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Silvio Pellico Poesie inedite IntraText CT - Lettura del testo |
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I SALUZZESI.
Cantica.
L'amore che porto a Saluzzo, mia città nativa, m'ha indotto a cantare un fatto luttuosissimo, che trovasi ne' suoi annali, al secolo XIV. Il Marchesato di Saluzzo era di qualche importanza a quei tempi, e la vicenda di cui parlo si collegava colle passioni che ferveano per tutta Italia. Nel 1336 Tommaso II succedette al padre nella signorìa di Saluzzo, ma gli fu contrastato il seggio da Manfredo suo zio. Tommaso avea per moglie Riccarda Visconti di Milano, ed era quindi uno de' Principi ghibellini, ai quali i Visconti erano capo, tutte le speranze della parte ghibellina appoggiandosi a quel tempo sovra Azzo fratello di Riccarda di Saluzzo, e poscia sovra Luchino Visconti, loro zio. Manfredo si professò guelfo per avere la protezione del potentissimo capo de' guelfi, Roberto Re di Napoli, della casa d'Angiò. Era questi un ragguardevole monarca per ingegno e per possedimenti.* *Oltre al suo regno ed alla contea di Provenza, suo avito dominio, gli appartenevano, per diritti veri o dubbii, parecchie signorìe qua a là in tutta la lunghezza della penisola. Roma e Firenze lo riconoscevano per protettore. Sventolava la sua bandiera sopra molte castella delle terre Lombarde, Monferrine, Astigiane, Piemontesi. A lui obbedivano Savigliano, Fossano, Cuneo ec. Non conduceva eserciti egli medesimo, e teneva, tutti quei disseminati dominii con masnade Provenzali, Napoletane o d'altre razze, sotto al comando di valorosi baroni, i quali, governando ciascuno a modo suo, mal sapeano affezionare le genti al loro sovrano. Voleva Roberto far cadere la potenza ghibellina de' Visconti, e domare tutti gli Stati Italiani; ma non essendo egli d'indole guerriera, operava con lentezza, e non conseguì mai l'ardito proposto. Guelfi e ghibellini si vantavano a vicenda d'essere i veri amanti della nazione, i veri fautori della civiltà, della giustizia, della causa di Dio; ed intanto mal si sarebbe distinto da qual lato fossero più errori e più colpe, benchè in tali tenebre pur lampeggiassero alcune alte virtù. L'età era cavalieresca e religiosa, con elementi di gelosie repubblicane. Tutto ciò è sommamente poetico. A que' giorni viveano con immensa fama di dottrina Petrarca e Boccaccio, ed altri uomini sommi; ed il re Roberto ed i Visconti si gloriavano d'averli ad amici. Siccome il Marchesato di Saluzzo attraeva gli occhi della corte di Napoli, non è maraviglia che il Boccaccio abbia dato luogo fra le sue più nobili novelle alla Saluzzese Griselda. Mentre quella splendida corte era modello di gentilezza, le schiere di Roberto, capitanate dal siniscalco Bertrando del Balzo, provenzale, e congiunte con altre armi, proruppero ne' nostri paesi per sostenere i pretesi diritti di Manfredo, empierono di rubamenti e di carnificine la contrada, espugnarono ed incendiarono Saluzzo, presero prigione il marchese Tommaso co' suoi figliuoli, gareggiarono con Manfredo a commettere ogni barbarie, e così in breve disingannarono coloro fra i prodi Saluzzesi che avevano sognato in Roberto un semidio, e ne' suoi guelfi altri semidei, chiamati ad abolire le antiche ingiustizie, ed a stabilire in Italia il secolo della sapienza e della rettitudine. Ottenne Tommaso per riscatto la libertà, e trovando che Manfredo e tutti i guelfi erano esecrati, si volse ad adunare nuova oste di ghibellini, v'aggiunse uno stuolo assoldato di lance straniere, ma ben disciplinate, guerreggiò e vinse. Il tiranno Manfredo e i suoi alleati furono espulsi. Questi avvenimenti di Saluzzo sono il soggetto della mia Cantica. Tratta di essi con assai numero di rilevanti particolarità la storia di Saluzzo di Delfino Muletti, e di Carlo suo figlio; ed ivi leggesi pubblicato la prima volta da esso Carlo uno scritto, in cui il cominciamento di quella guerra e delle crudeltà di Manfredo è dipinto con forza da autore di quel secolo, stato anzi egli medesimo testimonio della distruzione del luogo nativo. Quello scritto intitolato Calamitas calamitatum, Commentariolum Iohannis Iacobi de Fia, rivela nell'uomo che lo dettava una mente colta e generosa. Ei dimandava al cielo, e presagiva la caduta degl'invasori. - (Ploremus ergo coram Deo, poeniteat nos iniquitatum nostrarum, et a praesenti calamitate calamitatum maxima liberi facti erimus). La cacciata degli stranieri diede novella virtù ai Saluzzesi; le discordie civili scemarono, e s'estinse a que' giorni con Roberto la gloria della fatale casa d'Angiò, che aveva cotanto illuso ed insanguinato l'Italia. Carlo, figlio di Roberto, era premorto al padre, e lo scettro passò nelle mani di Giovanna, figlia di Carlo, la quale, rea dell'uccisione d'un marito, patì infiniti guai, ed infine dal vendicatore del primo marito fu data a morte.
