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Silvio Pellico Poesie inedite IntraText CT - Lettura del testo |
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ILDEGARDE
CANTICA.
Anche l'Ildegarde è una di quelle cantiche ch'io aveva in lontani anni disegnate, e già era questa eseguita in gran parte, ed onorata degli amichevoli suffragi del nostro Monti e di Byron. Spariti quegli abbozzi con altre carte da me in dolorosa vicenda perdute, ho tentato dodici anni dappoi di ricomporre la stessa produzione, quantunque non ignaro che difficilmente in età provetta si ritrovano le felici ispirazioni della gioventù.
ILDEGARDE.
Pars bona mulier bona. (Eccle. c. 26, 3.)
- Perché alle torri del superbo Irnando Sempre drizzi lo sguardo, o mio Camillo? - Sposa, io molto l'amava; e in questi giorni Di nevose bufère, ognor la dolce Nostra infanzia mi torna alla memoria, Quando, arridenti il padre suo ed il mio, O di soppiatto noi dalle castella Usciti, incontravamci appo la riva Congelata del Pellice, e lung'ora Qua e là sdrucciolon ci vibravamo Ridendo e punzecchiandoci e luttando, E sul ghiaccio cadendo, e (bozzoluta Indi spesso la fronte o insanguinata) Tornando a casa lieti e tracotanti. Allora il padre suo, se all'un di noi Vedea della caduta in fronte il segno, Chiedevagli: «Hai tu pianto?» Ed il ferito Gridava: «No. o Ed a tal risposta il vecchio Lo prendea fra le braccia e lo baciava, L'amor lodando de' perigli e il gaio Scherno d'un mal, che sol le carni impiaga, E nulla può sull'anima del forte. Un dì, com'or, fioccava a larghe falde Di dicembre la neve, ed ambo agli occhi De' parenti sottrattici e de' servi Discendemmo ciascun nostra pendice, E ai cari ghiacci convenimmo. Assai Sdrucciolammo e ruzzammo, e le condense Pallottole durissime a diversa Meta lontana, in alto o pe' dirupi, Scagliammo a gara, acute urla di gioia Ripercosse da acuti echi levando. Men da stanchezza mossi che da fame Ci abbracciamo, e ciascun monta i suoi greppi Anelante alla cena. A quando a quando Ci volgevam guardandoci, ed allora Che, già molto remoti, un veder l'altro Più non potea, salutavamci ancora Con prolungati affettüosi strilli; E questi udìansi dalle due castella, E mia madre s'alzava, e tremebonda Al balcon della torre s'affacciava, Incerta se di gioco o di dolore Voci eran quelle. Ah! in voci di dolore Odo mutarsi quella sera infatti Le grida dell'amico: «Al lupo! al lupo!» Ripeteva egli disperato. Io sudo Di spavento, ciò udito, e immaginando Di quel caro il periglio. I clivi scendo Novamente precipite: il ghiacciato Pellice varco, e per gli opposti greppi Affannato m'arrampico ed appello: «Irnando mio! Irnando mio!» Salito Egli era sovra un olmo. Eccol veloce Scendere a me. Ma il lupo allontanato Ritorce il passo, e verso noi s'avventa. Ambo ascendiam sull'arbore, e costrettï Lunghissim'ora ivi restiam; chè intorno Incessante giravasi la fiera. Oh come su quell'olmo il dolce amico Teneramente mi stringea al suo seno, Il mio ardir rampognandomi! Ei dicea Aver alto gridato «Al lupo! al lupo!» Per la speranza ch'io vieppiù fuggissi, E tristo incontro pari al suo scansassi. «E tu invece, oh insensato! ei ripetea Vanamente arrischiasti i cari giorni Per aïtar l'amico, o coll'amico Preda morir di quelle orrende zanne!» Ciò dicendo ei piangeva, ed io piangeva Suoi cari lacrimosi occhi baciando, E tal commozïone era profonda, Delizïosa per entrambe! oh come Sentivamo d'amarci! oh quanto vere Sonavan le proteste, asseverando Che l'un per l'altro volontier la vita Donata avrìa! - Dall'olmo alfin veggiamo Scender di qua e di là dalle pendici Fiaccole ardenti. Eran d'Irnando il padre Ed il mio che venìan, co' loro servi, Degli smarriti figliuoletti in cerca. Sgombrava il lupo a quella vista; e noi Dall'arbore ospital lieti calammo, E saltellanti sulla neve, incontro Movemmo ai genitor, con infinito Cinguettìo raccontando, io la paura Ch'ebbi di perder l'adorato amico, Egli