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Silvio Pellico
Poesie inedite

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  • VOLUME SECONDO.
    • I SALUZZESI.
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I SALUZZESI.

 

Cantica.

 

L'amore che porto a Saluzzo, mia città nativa, m'ha indotto a cantare un fatto luttuosissimo, che trovasi ne' suoi annali, al secolo XIV. Il Marchesato di Saluzzo era di qualche importanza a quei tempi, e la vicenda di cui parlo si collegava colle passioni che ferveano per tutta Italia.

Nel 1336 Tommaso II succedette al padre nella signorìa di Saluzzo, ma gli fu contrastato il seggio da Manfredo suo zio. Tommaso avea per moglie Riccarda Visconti di Milano, ed era quindi uno de' Principi ghibellini, ai quali i Visconti erano capo, tutte le speranze della parte ghibellina appoggiandosi a quel tempo sovra Azzo fratello di Riccarda di Saluzzo, e poscia sovra Luchino Visconti, loro zio.

Manfredo si professò guelfo per avere la protezione del potentissimo capo de' guelfi, Roberto Re di Napoli, della casa d'Angiò. Era questi un ragguardevole monarca per ingegno e per possedimenti.* *Oltre al suo regno ed alla contea di Provenza, suo avito dominio, gli appartenevano, per diritti veri o dubbii, parecchie signorìe qua a là in tutta la lunghezza della penisola. Roma e Firenze lo riconoscevano per protettore. Sventolava la sua bandiera sopra molte castella delle terre Lombarde, Monferrine, Astigiane, Piemontesi. A lui obbedivano Savigliano, Fossano, Cuneo ec. Non conduceva eserciti egli medesimo, e teneva, tutti quei disseminati dominii con masnade Provenzali, Napoletane o d'altre razze, sotto al comando di valorosi baroni, i quali, governando ciascuno a modo suo, mal sapeano affezionare le genti al loro sovrano. Voleva Roberto far cadere la potenza ghibellina de' Visconti, e domare tutti gli Stati Italiani; ma non essendo egli d'indole guerriera, operava con lentezza, e non conseguì mai l'ardito proposto. Guelfi e ghibellini si vantavano a vicenda d'essere i veri amanti della nazione, i veri fautori della civiltà, della giustizia, della causa di Dio; ed intanto mal si sarebbe distinto da qual lato fossero più errori e più colpe, benchè in tali tenebre pur lampeggiassero alcune alte virtù. L'età era cavalieresca e religiosa, con elementi di gelosie repubblicane. Tutto ciò è sommamente poetico.

A que' giorni viveano con immensa fama di dottrina Petrarca e Boccaccio, ed altri uomini sommi; ed il re Roberto ed i Visconti si gloriavano d'averli ad amici. Siccome il Marchesato di Saluzzo attraeva gli occhi della corte di Napoli, non è maraviglia che il Boccaccio abbia dato luogo fra le sue più nobili novelle alla Saluzzese Griselda.

Mentre quella splendida corte era modello di gentilezza, le schiere di Roberto, capitanate dal siniscalco Bertrando del Balzo, provenzale, e congiunte con altre armi, proruppero ne' nostri paesi per sostenere i pretesi diritti di Manfredo, empierono di rubamenti e di carnificine la contrada, espugnarono ed incendiarono Saluzzo, presero prigione il marchese Tommaso co' suoi figliuoli, gareggiarono con Manfredo a commettere ogni barbarie, e così in breve disingannarono coloro fra i prodi Saluzzesi che avevano sognato in Roberto un semidio, e ne' suoi guelfi altri semidei, chiamati ad abolire le antiche ingiustizie, ed a stabilire in Italia il secolo della sapienza e della rettitudine.

Ottenne Tommaso per riscatto la libertà, e trovando che Manfredo e tutti i guelfi erano esecrati, si volse ad adunare nuova oste di ghibellini, v'aggiunse uno stuolo assoldato di lance straniere, ma ben disciplinate, guerreggiò e vinse. Il tiranno Manfredo e i suoi alleati furono espulsi.

Questi avvenimenti di Saluzzo sono il soggetto della mia Cantica. Tratta di essi con assai numero di rilevanti particolarità la storia di Saluzzo di Delfino Muletti, e di Carlo suo figlio; ed ivi leggesi pubblicato la prima volta da esso Carlo uno scritto, in cui il cominciamento di quella guerra e delle crudeltà di Manfredo è dipinto con forza da autore di quel secolo, stato anzi egli medesimo testimonio della distruzione del luogo nativo. Quello scritto intitolato Calamitas calamitatum, Commentariolum Iohannis Iacobi de Fia, rivela nell'uomo che lo dettava una mente colta e generosa. Ei dimandava al cielo, e presagiva la caduta degl'invasori. - (Ploremus ergo coram Deo, poeniteat nos iniquitatum nostrarum, et a praesenti calamitate calamitatum maxima liberi facti erimus).

La cacciata degli stranieri diede novella virtù ai Saluzzesi; le discordie civili scemarono, e s'estinse a que' giorni con Roberto la gloria della fatale casa d'Angiò, che aveva cotanto illuso ed insanguinato l'Italia. Carlo, figlio di Roberto, era premorto al padre, e lo scettro passò nelle mani di Giovanna, figlia di Carlo, la quale, rea dell'uccisione d'un marito, patì infiniti guai, ed infine dal vendicatore del primo marito fu data a morte.

 

 

 

I SALUZZESI.

 

Odium suscitat rixas, et universa

delicta operit charitas.

(Prov. 10. 12).

 

I.

 

Dolce Saluzzo mia! terra d'antiche

Nobili pugne, e d'alternate sorti

Prospere e infelicissime, e d'ingegni

Che t'onoràr con gravi magisteri,

O con bell'arti, o con sincere istorie,

O coll'affettüoso estro che splende

In ognun che ti canta, e vieppiù splende.

Sovra l'arpa gentil di Dëodata5,

 

Tua prediletta figlia! Io ti saluto,

O terra de' miei padri, e dall'affetto

Che ti porto, m'ispiro oggi cantando

Un tuo illustre dolor d'anni lontani,

Che fu dolor da forti alme compianto,

E da forti alme sopportato e misto

Ahi troppo! a colpe, ma pur misto a esempi

Di patrio amor, di lealtà e di senno.

O fantasia, sulle tue magich'ali

Toglimi a' dì presenti, e con gagliardo

Vol ritocchiamo il secolo guerriero

Di Tommaso e Manfredo; il secol pieno

Di guelfe e ghibelline ire, che servo

Parve e non fu dell'ultimo Angioìno;

Il pöetico secol, che dall'ombra

Gigantesca di Dante e dalle pure

Armonìe di Petrarca, e più dal lume

D'ammirabili Santi, era di molti

Olocausti di sangue consolato.

Fra gl'Itali dominii, ecco Saluzzo

Non ultima in possanza: eccola altera

Di lunga tratta di montagne e valli

E feconde pianure, e di castella

Governate da prodi: eccola altera

De' prenci suoi. La marchional corona

Fregia Tommaso, affratellato ai grandi

Ghibellini Visconti, onde Roberto

Angiöin dalla sua Napoletana

Splendida reggia freme, e agguati ordisce,

Impor bramando con novello prence

A' Saluzzesi il guelfo suo stendardo.

Volgea quella stagion, quando Saluzzo

Vede scemar pe' campi suoi le nevi,

E ogni dì s'avvicendano i gelati

Estremi soffi dell'inverno, e l'aure

Che già vorrebbe intepidir l'amica

Possa del Sol che a ricrëarci torna.

E volgeva una sera, ed a tard'ora

Entro alla cara sua celletta prono

Stava orando il canuto Ugo, dolente

Che involontaria a' preghi si mescesse

Nel suo intelletto or questa cura or quella

Di Staffarda pel chiostro, onde ei cingea

L'infula veneranda. E benchè antico

Nelle salde virtù di pazïenza

E d'umiltà, pur non potea ne' preghi

Trovar facìl quïete, anco ove miti

Talor del monaster fosser gli affanni,

Perocch'ei molte conoscea secrete

D'alti alberghi sfortune e di tugurii,

E d'innocenti peregrini oppressi;

E la mente magnanima del vecchio

Compatìa in tutti i cuori illustri o bassi

Delle colpe gli strazi e quei del pianto.

Or mentre inginocchiato ei le divine

Grazie per tutti invoca, ode la squilla

Che a notte suona il vïator venuto

Alla porta ospital. Sospeso allora

Il conversar con Dio, s'alza ed appella

Un de' laici fratelli, e - Va, gli dice;

Provvedi tu che all'arrivante abbondi

Di carità dolcissima il conforto,

Chiunque ei sia.

Quindi, umilmente curva

La nivea fronte, eccol di nuovo a' piedi

Del Crocefisso, e nell'orar diceva:

- Or chi sarà questo ramingo? Oh fosse

Tal di que' mesti a cui giovar potessi!

D'accelerati e poderosi passi

D'un cavalier sonar sembran le volte;

Poscia addotto dal laico entro la cella

Viene... Eleardo.

- Oh amato zio!

- Nepote,

Onde tu di Staffarda alla Badìa?

Il laico si ritrasse. I duo congiunti

Si strinsero le destre, e il giovin prode

Sovra la scarna destra del canuto

Le labbra pose, ed ambe allor le braccia

Aperse questi, e al sen paternamente

Il figlio accolse dell'estinta suora.

Così il giovin comincia:

- Alto mistero

Son chiamato a svelarti.

- In me fiducia

Sai qual tua madre avesse; abbila pari.

- Dacchè in Saluzzo reduce son io

Dalla corte di Napoli e dal Tebro,

Poche fïate al fianco tuo m'assisi,

E assai pensieri d'Eleardo ignori.

- E l'ignorarli mi mettea paure,

Che forse sgombrerai.

- Padre, mentita

È la fama che sparsa han da Milano

I perfidi Visconti incontro al vero

Proteggitor d'Italia tutta e nostro.

In benefizi alto, fedel, possente

È il regio cor del Provenzal Roberto:

Ei la Chiesa vuol grande: ei de' tiranni

Flagello fia; de' buoni prenci scampo.

- Bada, o giovin bollente, omai tremenda

Splender la luce di quel re straniero

Che di Napoli al serto altre aggiungendo

Minori signorìe, stende sue lance

Di castello in castel, di villa in villa,

Fra' Romani, fra' Toschi e fra' Lombardi,

E feudi suoi non pochi ha in Monferrato

E in Piemontesi sponde. A molti egregi

Dubbia pietà è la sua sulle miserie

Delle irate, cozzanti, Itale stirpi.

- Dubbia fu dianzi, or più non è. Sol una

Appalesasi speme, un sol desìo

In re Roberto e nel Pastor del mondo:

Concordia vonno e giuste leggi, e freno

Ad eresìe, a tirannidi, a macelli:

Collegare in un patto a comun gloria

Vonno e prenci e repubbliche e baroni.

- Del supremo Pastor ferve nel petto

Ansïetà pe' figli suoi sublime;

Il so: ma in petto di Roberto ferve

Pericolosa ambizïon.

- Tal grida

Del ghibellin Visconte la calunnia,

Ma smascherato è l'impostor. Lui regge

Ed ognor resse ambizïon! Lui preme

Sete d'oro e di sangue! In Lombardia

Ei d'un mortal più non possede il core:

Sospiran ivi tutti i buoni o il braccio

Liberator dell'Alemanno Augusto,

O della serpe Viscontèa sul capo

La folgor pontificia, e i benedetti

Brandi del re. Quanto i Lombardi omai

Da quella fatal serpe avviluppati,

Contaminati, laceri, scherniti

Non ci vediam noi Saluzzesi forse,

Dacchè sposa al Marchese incantatrice

Venne Riccarda, e tracotante stormo

D'Insubri cortegiani accompagnolla?

- Figlio, ricorda ch'altre volte io seppi

Quell'ira tua sedar. Ragioni mille

Di Saluzzo il dominio alla fortuna

Stringono di Milano.

- Oggi disciolta

È l'infernal necessità.

- Che intendi?

- Svelta alfin oggi dall'ignobil crine

Del marchese Tommaso è la corona.

- Oh ciel! che parli? Come?

- Oggi Saluzzo

E delle valli sue tutti i baroni

Mutan sommo signor: nel seggio ascende

Del marchesato...

- Chi?

- Manfredo.

- Un sogno,

Un sogno è il tuo: Manfredo osò la mano

Stendere al serto del nepote un giorno,

Ma pochi il secondaro, e giurò pace.

- Fur vïolati da Tommaso i sacri

Vincoli della pace, e l'insultato

Manfredo sorge con diritto, e pugna.

- Foggiati insulti! Agli occhi miei rifulge

Di Tommaso la fede.

- Or cessa, o zio,

Di compianger l'iniquo, e sostenerlo.