I SALUZZESI.
Odium suscitat rixas, et universa delicta operit charitas. (Prov. 10. 12).
I.
Dolce Saluzzo mia! terra d'antiche Nobili pugne, e d'alternate sorti Prospere e infelicissime, e d'ingegni Che t'onoràr con gravi magisteri, O con bell'arti, o con sincere istorie, O coll'affettüoso estro che splende In ognun che ti canta, e vieppiù splende. Sovra l'arpa gentil di Dëodata5,
Tua prediletta figlia! Io ti saluto, O terra de' miei padri, e dall'affetto Che ti porto, m'ispiro oggi cantando Un tuo illustre dolor d'anni lontani, Che fu dolor da forti alme compianto, E da forti alme sopportato e misto Ahi troppo! a colpe, ma pur misto a esempi Di patrio amor, di lealtà e di senno. O fantasia, sulle tue magich'ali Toglimi a' dì presenti, e con gagliardo Vol ritocchiamo il secolo guerriero Di Tommaso e Manfredo; il secol pieno Di guelfe e ghibelline ire, che servo Parve e non fu dell'ultimo Angioìno; Il pöetico secol, che dall'ombra Gigantesca di Dante e dalle pure Armonìe di Petrarca, e più dal lume D'ammirabili Santi, era di molti Olocausti di sangue consolato. Fra gl'Itali dominii, ecco Saluzzo Non ultima in possanza: eccola altera Di lunga tratta di montagne e valli E feconde pianure, e di castella Governate da prodi: eccola altera De' prenci suoi. La marchional corona Fregia Tommaso, affratellato ai grandi Ghibellini Visconti, onde Roberto Angiöin dalla sua Napoletana Splendida reggia freme, e agguati ordisce, Impor bramando con novello prence A' Saluzzesi il guelfo suo stendardo. Volgea quella stagion, quando Saluzzo Vede scemar pe' campi suoi le nevi, E ogni dì s'avvicendano i gelati Estremi soffi dell'inverno, e l'aure Che già vorrebbe intepidir l'amica Possa del Sol che a ricrëarci torna. E volgeva una sera, ed a tard'ora Entro alla cara sua celletta prono Stava orando il canuto Ugo, dolente Che involontaria a' preghi si mescesse Nel suo intelletto or questa cura or quella Di Staffarda pel chiostro, onde ei cingea L'infula veneranda. E benchè antico Nelle salde virtù di pazïenza E d'umiltà, pur non potea ne' preghi Trovar facìl quïete, anco ove miti Talor del monaster fosser gli affanni, Perocch'ei molte conoscea secrete D'alti alberghi sfortune e di tugurii, E d'innocenti peregrini oppressi; E la mente magnanima del vecchio Compatìa in tutti i cuori illustri o bassi Delle colpe gli strazi e quei del pianto. Or mentre inginocchiato ei le divine Grazie per tutti invoca, ode la squilla Che a notte suona il vïator venuto Alla porta ospital. Sospeso allora Il conversar con Dio, s'alza ed appella Un de' laici fratelli, e - Va, gli dice; Provvedi tu che all'arrivante abbondi Di carità dolcissima il conforto, Chiunque ei sia. Quindi, umilmente curva La nivea fronte, eccol di nuovo a' piedi Del Crocefisso, e nell'orar diceva: - Or chi sarà questo ramingo? Oh fosse Tal di que' mesti a cui giovar potessi! D'accelerati e poderosi passi D'un cavalier sonar sembran le volte; Poscia addotto dal laico entro la cella Viene... Eleardo. - Oh amato zio! - Nepote, Onde tu di Staffarda alla Badìa? Il laico si ritrasse. I duo congiunti Si strinsero le destre, e il giovin prode Sovra la scarna destra del canuto Le labbra pose, ed