la mia temerità e la prova Che in questa aveavi di gagliardo amore. Oh qual sera di gaudio! oh quanta lode Al fratellevol nostro affetto i duo Parenti davan! Come altero Irnando Mostravasi di me! Com'io di lui! - Di nostra püerizia i dolci giorni Da mille vicenduole ivan cosparsi, Che all'uno e all'altro certa fean la mutua E generosa fede! E così stretto Vincol di due schiettissim'alme... il tempo Dovea spezzarlo! In questa guisa geme Il cavalier Camillo. Ed Ildegarde Dalle corvine chiome e dalla svelta, Maestosa statura: - O sposo amato, Perdona, prego, al mio pensier; non colpa Fu in te forse d'orgoglio! Hai tu alcun passo Nobilmente tentato al benedetto Dagli Angioli e da Dio pacificarvi? - Di nostre nozze intera anco non volge La luna, o mia diletta, e mal conosci Del tuo Camillo il cor. Non di rossore Perciò si tinga il tuo bel volto, o donna: Garrir, no, non ti voglio: imparerai Col tempo qual possanza in questo core Abbian gli affetti. Se tentai? Se dieci Volte l'orgoglio mio non s'immolava Per racquistarmi quell'amico? Indarno Ei più non è quello di pria: uno spirto Di maligna superbia il signoreggia: Ei (tu vedi s'io fremo a questo detto!) Ei mi dispregia! - L'arrossita dianzi Ildegarde a tai detti impallidiva, Mostrüoso sembrandole il destarsi Dispregio in chi che sia verso un mortale Sì per cavallereschi atti famoso, Qual era il pio Camillo. E l'abbracciava Vibrando sguardi or con gentil disdegno Alla torre d'Irnando, or con desìo Passïonato al caro sposo. E sguardi Tai gli dicean: «S'altri spregiarti ardisce, La stima ten compensi in ch'io ti tengo.» Qual della inimistà la cagion fosse De' duo generosissimi, in diversi Inni diversamente i trovadori Cantan d'Italia. Applaudon gli uni a Irnando, Che, ito in Lamagna giovinetto, ad uno De' contendenti re sacrò il suo ferro; Altri a Camillo applaudon, che s'accese Pel secondo aspirante al real trono, Ma aspirante illegittimo. Speraro Camillo e Irnando un l'altro süadersi All'abbracciata parte. E l'un de' duo, Non si sa qual, trascorse a villanìa. Furor di fazïon trasse dapprima Questo e quello davvero a stimar vile Il già sì caro amico. Assai palese Delle avversarie crude ire sembrava L'iniquità ad Irnando: ei non potea Creder che onesto intento in alcun fosse, Il qual per esse parteggiasse. Al pari A Camillo parea dell'altra causa Evidente l'infamia essere al mondo. In qualunque dei duo fallisse primo La carità di confratello, e germe Altro o no di rancor vi si aggiungesse, Furon veduti inferocir nel campo Come leoni. Ma l'atroce guerra E l'alterna fortuna delle insegne Loco porgean a esercitar da entrambe Parti eccelse virtù. Cento fïate Camillo e Irnando, ad ammirarsi astretti, Dicean ciascun tra sè: «L'amico mio, Sebben malvagio, egli è un eroe pur sempre!» Già quegli anni di sangue or son passati; Già molte spente sono illusïoni Nelle agitate lor menti guerriere, Benchè in età ancor verde. Eppur concordia Lor generose palme, ahi! non rinserra. Beato d'una sposa era anche Irnando, E questa il dolce avea nome d'Elina, E di più figli era già madre. Il cielo Dato le ha cor fervente, ed intelletto Gentil, ma entusïastico. Natìe Le pedemontanine aure in che vive A lei non son; romano è sangue; e il padre D'Elina, de' ribelli ognor nemico, Morì con gloria in campo. Ella supporre Non potria mai che Irnando ingiustamente Odio porti a Camillo. A lei Camillo Noto non è, ma sel figura indegno, Irreconcilïabile, covante Sempre perfidie. E motto mai non dice Per calmare il marito allor che l'ode Fremer contra il vicin. Folli stranezze Del core umano! Irnando, ancorchè fiero Più di Camillo, e a malignar proclive, Più bei momenti non avea di quelli, In che, pensando alla sua dolce infanzia, Questo o quel nobil detto o nobil atto Del caro, oggi abborrito, ei ricordava. In quei momenti (e rivenian di spesso) L'alma gli sorrideva, immaginando Quando ad entrambo tornerìa dolcezza Esser amici ancor: ma appena