A quest'ora medesma in ch'io ti parlo,

Invitte squadre ascosamente tratte

Son da più lati del Piemonte, l'une

Da Savigliano e circostanti borghi

Obbedïenti al re, l'altre portando

La Taurinense e la Sabauda insegna;

Ed a lor si congiunge Asti, ed il nerbo

De' Monferrini guelfi; e, pria che albeggi,

Saluzzo investiranno, e di Saluzzo

Da interni guelfi s'apriran le porte.

- Perfidia tanta ah! non permetta il cielo!

- Manfredo, signor nostro, a te m'invia,

A te ch'egli ama e venera, e possente

Crede appo Dio.

- Che vuol da me il fellone?

- T'acqueta.

- Che vuol ei?

- Rende onoranza

A quella fama tua che in parte celi

Per umiltade, e forse in parte ignori,

Ma che sul volgo e sui baroni è immensa.

Il vigor de' Profeti, è nel tuo sguardo,

Nella parola tua, nell'inclit'opre!

Nè fur poste in obblìo le ardimentose

Verità che portate hai cento volte

In nome dell'Eterno a' piè de' forti.

Banditor oggi te desìa, te vuole

Di verità terribili Manfredo:

Vieni i Visconti a maledir nel campo,

Vieni in Saluzzo a maledirli; vieni

Tommaso a maledir, che a' ghibellini

Fatto s'era mancipio; e il tuo ispirato

Ingegno volgi a secondar gl'intenti

Di chi protegge i popoli e il diritto.

Balza a tai detti dal suo antico seggio

Il sacro vecchio, e grida: - Oh sconsigliati!

Oh foss'io in tempo! Oh, me vestisse Iddio

Del vigor de' Profeti un giorno solo!

Ov'è Manfredo?

- Il menan le notturne

Ombre colla invadente oste a lui fida.

- Mi si bardi il corsier, prorompe l'altro.

E mentre il laico diligente move

Ad obbedir, l'illustre coppia ancora

Entro la cella si sofferma, e scambia

Dell'agitato alterno animo i sensi.

- Figlio, sedotto sei. Più che a te noti

Di Roberto e Manfredo i cor mi sono.

Ottimo è il re, ma in Napoli, ove lieto

Di splendid'arti e cortesìa sfavilla:

Lunge di là, malefico è il suo genio,

Però che illude cavalieri e volgo,

Con brame empie di guerra e di rivolta.

E mentre a chi gli sta vicino ei mostra

Amabili virtù, sparge per tutte

Le vie della penisola protetta

Superbi capitani a intimar pace,

Depredando, uccidendo e soggiogando.

Tal è il vantato amico re. Gli giova

Scemar la possa de' Visconti, a noi

Unici grandi appoggi; ed a quel fine

Oggi stromento egli Manfredo elegge.

- A Manfredo parlando e a' regii duci,

Dissiperassi il tuo terror. Brandite

Furon le generose armi con alto,

Solenne giuro d'elevar gli oppressi,

Ed atterrar chi leggi ed are spregia.

- Di chi s'avventa a qual sia guerra, è il giuro.

- Vedrai di stirpe Saluzzese egregi

Baroni alzar la Manfredesca insegna.

- So che vedrovvi tra i cospicui illusi

Quell'Arrigo Elïon che ti governa,

Sua figlia promettendoti. Arrossisci?

Pur troppo non errai.

- Più che gli affetti,

Seguir ragione e coscïenza intendo.

Bardato del canuto è il palafreno,

E accanto ad esso scalpita il corsiero

Del giovin cavalier. Brevi l'abate

Lascia a' monaci suoi caute parole;

Di sua man l'acqua santa a lor comparte,

Li benedice, ed eccolo salito

Guerrescamente sull'arcion, siccome

Uom, che pria della tonaca ha vestito

Corazza e maglia, e nome ebbe di prode.

Stride sui ferrei cardini la porta

Del monastero, e si spalanca. Entrambo

Escon gl'illustri, e su minor cavalli

Duo servïenti; e soffermato resta

In sulla soglia il monacal drappello,

Cui s'abboccò l'abate alla partita.

- Che fia? Si dicon con alterno sguardo

Paventando sciagure, ed ignorando

Le sovrastanti stragi. Intanto s'ode

La campanella de' notturni salmi,

E vien chiusa la porta, e traversato

L'ampio cortil, tutta la pia famiglia

Entra nel tempio e tragge al coro, e canta.

 

 

 

II.

 

All'ombra delle chiese oh fortunata

Pace, in secoli d'odii e tradimenti!

Ivi mentre ne' campi arse talora

Venìan le messi, e al villanello afflitto

Il guerriero aggiugnea scherni e percosse,

E mentre in borghi ed in città i fratelli

Trucidavan fratelli, e mentre noto

Andava questo e quel castel per nappi

Di velen ministrati, e per pugnali

Vibrati nelle tenebre, e per donne,

Che il geloso, implacabile barone

Seppellìa vive delle torri in fondo,

Il monaco espïava or sue passate

Colpe, or le colpe delle stirpi inique:

E non di rado quelle sacre lane

Coprìano ingegni sapïenti e miti,

Stranieri al secol lor, com'è straniero

Fra malefici sterpi il fior gentile,

E fra cocenti arene il zampillìo

Ospital d'una fonte, e fra selvagge

Masnade un cor che sopra i vinti gema.

Intanto che a Staffarda i coccollati

Salmeggiavano in coro, e che l'antico

Ugo sul palafreno i pantanosi

Sentieri e le boscaglie attraversava,

Mossa da Moncalier, tragge a Saluzzo

Moltitudine varia e spaventosa:

Di regie insegne e d'alleati, e insieme

Co' guerrieri diversi orrende bande

Di comprati ladroni. Il sommo duce

È Bertrando del Balzo, altero e prode

Siniscalco del rege, e di Bertrando

Primo seguace è il traditor Manfredo,

Ch'entrambe i suoi fratelli sconsigliati

Seco strascina alla malvagia impresa.

Giunger vonno di notte appo le mura

Insidïate, e lor sorride speme

Ch'a suon di trombe s'apra ivi la porta.

Ma precorsa è la fama, e quando arriva

L'oste a' piè di Saluzzo, e dagli araldi

Si suonano le trombe, al suono audace

Interna intelligenza non risponde,

E nessun ponte levatoio scende

Degl'invasori al passo. Irte le mura

Stan di lance fedeli, scintillanti

Al raggio della luna, e dal lor grembo

Piovon sull'oste urli di rabbia e dardi;

Ed a quegli urli universal succede

Il grido popolar: - «Viva Tommaso!».

Sì che Manfredo per livor si morde

Ambe le labbra, e al baldanzoso volgo

Giura dar pena d'infinite stragi.

Il Provenzal Bertrando, alma beffarda

Dell'amistà del rege insuperbita,

Quasi rege teneasi, e agevolmente

Sovr'ogn'italo sir vibrava scherni.

Prorompe ei quindi in tracotante riso,

E voltosi a Manfredo: - Ecco, gli dice,

Quel che ne promettesti universale

Amor per te de' Saluzzesi spirti!

Poi dopo il riso atteggiasi a disdegno:

- Tutti siete così! Promesse, vanti,

Folli speranze! ed ardui indi i perigli,

Lunghe le imprese, ed il mio re frattanto

Per vantaggi non suoi perde i suoi prodi!

- T'acqueta, dice con infinta calma

Il fremente Manfredo; oltre poch'ore

Non dureran gl'inciampi: un solo basta

Gagliardo assalto, e il disporrem veloci.

Mentre a dispor l'assalto ardimentosi

Coopran gl'intelletti de' supremi

E l'obbedir delle volgari turbe,

Congegnando, apprestando armi, brocchieri,

Ferrate travi e macchine scaglianti,

E tutta la pianura è voce e moto

E cigolìo di carri, e picchiamento

Di mannaie che atterrano le piante,

E stridere di pietre agglomerate,

E in mezzo alle fatiche or la bestemmia

E l'impudente ghigno, ed ora il canto -

Dentro Saluzzo non minor s'avviva

Il poter delle menti e delle braccia

Per la sacra difesa. Ignoti e pochi

Sono gl'interni traditori, e a mille

Ardono i cuori allo stendardo uniti

Del marchese Tommaso. Ei di que' prenci

Magnanimi era, ch'ove rischio appaia,

Brillan di nova luce, e più sublime

Han la parola, e più sublime il guardo,

E quasi per magìa destan ne' petti

Della poc'anzi malignante plebe

Amor, concordia, ambizïon gentile.

Pressochè in tutte l'alme ivi obblïato

È questo o quell'error che, apposto o vero,

Jer gran macchia parea sovra Tommaso:

Più non vedesi in lui che un assalito

Posseditore di paterni dritti,

Un amato signor, una man pia

Che premiava e puniva e sorreggeva,

E ch'uopo è conservar. Sì che la stessa

Bellissima Riccarda, onde cotanto

A' Saluzzesi dispiacea la stirpe,

Più d'abborrita origine non sembra,

Or che il popol la vede paventosa,

Ma non già vil, dividere i perigli

E le cure del sir. La sua bellezza

Molce i fedeli armati; il suo linguaggio

Più non suona stranier, benchè lombardo.

E quand'ella e Tommaso, a destra, a manca,

Parlan di speme nell'accorrer pronto

Dell'armi de' Visconti a lor salvezza,

Esultan gli ascoltanti e mandan plauso.

Al declinar di quell'orribil notte

Ugo nella invadente oste arrivava

Con Eleardo, e trassero al cospetto

Del regio siniscalco e di Manfredo.

Alzò Manfredo un grido di contento

All'apparir del vecchio, ed a Bertrando

Lo presentò dicendo: - O sir del Balzo,

Eccoti di Staffarda il presul santo,

Colui, che per bell'opre onnipossente

Fama sul popol di Saluzzo ottenne!

Il cor certo gli splende a questa aurora

D'un avvenir pe' nostri patrii lidi

Più glorïoso e fortunato e giusto.

Avvicinossi ad Ugo il siniscalco,

E celando nell'alma dispettosa

Il disamore e il tedio, un reverente

Foggiò sorriso, e disse: - Anco il monarca

Serba di te memoria, o illustre padre,

E qui trionfo, non dall'arme tanto,

Che ben darglielo ponno, egli desìa,

Quanto dall'opra del tuo amico senno.

Indi Manfredo ripigliò i motivi

A spiegar della guerra, annoverando

Frodi e stoltezze e ineluttabili onte

Sul nome di Tommaso accumulate,

Perchè ligio all'astuta Insubre possa,

Ed uopi urgenti di riparo, e prove

Che il maggior uopo a' Saluzzesi fosse

E a tutta Italia l'unità d'omaggio

Di quanti erano feudi al re Roberto.

Ed Ugo ai cavalieri: - Il mio suffragio

Certo sarìa per la comun concordia

Sotto uno scettro o ghibellino o guelfo,

Ma non basta d'afflitti animi il voto

Perchè cessi il poter dell'ire antiche

In un popol di stirpi concitate

Ad aneliti varii e a varii lucri;

E ragioni si schierano possenti

Al mio intelletto, sì ch'io neghi al regno

D'uno straniero in Puglia incoronato

Il giunger con sua fama e co' suoi brandi

A collegarci a reverenza e pace.

- Pensa, o canuto, ch'alto assunto è il nostro:

Degna è di te l'aïta.

- Aïta bramo

Recarvi, sì: guisa sol una io scorgo.

- Qual?

- Del popolo agli occhi e degli armati

Intercessor presenterommi a voi,

E per relïgione ambi e clemenza

Sospenderete le battaglie, e intanto

A Napoli n'andrò. Placherò, spero,

L'augusto re; lo distorrò da impresa

Onde gli torneria danno ed obbrobrio;

E se leso alcun dritto era a Manfredo,

Per saldi patti ei risarcito andranne.

- Proporne indugio alle battaglie è vano:

Impermutabil di Roberto è il cenno;

E mal vai profetando obbrobrio e danno

A chi certezza piena ha di vittoria.

Solo uno sguardo a nostre schiere volgi,

E vedrai che Saluzzo oggi s'espugna.

- Espugnarla potrete, ed il ricovro

Forse tor del castello al vinto sire,

E prigion trascinarlo, e dalle chiome

L'avito serto marchional strappargli,

E tu, Manfredo, ornartene la fronte.

Io non ciò vi contendo; io, per l'antico

Conoscimento mio di questa terra

E degli animi suoi, sol vi dichiaro,

Che al crollar di Tommaso, ardua e non ferma

Vittoria avreste. In cor de' più, gagliarde

Son le eredate ghibelline fiamme,

Gagliarda quindi l'amistà a' Visconti,

Gagliardo l'odio per le guelfe insegne.

Picciol popolo siam, ma ci dan forza

E l'arme de' Visconti e il nostro ardire,

E l'indol Saluzzese, aspra, selvaggia,

Che paure non piegan ne' supplizi.

- Obblii ch'io pur son Saluzzese, e mai

Non mi piegan paure.