ambe allor le braccia Aperse questi, e al sen paternamente Il figlio accolse dell'estinta suora. Così il giovin comincia: - Alto mistero Son chiamato a svelarti. - In me fiducia Sai qual tua madre avesse; abbila pari. - Dacchè in Saluzzo reduce son io Dalla corte di Napoli e dal Tebro, Poche fïate al fianco tuo m'assisi, E assai pensieri d'Eleardo ignori. - E l'ignorarli mi mettea paure, Che forse sgombrerai. - Padre, mentita È la fama che sparsa han da Milano I perfidi Visconti incontro al vero Proteggitor d'Italia tutta e nostro. In benefizi alto, fedel, possente È il regio cor del Provenzal Roberto: Ei la Chiesa vuol grande: ei de' tiranni Flagello fia; de' buoni prenci scampo. - Bada, o giovin bollente, omai tremenda Splender la luce di quel re straniero Che di Napoli al serto altre aggiungendo Minori signorìe, stende sue lance Di castello in castel, di villa in villa, Fra' Romani, fra' Toschi e fra' Lombardi, E feudi suoi non pochi ha in Monferrato E in Piemontesi sponde. A molti egregi Dubbia pietà è la sua sulle miserie Delle irate, cozzanti, Itale stirpi. - Dubbia fu dianzi, or più non è. Sol una Appalesasi speme, un sol desìo In re Roberto e nel Pastor del mondo: Concordia vonno e giuste leggi, e freno Ad eresìe, a tirannidi, a macelli: Collegare in un patto a comun gloria Vonno e prenci e repubbliche e baroni. - Del supremo Pastor ferve nel petto Ansïetà pe' figli suoi sublime; Il so: ma in petto di Roberto ferve Pericolosa ambizïon. - Tal grida Del ghibellin Visconte la calunnia, Ma smascherato è l'impostor. Lui regge Ed ognor resse ambizïon! Lui preme Sete d'oro e di sangue! In Lombardia Ei d'un mortal più non possede il core: Sospiran ivi tutti i buoni o il braccio Liberator dell'Alemanno Augusto, O della serpe Viscontèa sul capo La folgor pontificia, e i benedetti Brandi del re. Quanto i Lombardi omai Da quella fatal serpe avviluppati, Contaminati, laceri, scherniti Non ci vediam noi Saluzzesi forse, Dacchè sposa al Marchese incantatrice Venne Riccarda, e tracotante stormo D'Insubri cortegiani accompagnolla? - Figlio, ricorda ch'altre volte io seppi Quell'ira tua sedar. Ragioni mille Di Saluzzo il dominio alla fortuna Stringono di Milano. - Oggi disciolta È l'infernal necessità. - Che intendi? - Svelta alfin oggi dall'ignobil crine Del marchese Tommaso è la corona. - Oh ciel! che parli? Come? - Oggi Saluzzo E delle valli sue tutti i baroni Mutan sommo signor: nel seggio ascende Del marchesato... - Chi? - Manfredo. - Un sogno, Un sogno è il tuo: Manfredo osò la mano Stendere al serto del nepote un giorno, Ma pochi il secondaro, e giurò pace. - Fur vïolati da Tommaso i sacri Vincoli della pace, e l'insultato Manfredo sorge con diritto, e pugna. - Foggiati insulti! Agli occhi miei rifulge Di Tommaso la fede. - Or cessa, o zio, Di compianger l'iniquo, e sostenerlo. A quest'ora medesma in ch'io ti parlo, Invitte squadre ascosamente tratte Son da più lati del Piemonte, l'une Da Savigliano e circostanti borghi Obbedïenti al re, l'altre portando La Taurinense e la Sabauda insegna; Ed a lor si congiunge Asti, ed il nerbo De' Monferrini guelfi; e, pria che albeggi, Saluzzo investiranno, e di Saluzzo Da interni