accorto Di questo desiderio, ei ripigliava A esacerbarsi, a biasimar sè stesso Di soverchia indulgenza, ed intimarsi Perseveranza d'astio e di disprezzo. Vedute in tanti cavalieri avea Mutazïoni di principii abbiette! Gli uni servi al buon prence, indi congiunti Perfidamente all'avversario suo; Gli altri farsi un Iddio del tracotante Contenditore al trono, e poi, caduta La sua potenza, irriderlo. E di tali Apostasie si repetea sovente La turpe inverecondia. E le più altere Alme se ne sdegnavano, e temendo Apostate parer, persistean truci Ne' giurati decreti, ove decreti Sconsigliati pur fossero. Ogni volta Che Irnando dalle sue balze rimira Il castel di Camillo, e rivolgendo Va quanto spesso col diletto amico In quelle sale, a quel verron, su quelle Mura, per quel pendìo, sovra quell'erto Ciglione, in quella valle, avea di santi Affanni e santi gaudii conversato, Di repente corrucciasi, e la fronte Colla palma fregando, a sè ridice: «Via quelle stolte rimembranze! obbrobrio L'onorar d'un sospiro i dì bugiardi, Che amabil tanto mi pingean quel tristo!» Men concitato da alterigia, avea Camillo a dame ed a baroni ufficio Pacifero richiesto. E quelle e questi Sordo trovaro a lor parole Irnando. Ma alla dolce Ildegarde or molto incresce Questa fera discordia; ognor paventa Che i fremebondi prorompano a guerra. - Freddi interceditori, o sposo mio, Forse fur quelle dame e que' baroni Di cui mi narri. Di te degno oh come Stato sarebbe il presentar te stesso Con amabil fidanza e quell'iroso! - Che parli, o donna? Io, non colpevol, io Codardamente supplice a' suoi piedi! - Codardìa consigliarti, o mio diletto, Potrebbe mai la sposa tua? Dinanzi A lui, supplice no, ma con onesta Securtà mosso io ti vorrei. Da quanto Pinger mi suoli di quel prode offeso, Incapace ci sarìa di fare ingiuria A chi chiedesse entro sue torri ospizio. - Se il pio consiglio accolga, esita alcuni Giorni Camillo; indi alla sposa: - O amica, A tanto, no, non posso umilïarmi; Ma non perciò mi ristarò da speme Di pacificamento. Un messaggero Mai non mandai direttamente ancora Con parole d'onore all'orgoglioso. Forse gli estranei intercessori sdegna, Ma vedendo a sè innanzi un mio scudiero, E amici detti per mia parte udendo, Commoverassi, e non vorrà esser meno Generoso di me. - Compie Camillo La divisata prova. Indi attendea Il ritorno del messo, e d'una sala Passava in altra irrequïeto, e indugio Soverchio gli sembrava. - Il furibondo Sdegnasse dare all'invïato ascolto? O frodoloso intento, o vil lusinga D'animo impaurito ei sospettasse, E rispondesse coll'atroce insulto Di vïolar con carcere o con morte La sacra testa dell'araldo mio? Fellon! Guai se ciò fosse! A molta scese Mansuëtudin questo cor; ma un cenno, E rïascender lo vedresti ad odio Maggior del tuo, più spaventoso, eterno! Che dico? Bassa villania in quell'alma Inebbrïata da gigante orgoglio Non può capir. Abbietto spirto io sono Che immaginar sì turpe fatto ardisco. Intenerito si sarà; lung'ora Colmerà di dolcissime domande E d'onoranza il mio scudier; seguirlo Qui vorrà forse, o rattenuto or fia Da momentanee cure. A mezzo solo Esser seppi magnanimo. Io medesmo, Come la donna mia mi consigliava Io, non un messo, a lui mover dovea. Oh! alla mia vista uopo ad Irnando certo Stato non foran più parole; in braccio Gettato a me sariasi, e senza vane Spiegazïoni, e dolorose, entrambo Rïappellati ci saremmo amici. Così tra sè il bramoso. Ed evitava, Per nasconderle il suo perturbamento, Della diletta sposa il dolce incontro. Ei cammina a gran passi; o nella sedia Breve momento s'agita, e risorge Tosto con ansia ad amor mista e ad ira, Or all'una effacciandosi, or all'altra Delle fenestre, or fuor della ferrata Negra sua porta uscendo, e non badando Al can che gli si appressa, e rispettoso Scuote la coda, e abbassa il ceffo, e spera Dalla man signorile esser palpato. Dai merli del terrazzo alfin gli sembra Lo scudier ravvisare. È desso, è