- In te, Manfredo,

Splenda il miglior degli ardimenti: quello

D'anteporre alle gioie empie del brando

Una gloria più pia, l'amabil gloria

D'allontanar dalle tue patrie rive

Una guerra funesta!

- Altra favella,

Assumi, o vecchio. Se t'è caro ufizio

Scemar l'orror d'inevitata guerra,

Sposa il vessillo mio, movi alle mura

Assedïate, i cittadini arringa,

Traggili a sottopormisi.

- Non posso!

Nol debbo! Ufizio mio giovevol solo

Esser ponno le supplici parole,

E l'aprirvi, quai Dio me li palesa,

I forti avvisi. Trattenete i brandi,

E se ingiustizia fu in Tommaso, al dritto

Basteran le ragioni a richiamarlo,

Ed indi a pochi dì voi satisfatti

E glorïosi e senza ira di sangue,

Benedetti dai popoli e dal cielo,

Trarrete a vostre sedi. Ove sospinto

Da ambizïone e da rancori antichi

Tu inesorabilmente alla corona

Di Saluzzo, o Manfredo, oggi agognassi,

E afferrarla potessi, in odio fora

Il nome tuo a' soggetti, e, pur volendo,

Felici farli non potresti. Iniqua

Necessità di gelosie e vendette

Nasce da civil guerra, e l'usurpante

Non si sostien fuorchè a perpetuo patto

Di timori e carnefici. E si ponga

Che dianzi mal reggesse il prence vinto,

L'esser vinto o fuggiasco ovver sotterra

Amicherà al suo nome i cuori molti

Che offeso avrai; s'obblïeranno i torti

Del perduto signor; s'abbelliranno

Le ricordate sue virtù. Lui spento,

Sorgeran prenci astuti o generosi

Per vendicarlo, e s'anco astuti ed empi

Fossero in cor, venereralli il volgo,

Giocondo sempre d'abborrire un forte,

Che per ingegno e vïolenza regni.

E a cotal colleganza d'assalenti

Quai son le forze che opporrìa Manfredo?

- Le regie forze! esclama furibondo

Il Provenzal barone.

- In molte guerre

Il vostro re s'avvolge, Ugo ripiglia,

E ove sia con gagliarde armi assalito

Per altri lidi, a propugnarli io veggo

Receder queste schiere, e te, Manfredo,

Veggo fremente e povero d'acciari,

E tradito da' tuoi!...

Qui del profeta

Interrompon la voce i capitani.

Egli alza il Crocefisso, ed umilmente

Prega i superbi, e pregali pel nome

Del Redentor. Respinto viene, e sorge

Più d'un ferro dell'oste a minacciarlo.

Scudo al monaco feansi alcuni prodi,

E fra questi Eleardo. Il santo vecchio

Di scherni non tremò, nè di minacce,

E più fïate ripetè ai felloni:

- L'impresa vostra maledice Iddio!

 

 

 

III.

 

Di te, Religïon, nobile è ufficio,

L'affrontare imperterrita coll'arme

Delle temute verità i superbi,

Pur con periglio d'onta e di martirio!

E quell'uficio, oh quante volte i veri

Sacerdoti di Dio forti adempièro!

Talor sotto l'acciar de' vïolenti

Perìan que' venerandi, e talor rotti

E insanguinati, e carichi di ferro

Venìan sepolti in erma, orrida torre:

Nè dai tremendi esempi sbigottito

Era il cor d'altri santi. E se la voce

D'un'alma pura e consecrata all'are

Da iniqui prodi spesso iva schernita,

Pur non inutil pienamente ell'era:

Schernita andava, ma ponea ne' petti

Di que' feroci inverecondi un germe

Che forse un dì fruttava; ed era un germe

Religïoso di terrore. E in mezzo

A tai feroci petti, alcun pur sempre

Ve n'avea di men guasto, a cui l'ardita

Sacerdotal, magnanima parola

Or di cospicui presuli, or d'umili

Fraticelli o romiti in patrocinio

Degl'innocenti, era parola invitta

Che con pronti rimorsi il tormentava,

Sì che riedesse a carità ed onore.

Compagno fessi al vecchio Ugo per molti

Passi Eleardo oltre al terren coperto

Da quelle schiere di crudeli armati,

Indi, con grave d'ambidue cordoglio,

Il nipote strappossi dalle invano

Tenaci braccia dell'amato antico.

Ahi! senza pro sclamava questi: - Oh figlio!

Qui non m'abbandonar! Più fra quell'empie

Insegne che il Signore ha maledette

Pel labbro mio, deh non ritrarre il piede!

Te ne scongiuro per la sacra polve

Della mia suora, a te sì dolce madre!

Te ne scongiuro per la polve illustre

Del tuo buon genitore e de' nostr'avi,

Che fidi cavalieri ed incolpati

Furon sostegni tutti a chi in Saluzzo

Stringea con dritto il signorile acciaro!

Esci dal laccio che al tuo core han teso

I rapaci stranieri! A me, alla patria,

Al tuo prence ritorna. Infamia e lutto

Sta con Manfredo, con Tommaso il cielo!

Udìa Eleardo il prolungato grido

Del supplice canuto, ed il veloce

Corso intanto seguìa. Ma benchè sordo

Paresse e irreverente, a lui que' detti

Eran quai dardi all'anima commossa,

E vïolenza a sè medesmo ei fea

Non fermando il suo corso, e non volgendo

Il piè per rigittarsi alle ginocchia

Del caro supplicante. Il pro' Eleardo

S'ostinava per varii ignoti impulsi

A ritornar fra i collegati duci,

Cercando creder ch'ei virtù seguisse,

Ed Ugo fosse un tentatore, un cieco

D'errori amico. Intende il cavaliero

Ad ogni vil tentazïon lo spirto

Incolume serbare: idolo intende

Virtù, virtù, non larva farsi alcuna!

Virtù vuol ravvisar, virtù secura

Nelle giurate splendide fortune,

Che il re Angioìno ai Saluzzesi e a tutta

La penisola appresta. Ei quel monarca

Ed i suoi capitani, e più Manfredo

Vuol reputar veraci eroi. Ma pure....

Ad onta del proposto, il sen gli rode

Nascente dubbio irresistibil. Cela

Questo dubbio, ma il porta, e così giunge

Turbato, afflitto ai Manfredeschi brandi.

A molti il cela, sì, non a sè stesso;

E ondeggia alquanto, indi neppur celarlo

Può al genitor della donzella amata,

Guerrier, cui lo stringea più che ad ogn'altro

Pia reverenza. E sì gli parla:

- Oh Arrigo!

Appartiamci, m'ascolta: allevïarmi

D'occulta angoscia non poss'io, se teco

Non ne ragiono come a padre.

Il fero

Barone attento il mira, e con presaga

Severità: - Vacilleresti?

- Lievi

Estimar bramerei del venerando

Ugo le voci, e non so dirti quale

In siffatte or benigne or fulminanti

Parole di tant'uom, che onoro ed amo,

Splender raggio tremendo oggi mi paia!

Aggrotta il ciglio Arrigo, e l'interrompe:

- Bada, Eleardo, che al rischioso passo

Dopo lungo pensar ci risolvemmo;

Or paventar nel cominciato calle

Obbrobrio fora.

Ma sebbene Arrigo

Al giovin cavalier biasmo gettasse,

Non men del giovin si sentìa colui

Perturbato nel cor, per l'ardimento

Del fatidico abate, e nel futuro

Nubi scorger pareagli atre e sinistre.

Dissimulava non pertanto, e saldo

Stava come mortal che da gran tempo

Il proprio senno e i proprii fatti adora.

Tal era il truce Arrigo: ei mille volte

Morto sarìa, pria che mostrarsi in gravi

Opre dapprima certo, indi esitante.

Il ferreo vecchio avea ne' precedenti

Anni, coll'inquïeta ed iraconda

Sua desïanza di giustizia e gloria,

E col non mai pieghevole intelletto,

Molti alla corte di Tommaso offesi.

L'esacerbaron quelli, ed egli volse

L'animo suo secretamente a' guelfi

Ed a Manfredo, ivi lor duce occulto.

Parve a Manfredo egregio essere acquisto

L'amistà di tal forte, incanutito

In severi costumi; e scaltramente

Il seppe avvincolar con dimostranze

Di sommo ossequio, affinchè il guelfo volgo,

Affidato d'Arrigo alla canizie,

Argomentasse tutti esser maturi,

Tutti esser giusti gli audacissimi atti

Cui Manfredo appigliavasi. Ahi! d'Arrigo

La canizie coprìa pochi pensieri,

Benchè gagliardi, e quell'ardito prence

Consigli non chiedea, ma obbedïenza.

Arrigo sè medesmo in alto pregio

Reputa nella mente di Manfredo:

A lui si crede necessario, e spesso

Immagina que' dì, quando in Saluzzo

Dominerà quel novo sire, ed ivi

Migliorate n'andran tutte le leggi.

Giubila e fra sè dice: - A tanto bene

Della mia patria io dato avrò l'impulso!

Io sono il genio di Manfredo! Io lui

Illuminato avrò! Tener lontana

Saprò da lui l'adulatrice turba,

E gli ottimi innalzar! Beneficate

L'adoreran le Saluzzesi terre,

Ma unito al nome suo splenderà il mio!

Sì grande speme ad Eleardo egli apre,

Voglioso d'infiammarlo. Il giovin ode,

Ma sta sospeso e mesto, indi ripiglia:

- Rimaner con Manfredo obbligo è nostro,

S'egli, mantenitor delle più sacre

Fra le promesse, non vendetta anela,

Ma podestà di padre, e di supremo

Difenditor de' nostri antichi dritti.

Chè s'egli, come d'Ugo oggi è temenza,

Sol esca avesse ambizione ed ira,

E gettasse la larva, e m'apparisse

Malefico signor, oh! apertamente

Gli disdirei servigio, e a cielo e terra

Confesserei ch'io per error lo amava!

Del magnanimo detto d'Eleardo

Stupisce Arrigo, e corrucciato esclama:

- Supposto indegno è il tuo! Pensa che solo

A impermutabil, vero animo guelfo

Sposa n'andrà dell'inconcusso Arrigo

L'obbedïente figlia!

Il disdegnoso

Vecchio si scosta, e resta ivi solingo

Col suo dolore, e colla sua turbata

Ma non corrotta coscïenza il prode

Amante cavalier.

- Volli del giusto

Seguir la insegna, e voglio: in me desìo

Altro capir non potrà mai! Sospetti

Sol mi ponno assalir che non qui sorga,

Non qui del giusto la bramata insegna.

E se ingannato mi foss'io? Se falsi

Scorgessi i dritti di Manfredo? Ligio

Ad armi inique ratterriami forse

Perfido orgoglio? O ad armi inique ligio

Mi ratterrìa questa laudevol fiamma

Che in petto chiudo per Maria, per tale,

Che tutte illustri damigelle avanza

In bellezza e virtù? Mi farei vile

Per ottener la mano sua? Non mai!

Amarti debbo degnamente, o donna

Di tutti i miei pensier; debbo onorarti

Ogni virtù seguendo e suscitando,

S'anco per onorarti, ah! il più crudele

Mi colpisse infortunio, e te perdessi!

Del maggior tempio di Saluzzo all'alto

Vertice non lontano erge le ciglia,

E curvando ei lo spirto anzi alla croce

Che colassù sfavilla, al Signor chiede

Lume a scernere il vero e a praticarlo.

Il divin lume balenogli e crebbe

Al guardo suo ne' dì seguenti, alcuna

Non vedendo in Manfredo esser pietosa,

Verace cura nel funesto assedio

Di tutelar gli oppressi e vendicarli,

Mentre la invaditrice oste pe' campi

S'andava ad ogni infamia iscatenando.

A tutelare o vendicar gli oppressi

Bensì Eleardo qua e là accorreva,

Ma non di lui bastanti eran gli sforzi,

Nè bastanti gli sforzi erano d'altri

D'animo pari al suo cavalleresco,

Che insiem con esso or s'avvedean fremendo

Quanta in Manfredo, e ne' fratelli suoi

Ed in Bertrando e nelle rie caterve

Indol, non già d'amici eroi si fosse,

Ma d'impudenti ladri e di nemici.

Insin dal primo giorno i brandi iniqui

Della straniera turba entro innocenti

Tugurii sparser miserando affanno.

Qui sgozzarono vergini inseguìte,

Là genitori che alle amate figlie

Difensori si fean. Volge ma indarno

La sua voce imperterrita Eleardo

Or a questo or a quel de' condottieri.

Il siniscalco move il capo e ride,

E Manfredo le accuse ode in silenzio,

Guarda le torri di Saluzzo, e sembra

Dir: - Che mi cal d'iniquità e di pianto,

Purchè in breve là entro io signoreggi?