guelfi s'apriran le porte. - Perfidia tanta ah! non permetta il cielo! - Manfredo, signor nostro, a te m'invia, A te ch'egli ama e venera, e possente Crede appo Dio. - Che vuol da me il fellone? - T'acqueta. - Che vuol ei? - Rende onoranza A quella fama tua che in parte celi Per umiltade, e forse in parte ignori, Ma che sul volgo e sui baroni è immensa. Il vigor de' Profeti, è nel tuo sguardo, Nella parola tua, nell'inclit'opre! Nè fur poste in obblìo le ardimentose Verità che portate hai cento volte In nome dell'Eterno a' piè de' forti. Banditor oggi te desìa, te vuole Di verità terribili Manfredo: Vieni i Visconti a maledir nel campo, Vieni in Saluzzo a maledirli; vieni Tommaso a maledir, che a' ghibellini Fatto s'era mancipio; e il tuo ispirato Ingegno volgi a secondar gl'intenti Di chi protegge i popoli e il diritto. Balza a tai detti dal suo antico seggio Il sacro vecchio, e grida: - Oh sconsigliati! Oh foss'io in tempo! Oh, me vestisse Iddio Del vigor de' Profeti un giorno solo! Ov'è Manfredo? - Il menan le notturne Ombre colla invadente oste a lui fida. - Mi si bardi il corsier, prorompe l'altro. E mentre il laico diligente move Ad obbedir, l'illustre coppia ancora Entro la cella si sofferma, e scambia Dell'agitato alterno animo i sensi. - Figlio, sedotto sei. Più che a te noti Di Roberto e Manfredo i cor mi sono. Ottimo è il re, ma in Napoli, ove lieto Di splendid'arti e cortesìa sfavilla: Lunge di là, malefico è il suo genio, Però che illude cavalieri e volgo, Con brame empie di guerra e di rivolta. E mentre a chi gli sta vicino ei mostra Amabili virtù, sparge per tutte Le vie della penisola protetta Superbi capitani a intimar pace, Depredando, uccidendo e soggiogando. Tal è il vantato amico re. Gli giova Scemar la possa de' Visconti, a noi Unici grandi appoggi; ed a quel fine Oggi stromento egli Manfredo elegge. - A Manfredo parlando e a' regii duci, Dissiperassi il tuo terror. Brandite Furon le generose armi con alto, Solenne giuro d'elevar gli oppressi, Ed atterrar chi leggi ed are spregia. - Di chi s'avventa a qual sia guerra, è il giuro. - Vedrai di stirpe Saluzzese egregi Baroni alzar la Manfredesca insegna. - So che vedrovvi tra i cospicui illusi Quell'Arrigo Elïon che ti governa, Sua figlia promettendoti. Arrossisci? Pur troppo non errai. - Più che gli affetti, Seguir ragione e coscïenza intendo. Bardato del canuto è il palafreno, E accanto ad esso scalpita il corsiero Del giovin cavalier. Brevi l'abate Lascia a' monaci suoi caute parole; Di sua man l'acqua santa a lor comparte, Li benedice, ed eccolo salito Guerrescamente sull'arcion, siccome Uom, che pria della tonaca ha vestito Corazza e maglia, e nome ebbe di prode. Stride sui ferrei cardini la porta Del monastero, e si spalanca. Entrambo Escon gl'illustri, e su minor cavalli Duo servïenti; e soffermato resta In sulla soglia il monacal drappello, Cui s'abboccò l'abate alla partita. - Che fia? Si dicon con alterno sguardo Paventando sciagure, ed ignorando Le sovrastanti stragi. Intanto s'ode La campanella de' notturni salmi, E vien chiusa la porta, e traversato L'ampio cortil, tutta la pia famiglia Entra nel tempio e tragge al coro, e canta.
II.