desso. Al cavalier rimescolasi il sangue, E contener non puossi. Il ponte varca, Discende in fretta la pendice; incontro Al vegnente lo stimola sfrenata Smania d'udir. - Perchè sì tardo movi? Gridagli. - I passi addoppia il fido, e parla: - Signor del tuo nemico entro la soglia Appena addotto io fui... Camillo udendo Suo nemico nomarlo, impallidisce: E l'altro segue: - Appena addotto io fui, I sensi tuoi gli esposi. - In quali accenti? - Quali a me li dettasti. Oh cavaliero! Dissigli, il signor mio, dopo ondeggiante Con sè stesso luttar, cede al bisogno Di ricordarti sua amistà, di sciorre, Per quanto è in lui, quel gel, che rie vicende Frapposto aveano fra il suo core e il tuo. Io proseguir volea. Rise il superbo Amaramente, ed esclamò: Non gelo, Ma orrendo sangue è fra i due cor frapposto! - Proseguii nondimen, tuoi decorosi Sensi esponendo. A' primi istanti vinto Da prepotente anelito parea, Sebbene al riso s'atteggiasse ognora, Ed ostentasse di vibrarmi i guardi Della minaccia e del dispregio. Ei detti Di maggiore umiltà dal labbro mio Certo aspettava. Non trascesi: umìle, Ma dignitosa serbai fronte e voce; Ed ei sognò ch'io lo schernissi. Audaci Son tue pupille, o giovine! proruppe; Abbassale! - Non già! Timor non sente, Risposi, di Camillo un messaggero. - Mandotti il temerario ad insultarmi? Riprese urlando, a far vigliacca prova Della mia pazïenza? A tentar s'io Contaminar vo' mia illibata fama, Tua vil pelle col mio ferro toccando, O alle fruste segnandola? Va, stolto Incettator di vituperi e busse; Riporta al signor tuo, ch'uom che si pente De' tradimenti suoi, ch'uom che desìa L'amistà racquistar d'un generoso, Con ambagi non parla, e schiettamente Dice: Il cammin ch'io tenni era turpezza. A sì indegne parole arsi di sdegno Per l'onor tuo. Via di turpezza mai Non calcherà, mai non calcò il mio sire! Gridai. Ruppe il mio grido, e con un fiume Di fulminea infrenabile eloquenza, Tutta rammemorò la sciagurata Storia del trono combattuto. E questa Fu una trama, al dir suo, d'illustri iniqui Striscianti a piè del volgo, e lordamente Convenuti d'illuderlo e spogliarlo. E tu.... fremo in ridirlo. - Io? Segui. - Un vile Patteggiator di condivisa infamia, E condivisi lucri. - Ei ciò non disse! Ei ciò non disse! - Il giuro. - E non troncasti La scellerata voce entro sua gola? - La troncai svergognandolo. E costretto Fu ad arrossire e replicar: Non dico Ch'ei fosse, ma parea di condivisi Lucri patteggiatore, e per lavarsi Di macchia tal non bastano le ambagi. Solennemente si ricreda, e provi Che insensato, ma mondo era il suo core; Provi ch'egli esecrato ha le perfidie De' nemici del re; ch'egli esecrato Ha l'opre inique ond'or l'impero è afflitto! Viltà sembrato mi sarìa modesti Accenti opporre ad arroganza tanta. Tel confesso, signor: ciò che gli dissi Appena il so. Non l'insultai, ma cose Di foco, certo, mi piovean dal labbro Contro a' denigratori; e di te laude Tal gli tessei, che fu colpito e plause. Va, buon servo, mi disse; amo il tuo ardire, ma non del tuo signor la ipocrisia. - Oh ciel! diss'egli ipocrisia? Ingannato Non t'han le orecchie tue? - Disselo, il giuro. - A queste voci il cavalier si torse Rabbïoso le mani, e con un misto Di voluttà e di fremito, in più pezzi Franse un anel, che dono era d'Irnando, Ed a' caduti pezzi impallidendo Il piede impose, e li calcò nel fango. - È finito! proruppe. - Ed iracondo Lagrimava, nè udia del messaggero Parola più, nè rispondeagli. A guerra Precipitato contra Irnando ei fora; Ma nol permise il ciel. D'una sorella Alla difesa mover dee Camillo, La qual di Monferrato all'erme balze Co' pargoletti suoi vedova geme, Da illustri masnadieri assedïata. Solinga intanto ecco Ildegarde. E voti Per la salute dello sposo alzando, E per la sua vittoria, e pel ritorno, Pur trema che allorquando ei dalle pugne Rieda di Monferrato, incontro al sire Del vicino castel rompa la guerra. Un dì mirando quel castel, le cade