Vengono a tutta la contrada imposte

Inaudite gravezze, e ad ogni adulto

Legge s'intima, sì ch'ei giuri ossequio

Al marchese novel. L'abbominato

Giuro negavan molti; indi tremende

Carnificine a spegnerli, ed i tetti

Diroccati e consunti dalle fiamme,

E borghi interi in cenere ed in sangue!

Fama nel campo giunge aver Lunello,

Antico sir di Cervignasco, il giuro

Negato agl'intimanti, e colà sorta

Esser numerosissima una plebe

A difender quel sir. - Temono i duci

Che di Lunel la resistenza esempio

Ad altri arditi feudatari avvenga,

Ed invìan fero stuolo a Cervignasco,

Che tutto abbatta, e in ogni dove insegua

Il valoroso sire, e in brani il faccia.

Consanguineo Lunello è d'Eleardo,

Ed il giovin l'amava. Ahimè! non puote

Questi il cenno arrestar, ma prontamente

Scagliasi dietro all'orme de' ladroni,

E moderarli spera, o spera almeno

Sottrarre agli omicidi i cari giorni

Del congiunto barone e de' suoi figli,

O almen d'alcun di loro. Ah! dalle spade

Distruggitrici invaso, saccheggiato,

Pieno di strage è il borgo! Il prò Lunello

Ferito fugge, e a stento si ricovra

All'ombre sacre d'una chiesa, e seco

Tragge l'antica moglie e le sue nuore

E i lattanti nepoti. Ecco nel tempio

I sacrileghi brandi! Ecco all'altare

Abbracciate le vittime! Eleardo

Entra, s'inoltra, grida: i truci colpi

Eran vibrati! A' pie' di lui nel sangue

Stramazzando Lunel, queste supreme

Voci mettea: - Se tu Eleardo sei,

Non prestar fede al rio Manfredo; imìta

L'esempio mio: pria che avvilirti, muori!

Dato alla chiesa il guasto, escon gli armati

In cerca d'altre prede, e fra que' morti,

Appo quell'ara, in disperata angoscia

Resta Eleardo, e piange ed urla, e i crini

Dalla fronte si strappa. Oh! chi l'afferra

Gagliardamente per un braccio e parla?

Il presul di Staffarda. Il qual veniva

Di Lunel suo cugino ai dolci alberghi,

Ed impensata vi trovò battaglia

Ed orribile eccidio, e dalla fama

Venne sospinto ai sanguinosi altari.

Il braccio afferra del nipote, e dice

Con autorevol grido:

- O sciagurato,

Non di lagrime è d'uopo in queste colpe,

Ma di nobil rimorso! A me la cura

Lascia di queste miserande spoglie:

Di giusti da feroci arme sgozzati,

E volgi ad opre valorose. Espìa

Il breve tuo delirio: appella, aduna,

Suscita i forti delle valli. Insieme

V'avvincolate con possenti giuri:

Pio ghibellino ridivieni e pugna.

Abbracciò il giovin cavalier le piante

Del magnanimo zio. Questi con forza

Lo rïalzò, gli,ripetè il comando,

Gli mostrò i consanguinei trucidati

E il rosso altare e le spezzate croci;

Raccapricciò Eleardo, il cor gl'invase

Lampo di speme, si riscosse e sparve.

Che avvien di lui, mentre lo zio infelice

Riman nel tempio e fra dolenti voci

D'alcuni inconsolati villanelli

E di pietose donne, a tanti uccisi

D'ultima carità rende gli ufizi?

Strazïato Eleardo dal conflitto

De' sinistri pensieri, asceso in sella,

Simile a forsennato errò per vie,

Per prati e per arene di torrenti,

Chiedendo a sè medesmo e al ciel chiedendo

Che fare omai dovesse. Un forte impulso

L'agitava, e diceagli ad ogni istante

D'obbedir senza indugio ai sacri detti

Del morente Lunello e ai detti d'Ugo,

Ridivenendo ghibellin. Ma in core

L'astuto angiol del mal gli rinnovava

Quel lusinghiero dubbio: - E se agli scempi

Inevitati di que' giorni atroci,

Che forse gettan falsa ombra maligna

Sul benefico intento di Manfredo,

Succedesser davvero inclite prove

D'alto senno in Manfredo e di giustizia,

Sì che alla patria giovamento e lustro

Per lunga età tornasse? Impresa egregia

Senza olocausti non compìasi mai,

Nè per questi dar loco a terror debbe

L'alma del forte, a giusta gloria inteso.

Così fra le incertezze e le speranze

E i rimbrotti del cor riede Eleardo

Delle masnade assedïanti al campo.

 

 

 

IV.

 

Miseramente ricca è d'infinite

Fallaci industrie coscïenza, i cari

Proponimenti ad abbellir, pur quando

Luce severa di ragion li danna.

Ma chi d'iniquità volonteroso

Per l'infame sentier non move il piede,

Sente per quel sentier, sebben cosparso

Da inferne mani di stupendi fiori,

Un ribrezzo frequente, un indistinto

Fetor che si frammesce a que' profumi,

Ed il ferma e il sospinge ad arretrarsi;

Simile a que' timori innominati

Che invadon ne' deserti il buon destriero,

S'ivi non lungi s'accovaccia il tigre;

E simile a que' taciti spaventi

Che fanno impallidir la verginella,

Quando in sembiante d'uom che di bellezza

Adorno splende, ella ravvisa ignoto

Lineamento, o non so qual favilla

Nel sorridente sguardo, o non so quale

Moto di labbro che le dice: «Trema!»

In que' presaghi palpiti d'un core

Ch'è vicino al periglio, e per potenza

Misterïosa se n'accorge e guata,

V'è la voce di qualche angiolo amante

Che tutti sforzi a pro dell'uomo adopra:

V'è la possa d'Iddio che lume sempre

Bastevol dona a illuminar suoi figli.

Vane di coscïenza in Eleardo

Son le fallaci industrie: ei sulla fronte

Porta il corruccio di talun che vive

Fra scoperti ribaldi, e più li mira,

Più inorridisce; e nondimen vorrebbe

Insensato scusarli e amarli ancora.

Oh come trista di quel dì esecrando

Giunse la sera, e qual più trista notte

Agitò ognun che, pari ad Eleardo,

Alti e pietosi sensi ivi serbasse!

Ma la dimane di quel dì pur troppo

Sorse peggior! Repente una perfidia

Entro le mura di Saluzzo avvenne,

Che affrettò la caduta. In vari alberghi

Scoppiano incendi orribili, ed il volgo

De' cittadini si sgomenta, accoglie

Di calunnia le voci. Un grido s'alza

Esser Tommaso degl'incendi autore,

Affinchè al buon Manfredo omai vincente

Nulla Saluzzo fuorchè cener resti.

Da poche mani congiurate i fochi

Erano stati per le soglie accesi,

E poche fur le labbra che dapprima

Spargere osaro il grido abbominoso.

Ma frenesìa nel popolo s'appiglia,

E ratto si moltiplica il pensiero,

Esser Tommaso un barbaro oppressore

Abborrito dal ciel. Lui benedetto

Asseriscon invan con generosa

Gara i ministri delle chiese e i sempre

Pacificanti Francescani e il colto

Stuol di color, che stretti avea la legge

Di Domenico santo all'esercizio

De' forti studi e della pia parola.

Benefiche potenze eran que' frati

Sullo spirto de' popoli, e sovente,

In tai secoli d'impeti e di sangue,

Ma di gagliarda fè, coi gonfaloni

Di Francesco e Domenico a feroci

Animi imponean calma e pentimento.

Ma spuntano ai viventi ore talvolta

Di contagiosa irrefrenabil rabbia,

E sotto ore sì infauste debaccava

Del Saluzzese popolo assai parte.

Dal di fuori frattanto a que' momenti

Ecco irromper l'assalto! ecco le mura

Scalate, superate! ecco Tommaso

Astretto a ceder le abitate vie,

A salir frettoloso all'alta rocca

A lui ricovro ed a' suoi cari estremo!

Non eccelsa metropoli prostrata

Da infinite falangi era Saluzzo,

Nè i suoi dolori fur soggetto a carmi

Di stupefatte illustri nazïoni,

Ma fur sommi dolori! E li divise

Quel Iacopo da Fia, che vergò in forti

Carte la istoria del tremendo eccidio.

Ah, inorridisco in leggerle, e m'ispiro

Io tardo trovadore al mesto canto!

La fella di Manfredo anima irosa

Crucciavan nuovi aneliti a vendetta,

Perocchè a' piedi suoi sotto le mura

Fracassati da travi e da macigni

Dianzi veduto alcuni cari avea,

E fra loro un fratello, il più diletto

De' prodi e truci due degni fratelli.

In ogni vinto armato cittadino,

Ed anco negl'inermi e ne' vegliardi,

E nelle donne stesse il furibondo

Immaginava la nemica destra

Ch'orbo l'avea di quel fratello, e tutti

Ei sterminati indi li avrìa. Frenava

Il proprio acciar, ma non frenava quelli

Della brïaca moltitudin varia

Ivi con esso a imperversar prorotta.

Rifugge l'estro mio dalla pittura

Degl'inauditi singolari strazi

Che segnalàr quel giorno. Oh vane e stolte

Speranze dei domati! oh retrospinte

Preghiere fervidissime, innalzate

Da' miseri che proni eran nel sangue

De' figli loro o nel fraterno sangue!

Oh giustamente non curati applausi

Della stolida feccia scellerata

Che menar volea festa ai vincitori,

Liberator'chiamandoli, e mandati

A raddrizzar tutti i plebei diritti!

Oh inutil congregarsi trepidando

Di lagrimose vergini e di madri

E di fanciulli anzi ai predoni infami,

Ricordando a costoro i dolci nomi

Di pietà, di giustizia e d'innocenza!

Oh ingiurie non dicibili! Oh colpiti

Dalle scuri sacrileghe gl'ingressi

Di più case di Dio, dove sgozzati

Cadono antichi sacerdoti, e gioco

Reliquie vanno e sacri vasi ai ladri!

Tutto è dileggio e rubamento e morte

Intero un giorno e la seguente notte,

E già parte dell'armi e de' congegni

Ratta si volge ad investir la rocca.

Magnifico sorgea d'aprile un sole,

E delle pompe di sì splendid'astro

Raccapricciaron di Saluzzo i vinti,

Lor macerie e cadaveri mirando,

Quand'a lor s'apprestàr novelle ambasce.

Clangor repente innalzasi di tromba,

E nel nome abborrito di Manfredo

Gridan gli araldi questo atroce bando:

«Esser giusto castigo al contumace

Popol de' ribellanti soggiogati,

Ch'ivi su pietra più non resti pietra,

E irremovibilmente or quel castigo

Compiersi pria che il sol giunga all'occaso;

Ma perdonata andare ancor la vita

Ai puniti felloni, e per clemenza

Che maggiormente moderi il flagello,

Concedersi ad ognuno il portar seco

Qual ch'egli serbi di tesori avanzo».

Tal legge uscita, il raddoppiato pianto

Chi dirìa degli oppressi? A que' lamenti

Inesorata del tiranno è l'alma,

Inesorata al supplicar di molti

Infra suoi cavalieri e d'Eleardo:

Forz'è ch'ogni abitante i cari tetti

Sgombri innanzi la sera, e chi sa dove

Ramingo vada. Non v'è tempo a indugi,

E vedi con sollecito, confuso

Moto d'alme avvilite e disperate,

Fra i singhiozzi e fra gli urli incominciarsi

L'infelice spettacolo. Agl'infermi

Ed agli avi decrepiti sostegno

Fansi gli adulti d'ambo i sessi, e cinte

D'adolescenti e pargoli e lattanti

Collacrimar vedi le donne. Ognuno

Che già d'averi non sia privo, or seco

Gli ultimi tragge vestimenti e arredi.

Di sì misera vista i vincitori

Gioìron crudelmente insin che tutta

Fosse la turba delle case uscita.

Frodolento il decreto era a sol fine

Di scovrir se ricchezza aveavi ancora

Che al saccheggio primier fosse sfuggita.

Or poichè tutti di lor robe carchi

Furono i cittadini, il rio Manfredo

Misericorde spirito ostentando,

Disse che rasi non andrian gli ostelli,

Ma diè barbaro cenno alle coorti

Che assalisser la turba, e d'ogni spoglia

La derubasser. Così il vil tiranno

Suoi debiti solveva ai masnadieri,

Che a quel regno di sangue aveanlo alzato.

L'inverecondo estremo predamento

Desta a furor gli sventurati. Allora

Più non resiste agl'impeti possenti

Del suo sdegno Eleardo: - Io m'ingannai,

Alto grida fra il popolo; io sognava

Esser Manfredo della patria padre;

Usurpator mi s'appalesa infame!

Con lui rompo ogni vincolo, al cospetto

Di voi, di lui medesmo!

