'aggiunse. Udì levarsi

Dalle regie pareti una celeste

Musica d'inni e corde, e a quelle sedi

Egli tragge, vi giugne, e appena dice:

«Son trovador», si schiudono le cinte

Dell'amplissima sala, ove al fulgore

Di faci innumerevoli e di gemme,

Alla guisa d'un Dio, da inebbrïante

Pompa sedea bëato il re de' regi.

Cinquanta arpe sonavano, ed eletti

Trovadori ed elette trovadrici,

Bellissime di forma e verecondia,

Coralmente cantavano salute.

Al formidato e caro sir. Fra quelle

Vergini illustri, chi s'affaccia al guardo

Maravigliato d'Aldigero? È dessa!

L'inimitabil Rafaella! Alcuna

Ei dianzi speme non nutrìa che addotta

Ivi da' consanguinei ella venisse,

Inenarrabil giubilo s'indonna

Dell'amante garzon; ma il foco ei cela,

E mira, e pènsa, e ascolta, e più di prima

Vago di carmi ha il fervido intelletto.

Qual di lui fassi l'esultanza, quando

Onorevol romor da tutte parti

S'alza di gente che il ravvisa e dice:

- Non è quegli Aldiger? Certo, è Aldigero!

Il famoso Aldiger! - Lo stesso Ottone

Ode il pronto susurro, e poichè tanta

Dell'estro d'Aldigero è qui la fama,

Vuole che un'arpa a lui si porga e canti.

Penetrato era intanto ivi Romeo,

E testimon d'onor sì grande al figlio,

Di tenerezza lagrimò: tremava

Nondimeno il canuto, a cui più noto

Era che al figlio suo, quanta abbisogni

Innanzi ai re prudenza; egli tremava,

Conscio dell'arditissimo desìo

Di verità che in Aldiger fervea.

Ed infatti Aldiger, poste le dita

Sull'auree corde, e dolcemente svolta

Ossequïosa melodìa, la sacra

Maestà benedisse, indi i sublimi

Doveri commendando de' regnanti,

Osò mischiar con reverenti encomii

Sentenze tai, ch'eran flagello al core

Di taluni fra i grandi, e l'infiammato

Inno rivolse a pingere l'uom giusto,

Che i maligni allontanano dal trono

Con atroci calunnie. E la pittura

Dell'improvvido vate apertamente

D'Ugonel presentava e le sembianze,

E le virtù, ed il carcere. In suo cieco

Zelo pel vero il trovador pregava

D'Augusto la giustizia a diffidenza

Contro orribili accuse, e predicea

Indi a lui gloria, ed agl'iniqui infamia.

 

Otton s'alzò sdegnato, e mise un cenno,

E l'inno s'interruppe, e dalle mani

D'uno scudier tolta al cantor fu l'arpa;

E la popolosissima assemblea

Alzò lungo susurro, in cui sommesso

Plauso verso Aldiger mostravan molti,

Ma plauso da rispetto e da paura

Alternamente soffocato. I cuori

Più ad Ugonello e ad Aldiger propensi

Nuocer temeano maggiormente ad ambi,

Se quel plauso sciogliean.

Qui l'assennato

Imperador volle calmare il moto

Di quella moltitudine di menti,

Mostrando alma pacifica, e di novo

Sovra il trono s'assise, e chiese il canto

Delle arpatrici. Ognuno imitò il sire,

Dissimulando la imprudente scossa

Data ai pensieri dal gagliardo vate,

E dolcissima scese sugli spirti

Delle virginee voci insiem sonanti

La musica celeste. Ognun per altro,

Benchè temprato a palpiti più miti,

Volgendo la pupilla in sul monarca,

Contristar si sentìa; chè nell'augusta

Faccia, atteggiata indarno alla quïete,

Balenava recondito corruccio,

E l'occhio suo fulmineo esser parea

D'imminente rigor nuncio tremendo.

I più avveduti spettatori scritta

La morte vi scorgean del pro' Ugonello.

Ad Aldiger s'approssimò Romeo,

E - Che festi? gli disse sotto voce;

Che fia di te? Finta indulgenza è questa,

Che te impunito breve tempo lascia:

Libero uscirai tu di questa cinta?

E se pur libero esci, ove allo sdegno

Ti sottrarrai del rege? Oh potess'io

Trarti di qui!

Pietosa a lor d'intorno

Volea la folla schiudersi allo scampo

Del perigliante vate. - Uso alla fuga

Non son, disse Aldiger; se travïommi

Nell'impeto dell'estro il buon desìo,

Tal non è colpa che celarmi io debba,

E molta ho fè nel retto cor del sire.

Sebbene irremovibil dal suo loco,

Pur mesto era Aldiger, tardi mirando

Assai sciagure sovrastanti, e prima

L'accelerato d'Ugonel supplizio,

E rimordeagli coscïenza. - Io reo,

Secretamente a sè dicea, d'audace

Orgoglio fui; me ne punisce Iddio!