Nell'animo un pensiero; - E s'io medesma Colà traessi, e mia nobil fidanza Vincesse il cor della romana altera E del truce baron? - V'ha certi miti Senni, e tal era d'Ildegarde il senno, Che pur sono arditissimi, e formato Gentil proposto, se pur arduo ei paia, Tentennan poco, ed oprano. Tranquilla Il seguente mattin, poichè alla messa Nel delubro domestico ha innalzato Il femminil suo spirto appo lo Spirto Che regge i mondi e agli atomi dà forza, Ildegarde s'avvia sovra il suo bianco Palafreno seduta. A lei corteggio Sono una damigella e due famigli. Quand'ella giunse a' piè dell'alte mura Del castello d'Irnando, un momentaneo Palpitamento presela, e memoria Di perfidie tornolle, ahi troppo allora Frequenti fra baroni! e pensò quale Disperato dolor fora a Camillo, Se il visitato sire oggi smentisse, Brïaco d'odio, il vanto invïolato Che di leal s'ebbe sinora! Il guardo Volse alla damigella; e impallidita Era al par d'essa. Il guardo volse ai duo Famigli, e impalliditi erano, e osaro Interroganti dir: - Retrocediamo? - Stolti! diss'ella; e rise, ed innoltrossi. Intanto del castello in ampia sala La romana bellissima traea Dalla ricca di gemme ed indorata Conocchia il molle lino, e fra le punte Di due candide dita lo umidiva; Indi con grazia angelica all'eburneo Fuso il pizzico dava, e con accento, Che a labbra subalpine il ciel ricusa, Cavalleresche melodie cantava. Belli come la madre accanto a Elina Sedeano un bimbo ed una bimba, a lei Innamoratamente le pupille, Da negre e lunghe palpebre ombreggiate, Alzando vispe, e ogni ultima parola Della strofa materna ripetendo Con cantilena armonïosa d'eco. Ed a quest'eco s'aggiungea la grave Voce del padre lor, che per la caccia Un arco preparava, e spesso l'arco Ponea in obblìo, l'affascinante donna Mirando e i figli, ed i lor canti udendo. Portavan l'aure il suon del fervid'inno D'Ildegarde all'orecchio. Ella scendea Dell'arcione, ed a' paggi sorridente, Ma con trepido cor, dicea il suo nome. Qual fu d'Irnando la sorpresa! Ascolto E onore a dama diniegò egli mai? Qual pur siasi Ildegarde, ei le va incontro Con reverente cortesia, e l'adduce Innanzi a Elina. Alzasi questa, e posa L'aurea conocchia, e di seder le accenna. - Vicina mia gentil (prende Ildegarde Così a parlar), da lungo tempo agogno Veder tuo dolce volto, e palesarti Un mio desìo. - Qual? le dimanda Elina. - D'ottener tua amistà, di consolarmi Teco de' miei dolori. - E che? Infelice Sei tu? Come?... E nel troppo accelerato Immaginar, già Elina e il cavaliero Presumon ch'ella fugga il ritornante Camillo forse, ch'a lor occhi un mostro Verso tant'altri, un mostro esser dee pure Verso la sciagurata a lui consorte. Ad Ildegarde appressansi amendue, Ed Irnando le dice: - Il ferro mio Non fallirà, s'hai di mestier difesa. Ma oh stupor! La soave, in altro modo Che non credean, prosegue: - Il sol non vede Donna di me più dal suo sposo amata, O buona Elina, e anch'io, quando al castello È il mio signore, ed io filo cantando, Spesso il miro al mio fianco, ed accompagna La mia colla sua voce; e molte volte Abbaian nel cortile i guinzagliati Cani pronti alla caccia, ed alla caccia Propizio è l'aer di levi nubi sparso, Ed ei pur meco stassi, ed al cignale Fino al seguente dì tregua consente. Ignoto ad ambo è il tedio, o se noi colse Alcuna volta, mai non fu quand'uno All'altro amato cor battea vicino. Ed oh a qual segno in esso, in me, di nostra Solinga vila crescerà l'incanto, Allor che a noi (se il ciel pietoso arrida Alla dolce speranza!) uno o più figli, Siccome questi, fioriranno a lato! S'interrompe Ildegarde, e per gentile Impeto d'amorosa alma commossa, O per arte gentile, o per un misto D'impeto ed arte, i due bambin si prende, Uno a destra uno a manca, e li accarezza Con baci alterni e voluttà di madre, Sì che la madre vera e il genitore Inteneriti esultano, e amicati Tanto per lei vieppiù si senton, quanto A' pargoletti lor vieppiù è cortese. - Oh