Intorno al prode

Cento gagliardi giovani un celato

Ferro traggon dal seno, od ai nemici

Tolgon con forza l'arme, e questo pronto

Saluzzese drappello osa brev'ora

Sperar prodìgi. Orribile, ostinato

Combattimento per le piazze ferve,

E più fïate incontrasi Eleardo

Coll'iniquo Manfredo, e mescolati

Sono i lor brandi valorosi indarno.

S'incontrano Eleardo e Arrigo pure,

E quei più volte può svenare il vecchio

Ma con affetto filïal lo sparmia,

Benchè Arrigo lo imprechi. Alfin dal troppo

Numero sopraffatta è l'animosa

Schiera de' cento, e arretra, e quasi intera

Esce fuor delle mura, ed inseguìta

Viene per la campagna infin che l'ombre

Delle selve la involano ai crudeli.

Intanto agli occhi di Saluzzo un nuovo

Si compiva infortunio. In man degli empi

Cade la rocca stessa, e prigioniero

Indi co' dolci figli esce Tommaso,

E tratti van gli sciagurati illustri

In carceri diverse. Alta ventura

Ancor si fu che in piena sua balìa

Non li avesse Manfredo: ei li avrìa spenti.

Il fero siniscalco uman s'è fatto,

Sì perchè non abbietto era il suo core,

Sì perchè astutamente al rio Manfredo

Volea serbar temuto un avversario,

E sì perch'egli al generoso senno

Ed alle scaltre previdenze unìa

Non leve sete d'oro: immenso chiede

Pel vinto sir riscatto ai ghibellini.

Ma che diss'io, nel provenzal barone

Immaginando non abbietto il core?

Qual fu pietà la sua, mentre di scherni

Osò abbevrar fuor di Saluzzo, a' piedi

De' trionfati muri, innanzi a tutte

Le invereconde vincitrici squadre,

L'illustre prigionier, lui dichiarando

Spoglio di signorìa? lui dividendo

Da' lagrimosi tenerelli infanti,

Che al sir d'Acaia fur commessi e tratti

Di Pinerol nella superba rocca?

L'infelice Tommaso a sorso a sorso

D'amara prigionìa sorbì la tazza,

Prima in Cardeto brevi dì, poi chiuso

Di Savigliano entro il castel, poi tolto

Maggiormente alla vista de' mortali,

E seppellito in solitaria torre,

Di Pocapaglia sovra l'erta cima,

Indi levato da quel forse troppo

Mal securo deserto, e fra le mura

Di Cuneo inespugnabili nascoso.

Non sì tosto compita, ahi! di Tommaso

Fu la caduta dall'avito seggio,

Volò del tristo avvenimento il grido

Pe' saluzzesi piani e per le balze,

E l'intese Eleardo entro a' suoi boschi.

Disconfortati allora esso e i compagni,

Depongon le arditissime speranze

Accarezzate nella prima ebbrezza,

O se tutti non vonno appien deporle,

In avvenir remoto, indefinito

Le vagheggiano omai. Son ripetuti

D'amicizia fra loro e di costante

Cor ghibellino i dolci giuramenti,

E con dolor s'abbracciano bagnando

Di lagrime fraterne i forti petti,

E chi per questa sponda e chi per quella,

A diverso destin ciascun si trae.

 

 

 

V.

 

Oh fra i più strazïanti umani affanni

Quello di non perversa alma che rea

Ad un tratto si tiene, ove sciagure

Piovon non tanto sulla sua cervice,

Quanto sulle cervici de' suoi cari

E dell'intera patria sua, ch'ei vede

Agonizzar, nè può recarle aïta!

E più quando quell'alma, in suoi terrori

Disamata s'estima, e disamata

Da tal cuor ch'era suo! da tal diletto

Cuor, che per sempre ei scorge ora perduto!

Così da lunge qua e là mirando

E pensando a Maria, come colui

Che vedovato delle sue pupille

Pensa a quel sol ch'ei non vedrà più mai, -

Giunge di nottetempo alla badìa

D'Ugo il nepote, e chiede ivi l'ingresso.

- Dov'è lo zio?

- Signor, finiti dianzi

Erano i salmi, ed ei restò nel tempio.

- Colà n'andrò.

- Perturberesti forse

Le più calde sue preci. Odi, ti ferma.

A tai voci non bada il cavaliero,

Ed il portico varca, e l'infrapposto

Varca esteso cortile, e al tempio move.

Apre la porta, inoltrasi tremando;

E della sacra lampada al pallore

Scorge prostrato il solitario antico

Appo l'altar. Questi repente s'alza

Al rimbombo de' passi.

- Olà chi sei?

Assaliti siam noi dalle masnade

De' traditori? Oh che ravviso? Oh iniquo!

Tu nella casa del Signor? T'arretra:

Tinto di sangue cittadin tu vieni.

Sino all'ingresso s'arretrò Eleardo,

Confuso, esterrefatto, e dalle fauci

Mettea supplici grida. Alfine a' piedi

Dello zio inginocchiossi, e in abbondanti

Lagrime ruppe; indi a' singulti amari

Impose freno, alzò la fronte e disse:

- Uomo di Dio, non maledirmi ancora,

Porgi a mia strazïata anima ascolto!

- Che di Saluzzo avvenne?

- Ell'è caduta!

Saccheggiata! arsa!

- Che del sire avvenne?

- Strascinato è prigion.

- Quali i pensieri,

Quai sono i fatti di Manfredo?

- Orrendi!

- E il proteggente provenzal vessillo?

- Esulta negli oltraggi e ne' delitti!

- E l'empio figlio di mia suora il brando

Rotò per lor!

- L'infame brando io ruppi,

E qui vengo ad ascondere a' viventi

La mia vergogna. E per quell'ara santa

Giuro che illuso fui! Giuro che guerra

Credei seguir magnanima, e salute

Alla patria recar! Mi si è svelata

L'ipocrit'alma di Manfredo alfine:

Al par di te sue perfid'opre abborro,

E disdico mie stolte ire nutrite

Contro alla signorìa ch'oggi è crollata,

E per Tommaso prego Iddio! e lo prego

Che gli susciti vindici possenti,

Sì che il traggan di carcere, e le insegne

Espulsino straniere, ed ei risalga

Al seggio avito, e il patrio suol conforti!

- Oh Eleardo! mio figlio! àlzati; al cielo

Chi delle colpe si ricrede, è caro.

Piangi fra le mie braccia il breve fallo,

E nobile fidanza indi ripiglia.

- Unica posso una fidanza accorre

Dopo tanto error mio; posso divina

Misericordia chiedere e sperarla,

Ma lontano dagli uomini, ma scevro

D'ogni gloria del mondo. Io tutto perdo

Ciò che più sorrideami, e affronto l'odio

Del padre stesso dell'amata donna!

L'odio di lei medesma! Alle terrene

Cose son morto; seppellir qui voglio

Tra penitenti angosce il nome mio!

- Monaco tu? Vera sarebbe questa

Vocazïon del Re del Cielo?...Ascolta.

- Ugo, non contrastar; non mover dubbio

Sulla chiamata che a me volge Iddio.

Onor, dover m'astringono a deporre

L'armi impugnate pel tiranno, e questa

Ritratta mia decreto è che per sempre

A me toglie la vergin ch'io adorava!

Dopo tal sacrificio, il mondo spregio;

Più non resta per me che o disperata

Morte, o d'un chiostro il confortato pianto.

- Figlio, se così scritto è dall'Eterno,

Così sarà. Ma intanto a me l'Eterno

Pon nell'alma un consiglio: odi e obbedisci.

- Fede ti presto; obbedirò.

- Disdici

Con voci ed opre apertamente il rio

Vincol che ti stringeva agl'invasori.

Gloria rendi al diritto; offri il tuo sangue

Pel patrio suolo. Ingegno e braccia al sire

Che oppresso giace e salvatori chiede,

Generoso consacra. Eccita i forti,

I deboli rincora, e lor rammenta.

Che speranza e virtù prodigii ponno.

Arrossiva Eleardo, impallidiva

A questi detti, ed arrossìa di novo,

E balbettava: - Obbedirò, ma...

- Tronca,

Gli disse il vecchio, ogni esitanza, e parti.

Servi al tuo prence ed a Saluzzo.

- Come?

- Volgiti a Dio; t'ispirerà. T'adopra

Sì che, per gara de' baroni, l'oro

Di Tommaso al riscatto or si fornisca:

Scuoti la possa de' Visconti, scuoti

I nostri prodi. Combattete: egregio

Acquista un loco tra' vincenti, o muori!

- Ch'io snudi il ferro, e di Maria nel padre

Forse mi scontri, e di svenarlo io rischi?

Troppo, troppo dimandi. A me bastante

Sforzo è perder Maria, qui seppellendo

I giorni miei fra lagrime e rimorsi.

- Più degna del Signor, dopo alti fatti,

Riporterai qui la tua fronte, io spero,

E non che il padre di Maria tu sveni,

Di salvare i suoi dì forse avrai campo!

Profetici parean gli atti, gli sguardi,

E la voce del vecchio. E ciò dicendo,

Forte afferrò la destra d'Eleardo,

E dalla porta appo l'altar lo trasse.

Ivi dalla parete una pesante

Antica spada sciolse, e a lui: - La spada

Quest'è che strinsi in gioventù, e di sangue

Saracin l'abbevrai; prendila e pugna

Com'io pugnava per fratelli oppressi.

Eleardo s'infiamma; il sacro ferro

Prende, snuda, lo bacia, il pon sull'ara;

Attesta Iddio che il roterà sugli empi;

Le preci implora del canuto, e parte.

E quand'ei fu partito, Ugo prostrossi

Novamente nel tempio, e pel nipote

Orò gran tempo, insin che all'altro ufficio

Mosser ver l'alba in coro i cenobiti.

Allora il santo abate al pio drappello

Disse: - Pregate per Saluzzo!

E pianse;

E diè contezza dell'orrenda guerra;

Ed i monaci in cor si rammentaro

Parenti e amici, e lagrimaro anch'essi.

Pregaron per Tommaso e pe' suoi fidi,

E pregare altresì per gli oppressori,

Solo Iddio supplicando a spodestarli

Della vittoria che li fea superbi.

 

 

 

VI.

 

In popol da' civili ire diviso

Speranza poca è di salute, allora

Che sol gagliarde fervono le incaute

Anime giovanili, intente a còrre

Bella, sognata, non possibil palma,

Mentre della canizie intorpidito

Vacilla il senno, sì che norma e freno

Agli audaci inesperti alcuna sacra

Fronte non sorge di guerriero antico.

Mancanza tal di celebrato prode

Che vero prode alla sua patria splenda,

Nel colmo avvien de' tralignati tempi,

E lunga indi stagion regna di pazzo,

Sanguinoso dominio e d'anarchìa,

Moltiplice opra di fanciulli eroi,

Fintanto che spossati e fatti vili

Piegano il collo a tranquillante giogo.

Non a tal segno eran corrotti i giorni

Di Saluzzo ch'io canto, abbenchè tristi.

Gioventù inferocìa, ma valorosi

Vecchi brillavan sui crescenti ingegni

Per nobil fama di bontà e prodezza.

Fra tai canuti un prence grandeggiava,

E Giovanni era, l'invincibil sire

Dell'alte torri di Dogliani. Ei nato

All'avo di Tommaso era fratello,

E niun de' feudatarii dominanti

S'agguagliava a Giovanni in virtù schiette

D'amico e padre e leal servo a quelli

Che abbisognavan di consiglio o scampo.

In dì lontani ei superava i mille

Cavalieri compagni in patrie pugne,

Ed in pugne oltremar, sotto il vessillo

De' campioni di Cristo: or men robusto

È il braccio suo, ma pronta sempre e forte

La intelligenza e immacolato il core.

Grande è la fè del venerato prode

Pel suo nipote or prigionier, ch'egli ama

Siccome dolce padre ama il suo figlio,

E ad un tempo siccome un pio guerriero

Ama il signor cui vassallaggio debbe.

Giovanni con baroni altri devoti

A ghibellina parte ed a Tommaso

S'adopravan solleciti, sì ch'oro

Adunar si potesse e adunar gemme,

Al fine urgente di comporre il chiesto

Spaventoso tesoro, onde al marchese

E a sua progenie libertà riedesse.

Un dì alle sale di Dogliani aveva

A non lieto convito egli parecchi

Fervidi amici accolto, a consultarsi

Coi lor fidi intelletti e a stimolarli,

Prodigando con bello accorgimento

Lodi e parole di speranza e preghi.

Dopo la mensa i congregati forti,

Nel bollor de' pensieri e de' colloqui,

Facean di voci rintronar le auguste,

Adornate di ferri, alle pareti,

Allor ch'entrò il valletto d'armi, e nunzio

Fu dell'arrivo d'Eleardo.

Al nome

D'Eleardo s'aggrottano le ciglia

De' ghibellini.

- Ingresso entro tue mura

Darai, Giovanni, all'arrogante guelfo?

- Venga il fellon. Certo, Manfredo il manda:

Udirlo giova.