Dopo il virgineo insiem sonante accordo,

Palma Ottone degnò batter con palma,

E sorridendo già sorgea, bramoso

Di portar lunge da cotanti sguardi

Alfin l'arcana impazïenza. Il passo

Rafaella avanzò, novo tintinno

Assumendo sull'arpa, ed il cortese

Imperador si rifermò nel seggio,

Brevi credendo reverenti augurii

Dalla ispirata udir vergine illustre.

Rafaella tremanti avea le bianche

Mani sovra le corde, e uscìa tremante

Dal dolce petto il modulato suono,

E le guance arrossìano e di pallore

Si ricoprìano, e il grande occhio fulgente

Errava intimidito, e s'atterriva

Del re incontrando il formidato sguardo.

Quel gentil trepidar della fanciulla

Di tutte grazie adorna, intenerìa,

E maggiormente a lei tutti amicava.

Oh! prepotenza de' söavi incanti

Che la donna somigliano al bambino,

E pur la spargon di virtù nascosa

Che ratta vince ogni viril fortezza!

Oh! come l'uom, quell'apparente infanzia

Mirando in viso della donna, e in tutti

I morbidissimi atti di quell'ente,

Gli s'avvicina con fiducia, e ardisce

Dirsi maggiore, - ed a quell'ente quindi

Che sì debol parea, tributi solve

Di reverenza, e a sè maggior lo estima!

Per quel poter che nelle forme regna

E nella voce della donna, e astringe,

Le feroci, virili alme ad ossequio,

Dato alla donna è svolger ne' suoi detti

Mirabili ardimenti; ed ardimenti

Non sembran quasi, ma sospiri e preghi.

Chi rivelato avea tal maestrìa

Alla vergin de' cantici? Addolcisce

A sua voglia e fortifica. Ispirava

Pietà col suo tremor; poi quella voce

Dianzi timida tanto, e quell'aspetto

Sembran di cherubin conscio a sè stesso

Di grazia e d'autorevole potenza

Irresistibil. Ne stupisce Ottone,

Ma non puote adirarsene, e diletto

Anzi ne prova sommo. E Rafaella

Seppe scansar ne' generosi carmi

Quel periglioso, indefinibil punto

Di baldanza per ottimi consigli,

Che irritar puote qual pungente biasmo;

E non pertanto ella assai disse a laude

Della giustizia ne' regnanti, e disse

Necessarii gl'indugi, ove affrettata

Da esortatori fremebondi venga

Di talun la caduta. Ogni pensiero

Della bella arpatrice era incalzante

A virtù, ma siccome i detti blandi

Di madre, che a virtù sprona e accarezza

L'indociletto garzoncello, o come

I detti d'una figlia a piè del padre.

Quell'umiltà, quella dolcissim'arte,

Que' prorotti dal cor supplici versi

Vinser l'alma del grande Imperadore,

E gl'intenti ei capì di Rafaella.

Battè le regie palme, e alla percossa

Unissona fur segno, onde gli astanti

Baroni il plauso prolungàr sì forte,

Che ne tremaro il suolo e le colonne.

Otton chiamò la vergine, le cinse

L'eburneo collo di splendenti gemme,

E dal suol rïalzandola, degnossi

Dirle: - Qual grazia chiederesti? - Ed ella:

- Se t'offese Aldiger, deh! gli perdona,

E mite sii nelle condanne, o sire!

Cessò la festa, e pieno di söave

Commozïone era d'Otton lo spirto,

Ed all'intime stanze dei riposi

Riträendosi, disse al più fidato

De' cancellieri suoi: - M'avea lo schietto,

Ma severo Aldiger mosso a tal ira,

Ch'io divisava d'Ugonel la morte;

Pacato or sono, e indugierò.

Felice

Quel freno ai moti del rigor! felice

La sapïente vergine che a brame

Di verità togliea l'impeto scabro

Delle audaci parole, e ammorbidìa

Con abbondante carità i consigli!

Il sospendersi i fulmini, die' loco

A gravi scoprimenti: entrò discordia

Fra gl'inimici d'Ugonel; le accuse

Si contraddisser; la menzogna apparve;

Del Sassone Emerigo l'omicida

Fu manifesto e dato a morte; e colmo

Di gloria uscì del carcer suo Ugonello.

Fu grato all'Imperante il liberato

Ed alla vergin trovadrice; e vide

Ch'ella amava Aldigero, e che Aldigero

Per l'emula ne' carmi si struggea,

E fra i varii parenti accordo trasse,

E l'imen si compiè. Sorrise Ottone

Ai degni sposi, e a Rafaella disse:

- Temprato dal tuo pio genio celeste,

Il vigor d'Aldiger più non m'irrìta.

Nè da quel dì Romeo gl'impeti incauti

Non temè del figliuol: fatto era questi

Prode leon che a gentil maga è ligio.


 

 

 




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