come a te in bellezza, o mia vicina, Questa bimba somiglia! E ciò Ildegarde Dicendo, preme lungamente il labbro Sovra la rosea guancia paffutella Della cara angioletta, e la baciucchia. Poscia gitta la mano amabilmente Sulle ricciute chiome del fanciullo, E qua e là le palpa, indi pel ciuffo A sè lo trae, e, baciatolo, gli dice: - Sai tu che appunto sei, qual mi fu pinto Da fedel dipintore, il padre tuo Ne' suoi giorni d'infanzia? Inanellato Il fulvo crin, larga la fronte, arditi E amorevoli gli occhi... E questi detti Pronunciando Ildegarde, involontaria O accorta, alzava paventoso un guardo Sul cavaliero. Ed ei si perturbava Ricordando Camillo. Allor la pia Ambagi più non volve; e con candore Dice quanta cagion siale di tristo Rincrescimento il dissentir d'Irnando E di Camillo. - O degna Elina! ov'anco D'uno dei duo per indomato orgoglio Quella discordia non cessasse, amiche Esser non possiam noi? Commiserarci Non possiam noi di questa ria fortuna, Ed amar nostri sposi, e niun furore Lor condivider che sia oltraggio al dritto? Dall'anima d'Elina un «sì!» prorompe, E si stringono al seno. Irnando balza Rapito a quella vista, a quegli accenti, E vorrìa discolparsi; ad Ildegarde Vorrìa provar nessuna esso aver colpa Nell'odio sorto fra Camillo e lui. Strano mortal! mentr'ei d'inenarrati Spregi e d'ingratitudine a Camillo Accusa vibra, il corruccioso lagno Con cui ne parla, non par quel dell'odio, Ma d'un amor geloso. Ei non perdona All'uom ch'ei tanto amava, essersi fatto Un idol d'altra gente! aver potuto Per nemici obblïar sì sviscerato Fratel, qual gli era dall'infanzia Irnando. Ciò non isfugge all'ospite avveduta, E con lenta eloquenza insinüante, Che più e più le udenti anime scuote, Pinge in Camillo a que' trascorsi tempi Un fautor generoso (errante forse, Ma generoso) d'abbagliante insegna, E che a virtù immolar tutto credea, Fin le dolcezze d'amistà più care. E come pur tal amistà in Camillo Vivesse, ella soggiugne, e come i giorni Sospirass'egli della pace, in cui, Placato Irnando, il rïamasse ancora. Dice inoltre com'ei, reduce all'onde Del Pellice natìo, concilïarsi Con Irnando agognava, e si valea D'intercessori invan; come ad Irnando Mandò il proprio scudiero, e fu respinto. Dice gli sguardi mesti e affascinati Di Camillo al castel del primo amico, E a quell'arbore e a questa, e a quel vallone Ed a quel poggio, e del torrente ai flutti Ove insieme natavano, ed ai ghiacci Ove lungh'ore sdrucciolon vibravansi, Ridendo e punzecchiandosi e luttando, E sui ghiacci cadendo, e (bozzoluta Indi spesso la fronte o insanguinata) Tornando a casa lieti e tracotanti. - Oh che facesti, sposo mio? prorompe La fervida Romana; un altro, un altro T'eri foggiato e l'abborrivi. Io pure, Qual lo foggiavi, l'abborrìa; ma il mostro Che innanzi agli alterati occhi ci stava, No, non era quel pio, cui sì dilette Son dell'infanzia le memorie tutte, Cui tu sempre sei caro, e che sì caro Ad Ildegarde non sarìa, se iniquo. - Sarebbe ver? balbetta Irnando; e il ciglio Gli si rïempie di söave pianto. Ei m'amerebbe ancora? Ei non per beffe A me mandò que' freddi intercessori Che sì mal peroravano, e quel troppo Zelante messagger che m'inaspriva Col suo ardimento? E ch'altro volli io mai Ch'esser amato da colui ch'io amava? D'odiarlo io giurava, e non potea! Ma e se la tua benignità, Ildegarde, Ti traesse in error! S'ei mentre alcuna Rammemoranza di me pia conserva, E quasi m'ama nel passato ancora, Pur qual son m'esecrasse, ed appellarmi Collegato di vili anco s'ardisse? Se sconsigliati egli dicesse i passi Che al mio castello hai mossi, e dall'irato Cor prorompesse: «Amar non posso, Irnando! Amarlo più non posso!» I dolorosi Dubbii vieppiù son da Ildegarde sgombri, Col ricordar sull'amicizia antica Questo o quel detto di Camillo. - Io dunque Era il superbo! esclama il cavaliero: Espïar debbo mia ingiustizia. In guerra Lunge da me l'amico mio periglia; Ad aïtarlo di mie lance