Non sapeano alcuni

Infra quei generosi fremebondi

Ch'Eleardo si fosse un di coloro,

I quai, vedute l'ultime rapine,

Disperata battaglia avean con gloria,

Benchè indarno, arrischiato entro Saluzzo.

Ei nella sala addotto vien. Severo

Salutevole cenno appena a lui

Movon gl'irati ghibellini.

- Donde

Tu, guelfo, a me?

- Sir di Dogliani, al cielo

Piacque arricchir le avite mie castella

Di non lieve tesor. Vedi tal borsa

E orïentali perle ed adamanti,

Che saranno alcun che, perchè s'affretti

Dell'infelice signor mio il riscatto.

- -Che veggo? Agli occhi miei creder poss'io?

Tu che a Manfredo!...

- A lui sacrato ho l'armi

Credendol pio liberator: lo vidi

Menzognero e tiranno, e gli ho disdetto

Il non dovuto mio servigio.

Ai torvi

Cavalieri asserenansi le fronti:

Esultan, cingon l'arrivato prode,

Gli stringono la destra, e per quegli ori

Da lui recati, soverchiare omai

Veggion quanto al riscatto era mestieri,

E benedicon Dio.

Quel dì medesmo

Andò il sir di Dogliani al regio campo;

La libertà ricomperò del prence

E de' figli di lui; volaron messi

A Cuneo, a Pinerolo: e nel seguente

Giorno redenti uscirono il felice

Padre dai torrïon che il Gesso bagna,

E dall'altra fortezza i giovinetti,

E si rïabbracciar con dolce pianto;

E dal suolo, natìo trasser raminghi

Con Riccarda all'Insùbre ospitai reggia.

Gli esuli amati accompagnò Giovanni

Con altri pochi; e fra costor v'avea

Un cavalier cui nascondea il sembiante

Ferrea visiera. Di Dogliani il sire

Narra per via a Tommaso, onde l'estrema

Voluta somma gli venisse. Il prence

Chiede ove sia il benefico Eleardo;

E il pro' Giovanni sottovoce: - Vedi

Quel cavalier che le sembianze cela,

E accostarsi non osa: egli è Eleardo.

Sino a' confini ei t'accompagna, e poscia

Rieder vuole a sue torri, e mantenervi

L'insegna tua ed apparecchiarti aiuti

Pel dì che il ciel te chiamerà a vittoria.

Serbar silenzio non potè il commosso

Esul marchese, e, volto il palafreno,

Ad Eleardo s'accostò, e per nome

Chiamandol con affetto, - A te perenni

Sien grazie, disse; or mi si svela quanto

Debitor ti son io.

Balzar di sella

Volle e prostrarsi il giovin, ricordando

La frenesìa che inimicollo al sire.

Ma smontò questi insieme, e lo rattenne

Con vivo amplesso, e intorno al cavaliero

Venner anco Riccarda e i dolci figli,

Mercè rendendo, chè senz'esso lunga

Durar potea la prigionìa tuttora.

Più da temersi non parea Tommaso

A' nemici frattanto, e sovra lui

Liete canzoni alzavano beffarde.

Ma tacquer le canzoni indi a non molto

Al grido inaspettato, esser Tommaso,

Non nella reggia de' Visconti, in vana

Mestizia ed in abbietti ozi sepolto;

Bensì già di colà rapidamente

Tornato a' gioghi saluzzesi, in mezzo

A falange d'armati, inalberando

Il vessillo di guerra.

Allor Manfredo

Sovra il suo seggio impallidisce, e copre

Il timor collo sdegno, alto sclamando:

- La prima volta i dì sparmiammo al tristo;

In nostre mani or riede, e, qual lo merta,

Guiderdon di sua audacia avrà la scure.

Solleciti provveggono Manfredo

E il sir del Balzo al moversi di lance

Che di Tommaso sperdano i fautori,

E s'odon rinnovar le invereconde

Del patrio ben promesse. Odonsi voci

D'increscimento onde si dice afflitto

Degli scempii Manfredo. Odonsi voci

Di futura clemenza irrevocata,

E di leggi paterne, e di novello

Tribunale integerrimo, e d'onori

A chi giovi col senno e colla spada

Al marchese, allo stato, ai sacri altari.

Uso antico, perenne è di potenze

Su rapina fondate, allor che spunta

Il giorno del periglio, il serrar l'ugne

Sovra l'oppresso volgo e accarezzarlo,

E sfoggiar mire eccelse a sgombrar tutti

Alfin gli avanzi de' passati danni.

Di nuovo suona piucchè mai d'astuti

Stranieri l'eloquenza: essi la mente

San di Roberto; un re sì pio, sì grande

Ne' benefici intenti, unqua non visse.

Ei vuol felice Italia, ei vuol felici

I prodi Saluzzesi. Attribüirsi

Non denno a lui nè a' capitani suoi

Nè all'ottimo Manfredo i brevi strazi

Recati dalla guerra al marchesato.

Si saneran le cicatrici, e in loco

Della prisca Saluzzo, è già decreta

Sulle rovine sue più vasta e bella

E forte una città che degna appaia

Di cotanto dominio, e faccia invidia

Alla rival Taurino. Al guelfo rege

Cosa non è che sì altamente prema,

Come il dispor che a' piè dell'Alpi sia

Il regio feudo Saluzzese un nido

Glorïoso di prodi, atto a far fronte

Ai vicini avversari. Indi i confini

Di questo feudo estendere or si vonno,

Sì che divenga ampia duchea gagliarda,

A' Visconti terrore ed a' Sabaudi.

Tal dipintura offerta è dagli scaltri

Alle volgari fantasìe. Nè il lustro

Della reggia di Napoli si tace,

Che l'egual non fu visto, e il portentoso

Incivilir de' popoli ove impulso

A piena civiltà dona sì forte

Il gran Roberto; il gran Roberto, amico

Di dottrine e bell'arti; il gran Roberto

Che pone il core in luminosi ingegni,

E più in Petrarca, uomo divino, a cui

Sulle chiome Roberto in Campidoglio

Metteva fregio d'immortal corona.

E si dice che tosto il re a Saluzzo

Con Petrarca verranne e coll'arguto

Narrator di Certaldo, il cui volume

Fra le più vaghe istorie annoverati

Ha d'una sposa Saluzzese i vanti,

Onde per tutti d'Occidente i regni

L'alme gentili, in onorar Griselda,

Onoran di Saluzzo il caro nome.

Ed in qual secol e in qual mai contrada

Mancaron voci splendide e robuste

Ad adular la moltitudin cieca,

Schernendo quasi barbara e compiuta

La vicenda de' scorsi anni infelici,

E asseverando ch'ora alfin comincia

L'età de' veggentissimi intelletti?

Ma tempi v'ha più di prestigio ricchi

Per quest'amabil fola; e simil tempo

Era quel di Roberto e delle tante

Suscitate degl'Itali speranze,

Ch'indi la morte di quel re disperse.

Tai brillanti menzogne avriano forse

Illuso ancor le Saluzzesi valli,

Se a governar l'esercito severa

D'un retto capitan si fosse stesa

La destra allor, frenando de' guerrieri

L'esecranda licenza. Al siniscalco

Tanta giustizia non premea; invocata

Venìa talor, ma indarno da Manfredo.

Ambo imperar voleano, e il Provenzale

Non consentìa che un suo guerrier giammai,

Per quante iniquità sui vinti oprasse,

Colpevol fosse detto e avesse pena.

Del supremo stranier la tracotanza,

E quindi le ribalde opre di mille

Armati suoi sovra l'inulta plebe

Qui riprodusser quel furor, che visto

S'era in Sicilia poco innanzi, quando

Per l'isola scoppiar vespri di sangue.

Se non che men secreti i Saluzzesi

Scorger lasciaro improvvidi le trame,

E più avveduti e unanimi vegliaro

Gl'investiti oppressori alla difesa.

Tace il mio carme i varii assalti e i varii

Destini delle insegne ora fuggiasche

Or vincitrìci. Sempre a' ghibellini

Anima principale era il Dogliani,

Come già tempo il Procida a sue terre,

E fra i ministri al suo comando egregi

Splendea per senno e per virtù Eleardo.

 

 

 

VII.

 

Amor di patria in vani sogni il core

No, non agita allor, ma di divina

Potenza il nutre e lo sublima, quando

Svolgesi in terra da stranieri oppressa:

Allor non dubbia è sua purezza; allora

Tutte s'intendon l'alme generose

Che fremono del giogo; allor divisi

In discordanti aneliti e dottrine

Non son nobili e volgo: unica han meta

L'espulsïon delle insultanti spade,

E della prisca dignità il ritorno.

Quanto in que' dì contrario al patrio bene

Fosse pe' Saluzzesi il guelfo spirto,

Meglio comprese ognuno all'improvvisa

Morte del vecchio provenzal monarca.

Orbo questi del figlio, al debil pugno

Della nepote abbandonò lo scettro;

E della incauta il leve cor s'avvolse

In infelici amori, e la sua fama

Fu dalla morte del trafitto sposo

Più orrendamente deturpata, e i novi

Mariti la tradìan, sin che il feroce

Vendicator carnefice a lei fessi.

Sceso Roberto nella tomba, crebbe

Per tutta Italia il ghibellin coraggio,

E si volser de' più le speranzose

Ciglia novellamente alle promesse

Della potente signorìa Lombarda.

Moltiplicati vidersi gli esempli

Di fraterna concordia e di valore

Ne' nostri lidi Saluzzesi. Al bello

De' popoli fervor corrispondea

La virtù di Tommaso: egli emulava

De' suoi più forti la prodezza. Il nome

Di Tommaso era sola indi una cosa

Col nome della patria al cor de' giusti;

E da lunga, sfortuna raffinato,

Il suo spirto gentil s'affratellava

Sinceramente co' minori, e segni

Dava di gratitudin commoventi

A cavalieri e ad infimi mortali

Che ponean fede in esso, ed olocausto

Con lui fean degli averi e della vita.

Godea l'animo a tutti i generosi

In vederlo onorar gli alti consigli

Del canuto Giovanni. Eran Tommaso

E di Dogliani il sir qual figlio e padre,

E il portentoso vecchio corregnando

Söavemente sulle suddit'alme

Più e più le affidava. Alcune volte

Lievi nascean principii di discordia

Nelle diverse ghibelline schiere,

Perocchè a' Saluzzesi andavan misti

Sotto il vessillo di Tommaso e Insùbri

E assoldati Germani. Alla parola

Dell'antico Giovanni i dissidenti

Animi s'acquetavano, e sebbene

Cagion di lagno non restasse agli altri,

Pur gioìa il Saluzzese, ognor veggendo

Che anteposto a lui mai nell'intelletto

De' sommi duci lo stranier non era.

L'opposto caso tuttodì avvenìa

Nella parte de' guelfi. Il rio Manfredo

Dell'odio de' nativi esacerbossi

Più feramente ciascun giorno; e volle

Col terror contenerli: indi suprema

Grazia spargea sugli esteri comprati,

E verso ogni nativo anco più fido

Scorger lasciava diffidenza ed ira.

Giunse a tal, ne' suoi dì più disperati,

La tirannide sua, che i prigionieri,

Se patria avean la saluzzese terra,

Considerava ribellanti degni

Dell'ultimo supplizio, e senza indugio

Strage ne fea. Tal rabida inclemenza

Costrinse i ghibellini a rappresaglia,

Sì che perdòn più non brillò sui vinti.

A quel tempo si vide in ambo i campi

Accorrer di Staffarda il santo abate,

Misericordia supplicando invano

Pe' guerrieri captivi. A lui Manfredo

Con vilipendio rispondea, sgozzando

Innanzi a lui le vittime, e nell'altro

Campo l'udìano con ossequio i prodi,

Ma rispondean che giusto uso di guerra

Stabilìa le vendette, unico modo

A frenar gli avversari in tal barbarie.

Per tutti gl'immolati Ugo gemea,

E notte e giorno l'atterrìa il timore

Che prigion di Manfredo in qualche pugna

Eleardo restasse. Ah! insiem con esso

Un altro cuor da quel pensier tremendo

Era a que' tempi strazïato: il cuore

Della figlia d'Arrigo. Avea creduto

L'infelice Maria poter nemica

Vivere ad Eleardo, allor che intese

Ch'ei dipartito dalle guelfe insegne

Alla destra di lei più non ambiva.