All'ombra delle chiese oh fortunata Pace, in secoli d'odii e tradimenti! Ivi mentre ne' campi arse talora Venìan le messi, e al villanello afflitto Il guerriero aggiugnea scherni e percosse, E mentre in borghi ed in città i fratelli Trucidavan fratelli, e mentre noto Andava questo e quel castel per nappi Di velen ministrati, e per pugnali Vibrati nelle tenebre, e per donne, Che il geloso, implacabile barone Seppellìa vive delle torri in fondo, Il monaco espïava or sue passate Colpe, or le colpe delle stirpi inique: E non di rado quelle sacre lane Coprìano ingegni sapïenti e miti, Stranieri al secol lor, com'è straniero Fra malefici sterpi il fior gentile, E fra cocenti arene il zampillìo Ospital d'una fonte, e fra selvagge Masnade un cor che sopra i vinti gema. Intanto che a Staffarda i coccollati Salmeggiavano in coro, e che l'antico Ugo sul palafreno i pantanosi Sentieri e le boscaglie attraversava, Mossa da Moncalier, tragge a Saluzzo Moltitudine varia e spaventosa: Di regie insegne e d'alleati, e insieme Co' guerrieri diversi orrende bande Di comprati ladroni. Il sommo duce È Bertrando del Balzo, altero e prode Siniscalco del rege, e di Bertrando Primo seguace è il traditor Manfredo, Ch'entrambe i suoi fratelli sconsigliati Seco strascina alla malvagia impresa. Giunger vonno di notte appo le mura Insidïate, e lor sorride speme Ch'a suon di trombe s'apra ivi la porta. Ma precorsa è la fama, e quando arriva L'oste a' piè di Saluzzo, e dagli araldi Si suonano le trombe, al suono audace Interna intelligenza non risponde, E nessun ponte levatoio scende Degl'invasori al passo. Irte le mura Stan di lance fedeli, scintillanti Al raggio della luna, e dal lor grembo Piovon sull'oste urli di rabbia e dardi; Ed a quegli urli universal succede Il grido popolar: - «Viva Tommaso!». Sì che Manfredo per livor si morde Ambe le labbra, e al baldanzoso volgo Giura dar pena d'infinite stragi. Il Provenzal Bertrando, alma beffarda Dell'amistà del rege insuperbita, Quasi rege teneasi, e agevolmente Sovr'ogn'italo sir vibrava scherni. Prorompe ei quindi in tracotante riso, E voltosi a Manfredo: - Ecco, gli dice, Quel che ne promettesti universale Amor per te de' Saluzzesi spirti! Poi dopo il riso atteggiasi a disdegno: - Tutti siete così! Promesse, vanti, Folli speranze! ed ardui indi i perigli, Lunghe le imprese, ed il mio re frattanto Per vantaggi non suoi perde i suoi prodi! - T'acqueta, dice con infinta calma Il fremente Manfredo; oltre poch'ore Non dureran gl'inciampi: un solo basta Gagliardo assalto, e il disporrem veloci. Mentre a dispor l'assalto ardimentosi Coopran gl'intelletti de' supremi E l'obbedir delle volgari turbe, Congegnando, apprestando armi, brocchieri, Ferrate travi e macchine scaglianti, E tutta la pianura è voce e moto E cigolìo di carri, e picchiamento Di mannaie che atterrano le piante, E stridere di pietre agglomerate, E in mezzo alle fatiche or la bestemmia E l'impudente ghigno, ed ora il canto - Dentro Saluzzo non minor s'avviva Il poter delle menti e delle braccia Per la sacra difesa. Ignoti e pochi Sono gl'interni traditori, e a mille Ardono i cuori allo stendardo uniti Del marchese Tommaso. Ei di que' prenci Magnanimi era, ch'ove rischio appaia, Brillan di nova luce, e più sublime Han la parola, e più sublime il guardo, E quasi per magìa destan ne' petti Della poc'anzi malignante plebe Amor, concordia, ambizïon gentile. Pressochè in tutte l'alme ivi obblïato È questo o quell'error che, apposto o vero, Jer gran macchia parea sovra Tommaso: Più non vedesi in lui che un assalito Posseditore di paterni dritti, Un amato signor, una man pia Che premiava e puniva e sorreggeva, E ch'uopo è conservar. Sì che la stessa Bellissima Riccarda, onde cotanto A' Saluzzesi dispiacea la stirpe, Più d'abborrita origine non sembra, Or che il popol la vede paventosa, Ma non già vil, dividere i perigli E le cure del sir. La sua bellezza Molce i fedeli armati; il suo linguaggio Più non suona stranier, benchè lombardo. E quand'ella e Tommaso, a destra, a manca, Parlan di speme nell'accorrer pronto Dell'armi de' Visconti a lor salvezza, Esultan gli ascoltanti e mandan plauso. Al