io volo. E i suoi fidi raguna, ed abbracciate La palpitante Elina ed Ildegarde E i pargoletti, in sella monta e parte. Per molti dì le due vicine a gara Si consolavan, si pascean di speme, E alterne visitavansi, aspettando De' baroni il ritorno, o messaggero Che di lor favellasse. Ascondon ambe Il lor perturbamento, e sol ciascuna, Quando al proprio castel siede romita, Numera i giorni ed angosciata piange. Quella dicendo: «Oh non avess'io mai Conosciuto Ildegarde! Ella funesta Forse è cagion che il mio signore è spento!» L'altra a Dio ripetendo: «Il mio Camillo Salva, e s'a me rapirlo è tuo decreto, Deh ch'io presto lo segua, e per mia causa Vedova Elina ed orfani i suoi figli Ah no, non restin!» Cede alla possanza Del suo rammarco alfin l'inconsolata Moglie d'Irnando, ed una sera asceso Il solito cíglion con Ildegarde, Donde vedeasi per più lunga tratta La polverosa via, nè comparendo I cavalieri, o messo alcun, prorompe Abbracciando i figliuoli in disperato Pianto, e respinge dell'amica il bacio. - Va, sciagurata, lasciami; a' miei figli Rapisti il genitore! A me rapisti Colui che tutto era al cor mio! Colui, Pel qual degli avi miei la dolce terra Senza cordoglio abbandonata avea! Viver senz'esso non poss'io: qual sorte A queste derelitte creature Verrà serbata, dacchè al padre i ferri Tolgon la vita, ed alla madre il lutto? Voler, voler del cielo era d'Irnando L'inimistà pel tuo fatal consorte! Maledetto l'istante in che, ispirata Da infernal consiglier, lieta movevi A mia ruina! Maledetto il nome Di suora che ti diedi! - Al furibondo Grido geme Ildegarde, e invan desìa Trovar parole per placar l'afflitta; Invan gli amplessi iterar tenta. Ognora Più duramente rigettata e carca Di rimbrotti amarissimi, il cordoglio Rispetta dell'amica, e ridiscende Dietro a lei mestamente la collina, D'ancella a guisa che garrita piange, E risponder non osa. A quando a quando Si sofferma Ildegarde, e confidata Tende l'orecchio e nella valle mira, Che voci udir le sembra; e quelle voci, Ahi! manda il villanel, che dagli arati Campi co' buoi ritorna, ed a lui cara Son compagnia l'antica madre, curva Sotto il fascio dell'erbe, e la robusta Moglie, peso maggior di rudi sterpi Con elegante alacrità portando. Ne' dì seguenti, al consüeto poggio Le due donne riedean, ma fremebonda Sempre era Elina, e, tramontato il sole, Moveva a casa delirante d'ira E di dolore; ognor vituperata Ma affettüosa la seguìa Ildegarde. Odon lontane grida, e nella valle, Come all'usato i guardi avidamente Con palpiti d'amor gettano entrambe E di speranza e di paura. Il cane Drizza i villosi orecchi, ed un acuto Insolito latrato alza, e si scaglia Giù per la praterìa precipitoso, Folte siepi saltando ed ardui fossi E scoscesi macigni. E ad intervalli Sparisce e ricompare, e tace, e abbaia, Nè mai s'arresta. - E sarà ver? Son dessi, Son dessi certo! Esclamano a vicenda Con ebbrezza febbril le desïose. Ma se alle lance reduci or mancasse Uno de' capitani, od ambo forse? Oh spaventoso dubbio! Oh sventurate! Chi ne assecura? Sì dicendo, il passo Raddoppiano affannate. Al piano giunte, Odon le scalpitanti ugne veloci D'uno o duo corridori: ah fosser duo! Fosser de' duo baroni i corridori! Scerner gli oggetti mal lasciava un denso Nembo di polve. Ah sì! Lor lance appunto Camillo e Irnando precedean, con ansia Di riveder le dolci spose. Oh gioia! Oh certezza felice! Il lor saluto Suona per l'aer, ben son lor voci queste. Eccoli; balzan dall'arcione. Oh amplessi! Oh istante indescrittibile! E il consorte, Poichè ciascuna ha stretto al seno, e assai L'ha coperto di lagrime e di baci, Ciascuna dell'amica infra le braccia Gittasi giubilando. - Il dolor mio Aspra mi fea: perdonami Ildegarde. E Ildegarde alla suora il detto tronca, Ponendo bocca sovra bocca, ed ambe Pur di lagrime bagnansi. I fanciulli Preso frattanto ha fra le braccia Irnando, E accarezzato li accarezza, e gode Porgendoli a Camillo, e di Camillo