L'avea davvero alcuni dì abborrito

Com'uom che lei tradìa, com'uom che l'armi

Tradìa de' generosi. Ah! nel sincero

Animo della vergin quello sdegno

Fu breve fiamma, e sfavillò al suo ciglio

De' ghibellini la giustizia, e pianse

Riconoscendo in qual funesto errore

Il padre s'avvolgesse. Ella in Envìe

Nel paterno castel traea la vita

Colle dilette ancelle, trepidando

Pel genitore e per l'amante. Ascesa

I passegger vedeanla da lontano

Su questo ovver su quel dei sette grigi

Torrïoni d'Envìe. La sventurata

Scorgea nella pianura o sovra i colli

Gl'incontri delle avverse aste feroci,

E talor le parea per que' remoti

Lochi discerner dal fulgor degli elmi

Arrigo od Eleardo, od ambidue

Cozzanti insiem. Prostravasi la pia

Lagrimando e pregando il Re del Cielo

E la Donna degli Angioli; e sovente

Restava lunghi giorni il dilicato

Corpo affliggendo con digiuni, e intere

Vigilava le notti in calde preci,

I proprii patimenti a Dio offerendo

Per la salvezza de' suoi cari. E seco

Viveano in lutto e assidua penitenza

Le fide ancelle e antichi servi. L'alme

Angosciate si schiudono a paure

Di superstizïone. Or dalla torre

Nelle nubi scorgean croci di sangue,

E sembianze di scheletri, e l'immensa

Falce e dell'Angiol della morte il pugno;

Or di sciagure sovrastanti indizio

Lo strido era dell'ùpupa ed il mesto

Urlo notturno dell'errante cagna;

Or dagli armati servi a mezzanotte

L'estinta madre di Maria s'udiva

Singhiozzar nel sepolcro, o lentamente

Scoperchiarlo ed uscirne, e per le brune

Scale salire, ed appellar con fioca

Voce il marito o la diletta figlia.

A calmar quelle ambasce e que' terrori

E a consolarsi fra i soavi amplessi

Dell'innocente vergine, il cruccioso

Padre venìa talor. Con duri modi

L'aspreggiava e garriala del suo pianto,

Poi commoveasi e l'abbracciava, e preci

La supplicava d'innalzar pe' guelfi.

E nelle rughe della smorta fronte

Ella più e più leggea del genitore

I sinistri presagi. Insinüante

Sonava un non so che nella pietosa

Voce di lei che costringea il canuto

A poco a poco a palesarle occulti

Sempre novi dolori.

Un dì le disse:

- Più non pregar pe' guelfi! abbandonati

Siamo da Dio! Deluse ha mie speranze

Il superbo Manfredo: i miei consigli,

I preghi miei non cura. Adulatrici

Parole ei vuol; darle non so. Un drappello

D'infami lusinghieri applaude a tutte

Sue tirannie, le suscita, il fa cieco

Stromento a loro insazïabil sete

Di tesori e vendette. Apportar senno

Volevamo e giustizia; abbiam delitti

E stoltezza apportato. Ad uno ad uno

Da noi si dipartìano i prodi amici:

Pochi omai siamo ed esecrati, e all'orlo

Dell'estrema ignominia!

- Oh sciagurate

Voci! oh misero padre! I vaticinii

Ecco d'Ugo avverati! Il reo vessillo

Lascia tu dunque di Manfredo: accetta

Di Tommaso la grazia!

- È tardi, o figlia!

Errò Manfredo, ma infelice il veggo:

Mai da prence infelice non si scosta

Fuorchè il vigliacco!

- Oh padre amato, pensa...

- Che vigliacco non son, che con Manfredo

Debbo cader.

- Mai di vigliacco taccia

Ad Eleardo non darassi.

- Ei corse

Quando da noi si svincolò, a bandiera

D'un prence espulso: audace era il partito,

Ma generoso. Non così oggi fora,

Correndo a sir cui la fortuna arride.

Cessa il tuo supplicar, cessa il tuo pianto:

Dimane si combatte, e se non opra

Per noi prodìgi Iddio... dimane, o figlia,

Più non hai padre!

- Oh feri detti!

- Io vengo

L'ultima volta a benedirti forse:

Con vigor di te degno, odimi: stirpe

Di codardi non siam. Tergi le ciglia,

Frena i singhiozzi; te l'intìmo. Ascolta:

Un patto pongo al benedirti.

- Quale?

- Bada che guelfo io moro, e maledetta

Sarà tua man se a ghibellin la porgi!

- T'affida, o padre: intendo. Amo Eleardo,

Ma te guelfo perdendo, a ghibellino

Moglie mai non sarei!

- Tutti il Signore

Dunque sul capo tuo spanda i suoi doni!

Me sol, me sol de' falli miei punendo,

Sparmii l'anima tua!

Disse. Ad un servo

L'accomandò; da lor si svelse e sparve.

 

 

 

VIII.

 

Infelici ambidue! - Ma più infelice

Forse d'ogni innocente addolorato

È quel mortal che temerario corse

A illusïoni infauste, onde tormento

Ineluttabil ridondò a' suoi cari!

Oh come allor, nella pietà ch'ei sente

Di questa o quella vittima diletta,

Tardi vede primier debito d'uomo

Esser religïon, carità, pace,

Provvedimento a dolce sicurezza

Di domestiche gioie, e non desìo

Imprudente di gloria e di perigli.

Tal verità gli splende, or che non puote

Più sollievo ritrarne il vecchio Arrigo;

E forte è assai per sè medesmo in tutte

Avversità, ma non è forte, al duolo

Della figlia pensando, e sebben mostri

In mezzo a' suoi guerrieri animo invitto,

Spesso ei nel manto si rinchiude e piange.

Tre dì Maria si stette in disperati

Non cessanti delirii:

- Empio Eleardo!

Perchè movevi alle felici insegne

Destinate al trionfo, e il padre mio

Per dolci preghi e dolce vïolenza

Teco a salvezza non traevi? Oh fossi

Tu restato co' guelfi! il valoroso

Tuo braccio avriali sostenuti. Un prode

Fatal perdemmo in te: spesso deciso

A pro de' ghibellini hai la vittoria.

Possente impulso hai dato alla fortuna

Del profugo Tommaso: alta, primiera

Cagion tu sei delle sconfitte nostre.

Ah, non m'amavi, ingrato! E insino ad ora

Io figlia iniqua, immemor de' perigli

Del caro padre mio, secretamente

Alzato sempre voti ho pe' tuoi giorni!

Que' voti abborro! quell'amor disdico!

Il padre mio si serbi! il padre vinca!

Il padre atterri i suoi nemici, i miei!

Guelfa, guelfa son io! Mendace è il grido

Che di virtù civile ai ghibellini

Or dona palma. I nostri petti infiamma

Vero di patria amor: calunnïato

È Manfredo da voi; calunnïato

È il padre mio, di giuste opre seguace;

Ma vinti siamo, e il mondo vil ne impreca!

Così l'immenso affanno isconsolata

Iva Maria sfogando; e avvicendava

Accenti d'ira e di pietà, e d'umìle

Fervida prece. E promettea al Signore,

Se dagli eccidii salvo andasse il padre,

Essa tutrice farsi ad orfanelli,

A vedove, ad infermi, a pellegrini,

E tutti gli anni un dono offrire eletto

Sì di Riffredo al monister famoso,

Sì ad altri santi d'innocenza asìli.

Ella avrebbe voluto alle promesse

Che le dettava il core, aggiunger quella

Di cingere in Riffredo il santo velo,

Ma la meschina non potea, pensando

Al solitario padre orbo di figli!

Ed, ahi, forse non conscia ella a sè stessa,

Anco pensava mal suo grado ognora

A colui, che ne' scorsi anni felici

Erale stato così caro!

Oh come

La infelice Maria sta dalla torre

Investigando ogni lontano moto

D'armi o di passeggieri, ed in lei cresce

Indicibil timor ch'ella securo

Presentimento d'alto lutto estima!

Chi son que' duo che sull'arcion veloci

Movon per la pianura? Ad essi lunghe

Soverchiamente son le usate strade,

E là passano un rio, là per gli sterpi

D'una macchia s'inoltrano, agognando

Il più diretto corso. Alla borgata

Pareano volti di Revello, e pure

Quivi non si soffermano, e alla terra

Certo d'Envìe sospingono i cavalli.

Oh di Maria nell'anima dubbiante

Ansïetà novella? Or si protende

A guardare in silenzio, or si dispera,

E grida e trema di saper chi sièno

Que' frettolosi. Omai discerne alfine

Che non guerriera è la lor veste; e poscia

Sospetta, avvisa che l'un d'essi il giusto

Presule sia col fido laico. Un dubbio

No, più non è; son dessi!

A quella vista

Le ginocchia le mancano, ma i sensi

Non perde ancor. La reggono le ancelle,

E la misera esclama: - Ugo! tu vieni

A me del padre ad annunciar la morte!

Ma quando intese appo il castel d'Envìe

Scalpitare i corsieri, allor sì grande

Fu la tema e il dolor, che appieno svenne.

Ahimè! spenta la credon qualche tempo

Le ancelle e i servi. Alfine in sè ritorna,

Ed entrar vede pallido, turbato,

Lagrimoso il canuto.

- Il padre mio...

Parla... dov'è sua spoglia?

- Ei vive ancora;

Ma prigionier, ma dalla cruda legge

Che a morte danna i prigionieri, oppresso!

- Oh sventurato! oh più felici quelli

Che in battaglia cadeano! E tu a supplizi

Lasci lui trarre? Intercessor non debbe

Uom di Dio farsi a disarmar le atroci

Ire de' vincitori?

- Ah! da te sono,

O vergine, ignorati i vani sforzi

Che tentai da Tommaso! I suoi nemici,

Or volgon pochi dì, sacrificaro

Barbaramente dieci illustri teste

Di ghibellin captivi. Universale

Nell'oste ghibellina è quindi il grido,

Che gl'immolati abbian vendetta. Arrigo

Morrà domane con nov'altri: il cenno

Tommaso niega rivocar; respinto

Venni da lui. Prova sol una or resta:

Seguimi al campo: sforzerem l'ingresso

Della tenda del sir; forse il tuo pianto

Ammollirà il suo nobil cor, dai truci

Fatti d'alterna rabbia incrudelito.

- Il ciel t'ispira: andiam.

Rapidamente

La vergin s'allestì; rapidamente

Ella e pochi fedeli in sui corsieri

Volser con Ugo al saluzzese campo.

Ad un tronco giaceva incatenato

Tra i furenti nemici Arrigo, a breve

Di Saluzzo distanza. Ei siccom'uomo

Che avea la gloria di Saluzzo amata

Vagheggiando per essa e per Manfredo

Fortune alte, impossibili, or mirava

Con istupor, qual visïon non vera,

Quell'ultima sconfitta, e quell'orrendo

Svanir d'ogni speranza, e quel ritorno

De' ghibellini e di Tommaso, e quella

Guerra in veloci tratti or consumata

Con nessun frutto, fuorchè stragi e scherni

E povertà ed obbrobrio e sacrilegii!

E tutto ciò per vicendevol, grande,

Creduto zelo di virtù e di patria!

E innanzi a lui mirando egli quel loco

Dove a prosperi dì sorgea Saluzzo,

E dove diroccato oggi è il recinto,

E dentro quel, fra orribili macerie,

Non v'ha che rari antichi alberghi e templi

Con negri campanili, e qualche novo

Incominciato cittadino ostello,

Sente Arrigo la dura alma infiacchirsi

Da pietà inusitata. Ei nella foga

Delle gioie guerresche avea con occhi

Di ferocia le fiamme un dì veduto

Ed il saccheggio devastar Saluzzo.

Or cessata l'ebbrezza, il cavaliero

Delle avvenute iniquità s'affligge,

E dice mal suo grado: - Ecco onde il Cielo

Manfredo e i guelfi e me con lor condanna!

Poi caccia quel pensiero, e, benchè rieda,

Celarlo vuole, e alta la fronte ei tiene,

Con dispregio guardando i vincitori.

Cacciar vorrebbe altro pensier più dolce,

Ma in un più divorante. Ei nelle meste

Sale d'Envìe scorge la figlia, ed ode

Il miserando suo lamento, e sola,

Orfana, senza prossimi congiunti,

Senza soccorsi d'amistà la mira;

E le canute palpebre di pianto

Amarissimo grondano e i singhiozzi

Frenar non puote, e colle scarne mani

Si copre il volto per vergogna e rugge.

Un de' custodi come un tempo i falsi

Di Giobbe amici, lo compiange e incuora.

- Non avvilirti, o prode; in cielo è scritto

Il destin de' mortali; adorar sempre

Dobbiam di Dio gl'imperscrutati cenni:

Non accettarli è codardia e bestemmia.

- Taci, impudente ghibellin; m'è noto

Che giusto è Iddio, che i falli miei punisce,

Che l'are sue mal onorai, che vissi

D'ira e d'orgoglio più d'ogn'uom, che merto

Cader per mani inesorate e inique.

Non mi ribello contro a lui; non biasmo

Il suo rigor, non tremiti codardi

Me presso a morte invadono: un'angoscia

Non ignobil mi preme. Ho una figliuola

Ch'orfana resta, e sua sventura io piango!

- Padre ai pupilli derelitti è Iddio.

- Vero favelli, ma la terra è piena

Di pupilli derisi, insidïati,

Spogli di tutto; ed ahi! su lor punite

Forse da Dio son le paterne colpe!

Indi io pavento, io peccator, sul fato

Che all'innocente figlia mia sovrasta.

- Ben paventate, o sciagurati guelfi,

Che tanti alberghi incendïaste, e tanti

Olocausti sacrileghi immolaste:

Men empio è il ghibellino.

- Empi siam tutti,

Amor vantando di giustizia a gara,

E ognor con nostre stolte ambizïoni

Opprimendo la patria e calpestando

Natura e dritti ed innocenza e onore!

Così dal labbro del feroce vecchio

Usciva un misto d'indomata audacia

E di sincero pentimento. Il capo

Piegava sotto ai fulmini divini,

Ma i consigli degli uomini esecrava,

E negli sguardi suoi sì presso a morte

Indistinti fulgean Cielo ed Inferno.

 

 

 

IX.

 

Bella fra tutte umane imprese è quella

Dell'uom che avvampa di desìo di pace

E di perdon, non per suo proprio bene,

Ma per altrui! ma per servire a Dio,

Ed alla dolce patria e ad infelici

Cuori ch'egli ama e consolare anela!

Tal nell'ire civili è il vostro uficio,

O vegliardi autorevoli che all'ara

Del Dio di pace consecraste i giorni!

Ecco arrivare al campo Ugo e Maria:

E mentre del marchese al padiglione

Van rivolgendo accelerati i passi,

Veggono appunto da catena stretto

A fisso legno fra custodi Arrigo.

Con qual pianto e quali impeti di grida

Prorompe la fanciulla infra le care

Braccia paterne! e qual celeste han suono

Sue filïali tenere parole

A genitor così infelice? Ei serra

Al sen quella innocente; e sclama:

- Oh gioia!

Ma insana gioia! Oh nuovi affanni orrendi!

Deh, perchè a me non li sparmiava Iddio?

Non misero abbastanza era il mio fato,

Ugo crudel? Tu qui la figlia traggi

A vedermi morir!

- Padre, ei mi tragge

A salvare i tuoi dì.

- Che? supplicando

Codardamente il vincitor maligno

Di largirmi il perdon? Non sarà mai!

La stirpe mia non annovrò guerrieri

Che morir non sapessero da forti.

D'espor ti vieto il virginal sembiante

Al barbaro sorriso de' felici!

Io so morir, io morir voglio prima

Che la mia figlia a' piedi altrui si prostri!

- Padre, lasciami: il so, ti disdirebbe

Di coraggio scarsezza ai più tremendi

Giorni della sconfitta, e se il nemico

Te immolar vuol, da prode cavaliero

E da cristiano perirai pregando

Non gli uomini, ma Dio. Lasciami: un altro

Dovere è quel di figlia. A me ignominia

Fora il non chieder la tua vita al sire.

- Vilipesa sarai.

- Pur vilipesa,

Degna sarò d'ossequio e di compianto:

Avrò adempiuto quanto amor di figlia,

Quanto la voce del Signor m'impone.

Contendeano in tal foggia, e l'ostinato

Arrigo persistea nel suo divieto;

Ma di Staffarda l'infulato duce

Strappò Maria dalle paterne braccia,

Ed attraverso a numerose tende

Corrono di Tommaso al padiglione.

Udivan essi da lontano gli urli

Del corrucciato Arrigo:

- A tutte dunque

Serbato io son le più esecrabili onte!

Di me la figlia indegnamente stesa

Ad implorar la vita mia, la vita

Che mi si fa spregevol, che non posso,

Che non voglio accettar! Riedi, ten prego,

Tel comando! paventa il furor mio,

Il maledir d'un genitor morente!

Ghibellino fu sempre Ugo, e nol move

Pietà di noi. L'ipocrita vegliardo

Del nostro duolo infamemente esulta,

E per farlo maggior vuol che d'Arrigo

L'ultima figlia esempio doni abbietto.

Del minacciar, paterno e delle ingiuste

Voci contr'Ugo questa inorridiva;

Ma il venerando abate alla fanciulla

Reggeva il cor, dicendole: - Salvarlo

Dobbiam malgrado l'ira sua superba.

Ma qual d'entrambi è l'animo allorquando

Dalle guardie interdetto al padiglione

Vien lor l'ingresso! Non bastàr nè preghi,

Nè lagrime, nè strida. Un assoluto

Cenno del sir faceva inesorati

Tutti i guerrieri che cingean la tenda.

Stavano dentro a quella in assemblea

Col supremo signor parecchi duci;

E questi duci tutti eran da lunghi

Danni e da amare perdite innaspriti,

Sì che spinto da lor venìa il marchese

A costante fierezza, insin che, espulsi

Pienamente i nemici, astro securo

Di comun gioia sfavillar potesse.

Entro la rocca di Saluzzo chiuso

Erasi il rio Manfredo, e colà ancora

Ei da stranieri iva sperando aïta,

Benchè spersi fuggissero, inseguiti

Dall'antico Giovanni e da Eleardo.

Di questi duo suoi fidi cavalieri

Or più Tommaso non avea contezza

Già da due dì. Certo parea il trionfo;

Ma se fallito avesse? e se impensate

Novelle squadre di possenti guelfi

Nel paese irrompessero? Que' dubbii

Nutron lo sdegno di Tommaso. Impone

Che congedati sien Ugo e Maria,

E quai si fosser supplicanti.

Allora

Pria di ritrarsi il presul generoso

Resistendo alle guardie, alzò la voce:

- Nobil marchese di Saluzzo, ascolta

I moti del cor tuo: non meritato

Da' tuoi nemici è di tua grazia il raggio,

Ma so ch'aneli d'emanarlo, e Iddio

L'adempimento di tua brama aspetta

Per benedirti più e più...

Troncato,

Fu duramente da' guerrieri il pio

Grido del vecchio, e fu troncato il grido

Dell'angosciata vergine, e repente

Lunge dal padiglion venner sospinti.

Videli Arrigo a sè tornare, e disse

Con amaro sogghigno: - Il pianto vostro

Non terse dunque il vincitor? Lucraste,

E ben vi sta, gli ultimi oltraggi: io puro

Son di codesto obbrobrio vostro almeno!

A Dio mi curvo; a nessun uomo in terra!

Ma dopo quel sogghigno e quell'acerba

Favella, intenerissi alle dirotte

Lagrime di Maria. Con lui rimase

La sconsolata, e ritornò alla tenda

Il santo amico lor, novellamente

Tentar volendo di Tommaso il core;

Ed intanto la vergine abbracciando

Del padre le ginocchia, or lo pregava

Di placar Dio con miti sensi, ed ora

A Dio medesmo rivolgea sue preci.

Ugo, ahimè, ricompar! nulla otteneva,

Nulla ottener più spera! Alta mestizia

Al degno sacerdote in volto siede,

Ma mestizia di forte alma che viene

Un moribondo a regger nel tremendo

Agonizzar dell'ore sue supreme.

Maria l'intende, e misera prorompe

In impeti di duolo inenarrati;

Smarrisce i sensi, e inconsapevol tratta

Viene appartatamente infra pietose

Donne che a lei soccorrono. Prostrossi

Arrigo allor del sacerdote a' piedi,

E confessò sue colpe. E dacchè sciolto

Gli fu in nome di Dio di queste il laccio,

Si rïalzò con pacatezza altera,

Ma non di quella indomita alterigia

Che in lui dianzi apparia, qual di nociva

Fosca meteora formidabil luce.

Or quell'ardito e dignitoso sguardo

Porta di pace e d'umiltà un'impronta

Che vien dal Ciel, dal Cielo, autor sublime

Di stupende armonie!

- Dov'è mia figlia?

Ugo, traggila a me: l'estrema volta,

Benedirla degg'io. Meco brev'ora

Star si potrà.

Fu ricondotta al padre

La sventurata, ed ancorchè d'affanno

Le sanguinasse il cor, pur di lui vide

Con maraviglia la quiete, e grazie

Alla Donna degli Angioli ne rese,

Ed impose a se stessa umiltà, pace,

Eroica forza. Ella piangea, ma freno

Ponea a' lamenti, e con devote ciglia

Mirava il padre, e sue parole tutte

Accoglieva nell'anima, siccome

Parole d'uom che santamente muoia.

Festivo era quel giorno, e perciò l'altro

Pei supplizi aspettavasi. Omai tarda

Era la sera, ed Ugo apparecchiati

A pio morire aveva altri prigioni.

Ritorna ei quindi presso Arrigo, e i proprii

Palpitamenti di pietà vorrìa

Celare in parte: - O cavaliere! o donna!...

Tutto puossi con Dio!...

- Dal padre amato

Deh, ch'io non venga separata ancora!

Lontana è l'alba.

- Più crudel sarìa

Vicino all'alba separarvi.

Arrigo

Stringeva al sen la figlia, e lei disporre

Desïava a partir. Ma la infelice

Alla prova tremenda obblïò i miti

Sentimenti di pace, e la ragione

Le si turbò miseramente. - Oh guerre

Scellerate di popoli! oh stendardi

Di virtù menzognere! oh glorie infami

D'emuli cavalieri, onde son frutto

Crudeltà e morte! Ah! perchè Dio fecondi

Alla feroce umana stirpe ognora

Fa gl'imenei, se la catena intera

De' secoli spruzzata è d'uman sangue?

E qual di sì esecrande ire perenni

Colpa abbiam noi, dell'uom compagne e figlie,

Nate ad amar, nate a compianger, nate

A viver senza offesa, assorte in Dio!

Di qual delitto intrisa son perch'oggi

A me tolgano il padre i masnadieri,

Nè generoso pur vi sia terrestre

O celeste poter, che degli oppressi

Alla difesa accorra? Ed Eleardo

In ch'io tanto fidava, anco Eleardo

Ch'io tanto amava, abbandonommi!

Il campo

Suona improvviso di festanti grida.

Balza il core a Maria; porge ella ascolto:

Che sarà mai? Reduci sono il prode

Antico Doglianese ed Eleardo,

Apportatori di vittoria piena.

Brillan del presul le ispirate luci

Per novella speranza, e i passi affretta

Ver l'amato nepote; il giunge, il ferma,

E d'Arrigo gli parla.

Intanto usciva

Del padiglion Tommaso, e lieto amplesso

Porgeva a' trionfanti; e ratto a lui

Volgea tai detti di Dogliani il sire,

Indicando Eleardo; - Alla prodezza

Di questo forte molto devi, o prence;

Le più valenti squadre egli ha sconfitte.

Stende il marchese al giovin glorïoso

L'amica destra. Ei gliela bacia, e prono.

- Signor, grida, signor, me qui tu miri

Astretto a chieder dalla tua clemenza

A' pochi miei servigi alta mercede.

- Quai pur sieno tue brame, o campion mio,

Le manifesta, e saran paghe.

- I giorni

Chieggo salvi d'Arrigo. Il so, fu reo:

Non corrucciarti del mio ardito prego.

Arrigo a me qual padre ebbi molt'anni,

E padre è di colei che sul mio core

Sin dall'infanzia regna.

Ondeggia alquanto

Il magnanimo prence, indi prevale

Benignità sugli altri affetti, e sclama:

- Ho perdonato! ogni prigion si sciolga,

Ed a' suoi tetti rieda, apparecchiando

A più nobile oprar suoi dì futuri.

A quella augusta consolante voce

Mill'altre voci eccheggiano, e fra loro

Quella del vecchio di Dogliani, e quella

Del presul di Staffarda, e più robusta

Quella del giovin che all'amata donna

Rendere può del genitor la vita.

A tanti applausi si nasconde il prence

Rïentrando commosso entro sua tenda:

Ed ecco volan Ugo ed Eleardo

A scior d'Arrigo i lacci.

Il prigioniero

Uso ad ira e superbia, esitò prima,

Poi fu da conoscente animo vinto

E da dolcezza, ed Eleardo al seno

Colla figlia serrando, inginocchiossi,

E disse a Dio: - Sovra Tommaso schiudi

Tuo più giocondo riso, e prosperato

Sia nel dominio e nella prole, e cessi

A lui d'intorno ogni fraterna guerra!

Modestia e gratitudine e contento

E maraviglia e amor davano agli occhi

Della vergin bellissima un novello

Indicibile incanto, onde il fedele

Suo cavalier gioìva inebbrïato.

Scorge i lor voti il padre, e prende e unisce

Le destre loro. Un grido alza di gioia

Il felice Eleardo, e la tremante

Fanciulla irrompe in lagrime soavi,

Benedicendo la celeste aïta

Che i lunghi affanni in tanto gaudio volse.

Di Saluzzo la rocca indi a tre giorni

Spalancar si dovette. Uscì Manfredo

Con pochi suoi compagni ed esularo;

E in sua paterna sede il buon Tommaso,

Se non durevol pace, almen godette

Signorìa da virtudi alte illustrata,

E alle rovine di Saluzzo orrende

Nuovi successer tetti e nuovi prodi.


 

 

 




5 La Contessa Deodata Roero di Revello, nata Saluzzo.






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