La nova tenerezza rimirando. Mentre ascendono il colle, evvi un bisbiglio, Un esclamar, un alternarsi accenti Di cortesia e d'amore, un romper folle In pianto e in riso, un mescolar dimande E risposte e racconti, e i cominciati Detti obblïar per detti altri frapporre, Che niun di lor cosa veruna intende. Nel castello d'Irnando entrano. E assisi Nella gran sala - e da donzelle e fanti Portate l'ampie coppe - e zampillato Fuor de' fiaschi ospitali il ribollente Dal roseo spumeggiar bel nibbïolo - E del giocondo brindisi i sonanti Tocchi osservati - e roborato il core - Allor le maschie voci alzano a gara I baroni, e ripigliano il racconto In più seguìta, intelligibil foggia: - Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde, Te in così tempestiva ora spingendo A rannodar fra Irnando e me l'amato Vincol che stoltamente io franto avea! - Così Camillo, e l'interrompe l'altro: Io lo stolto! Io il feroce! - E quei la mano Sovra il labbro gli pon rïassumendo: - Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde! Perduto er'io, se redentrice possa D'amistà non venìa. L'assedïante Ladron dapprima sbaragliai, ma il tristo Novella frotta ragunò. Me chiuso Nel castel della suora, egli ogni giorno Schernìa e sfidava. Io sul fellone indarno Prorompeva ogni giorno: ahimè! gli sforzi Del valor mio nulla potean su tanto Nover crescente di nemici. A noi Già le biade fallìan, già fallìan l'armi, E già il cessar d'ogni speranza e il cruccio Rabido della fame a' guerrier nostri Consigliavan rivolta ed abbandono. Universal divenne voce alfine: «Arrendiamci!! arrendiamci!» Il masnadiero Promettea vita a ognun fuorchè a mia suora E a' suoi figliuoli e a me. Tra minaccioso E supplicante, io i perfidi arringava, Che della rocca aprir volean le porte: - «Sino a dimane il tradimento, o iniqui, Sino a dimane sospendete!» Un resto Di pietà e di rispetto, al grido mio, Rïentrò in cor de' più. «Sino a dimane! Sclamarono, e se Dio pria dell'aurora Portenti oprato non avrà a tuo scampo, Lo scampo nostro procacciar n'è forza.» Oh spaventosa notte! Oh fugaci ore! Oh come orrenda cosa eraci il suono Del bronzo che segnavale! Oh angosciato Appressarsi dell'alba! Oh sbigottiti Muti sembianti della mia sorella E de' suoi pargoletti! Oh contrastante Dignità di parole in prepararci A' vicini supplizi! Ed oh com'io Tra me dicea: «Deh! che non seppi amico Tutta la vita conservarmi Irnando? - Improvviso frastuono udiam levarsi Fuor delle mura. Che sarà? Oh prodigio! Una pugna! E con chi? - «La man di Dio! La man di Dio!» gridan mie turbe: a terra Mi si prostran pentite, il giuramento Di fedeltà rinnovano; a gagliarda Sortita le süado, ed infinito Macel lung'ora de' nemici è fatto. Qui il narrar di Camillo Irnando tronca: - Ah! s'impeto cotanto, e se cotanta Prodezza ad ammirar non m'astringevi, Me gli assaliti sconfiggeano! In fuga Eran molti de' miei, già in fuga io stesso Omai volgeami disperato: i colpi Tuoi scomposer l'esercito inimico, E di salvezza io debitor t'andai! - S'avvicendan la lode i cavalieri, L'uno dell'altro memorando i fatti. Alfine Elina sclama: - Ad Ildegarde Spettan tutte le lodi! Innanzi a lei Prostratevi, e la sua destra baciate. - E i cavalieri prostratisi, e la destra Baciano d'Ildegarde, e penitenza Le chieggon del furente odio passato; Ed ella in penitenza un'annua festa Intima in questo e in quel castel, che festa Dell'amistà si chiami, e dove uficio De' vati sia cantar quanti sospetti Calunnïosi partorisce l'ira, E quanto l'ira accrescano le ambagi De' falsi intercessori, e quanto egregia Sappia interceditrice esser la donna. - E da me, per mia ingiusta ira, qual vuoi Penitenza? soggiugne in umil atto Palma a palma accostando, ed il ginocchio Piegando Elina. - Ed Ildegarde: - Il primo Figlio, o diletta, che ti nasca, il nome Porti del mio Camillo; e mi sia dato, Se figli avrò, chiamarli Irnando o Elina.
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