declinar di quell'orribil notte Ugo nella invadente oste arrivava Con Eleardo, e trassero al cospetto Del regio siniscalco e di Manfredo. Alzò Manfredo un grido di contento All'apparir del vecchio, ed a Bertrando Lo presentò dicendo: - O sir del Balzo, Eccoti di Staffarda il presul santo, Colui, che per bell'opre onnipossente Fama sul popol di Saluzzo ottenne! Il cor certo gli splende a questa aurora D'un avvenir pe' nostri patrii lidi Più glorïoso e fortunato e giusto. Avvicinossi ad Ugo il siniscalco, E celando nell'alma dispettosa Il disamore e il tedio, un reverente Foggiò sorriso, e disse: - Anco il monarca Serba di te memoria, o illustre padre, E qui trionfo, non dall'arme tanto, Che ben darglielo ponno, egli desìa, Quanto dall'opra del tuo amico senno. Indi Manfredo ripigliò i motivi A spiegar della guerra, annoverando Frodi e stoltezze e ineluttabili onte Sul nome di Tommaso accumulate, Perchè ligio all'astuta Insubre possa, Ed uopi urgenti di riparo, e prove Che il maggior uopo a' Saluzzesi fosse E a tutta Italia l'unità d'omaggio Di quanti erano feudi al re Roberto. Ed Ugo ai cavalieri: - Il mio suffragio Certo sarìa per la comun concordia Sotto uno scettro o ghibellino o guelfo, Ma non basta d'afflitti animi il voto Perchè cessi il poter dell'ire antiche In un popol di stirpi concitate Ad aneliti varii e a varii lucri; E ragioni si schierano possenti Al mio intelletto, sì ch'io neghi al regno D'uno straniero in Puglia incoronato Il giunger con sua fama e co' suoi brandi A collegarci a reverenza e pace. - Pensa, o canuto, ch'alto assunto è il nostro: Degna è di te l'aïta. - Aïta bramo Recarvi, sì: guisa sol una io scorgo. - Qual? - Del popolo agli occhi e degli armati Intercessor presenterommi a voi, E per relïgione ambi e clemenza Sospenderete le battaglie, e intanto A Napoli n'andrò. Placherò, spero, L'augusto re; lo distorrò da impresa Onde gli torneria danno ed obbrobrio; E se leso alcun dritto era a Manfredo, Per saldi patti ei risarcito andranne. - Proporne indugio alle battaglie è vano: Impermutabil di Roberto è il cenno; E mal vai profetando obbrobrio e danno A chi certezza piena ha di vittoria. Solo uno sguardo a nostre schiere volgi, E vedrai che Saluzzo oggi s'espugna. - Espugnarla potrete, ed il ricovro Forse tor del castello al vinto sire, E prigion trascinarlo, e dalle chiome L'avito serto marchional strappargli, E tu, Manfredo, ornartene la fronte. Io non ciò vi contendo; io, per l'antico Conoscimento mio di questa terra E degli animi suoi, sol vi dichiaro, Che al crollar di Tommaso, ardua e non ferma Vittoria avreste. In cor de' più, gagliarde Son le eredate ghibelline fiamme, Gagliarda quindi l'amistà a' Visconti, Gagliardo l'odio per le guelfe insegne. Picciol popolo siam, ma ci dan forza E l'arme de' Visconti e il nostro ardire, E l'indol Saluzzese, aspra, selvaggia, Che paure non piegan ne' supplizi. - Obblii ch'io pur son Saluzzese, e mai Non mi piegan paure. - In te, Manfredo, Splenda il miglior degli ardimenti: quello D'anteporre alle gioie empie del brando Una gloria più pia, l'amabil gloria D'allontanar dalle tue patrie rive Una guerra funesta! - Altra favella, Assumi, o vecchio. Se t'è caro ufizio Scemar l'orror d'inevitata guerra, Sposa il vessillo mio, movi alle mura Assedïate, i cittadini arringa, Traggili a sottopormisi. - Non posso! Nol debbo! Ufizio mio giovevol solo Esser ponno le supplici parole, E l'aprirvi, quai Dio me li palesa, I forti avvisi. Trattenete i brandi, E se ingiustizia fu in Tommaso, al dritto Basteran le ragioni a richiamarlo, Ed indi a pochi dì voi satisfatti E glorïosi e senza ira di sangue, Benedetti dai popoli e dal cielo, Trarrete a vostre sedi. Ove sospinto Da ambizïone e da rancori antichi Tu inesorabilmente alla corona Di Saluzzo, o Manfredo, oggi agognassi, E afferrarla potessi, in odio fora Il nome tuo a' soggetti, e, pur volendo, Felici farli non potresti. Iniqua Necessità di gelosie e vendette Nasce da civil guerra, e l'usurpante Non si sostien fuorchè a perpetuo patto Di timori e carnefici. E si ponga Che dianzi mal reggesse il prence vinto, L'esser vinto o fuggiasco ovver sotterra Amicherà al suo nome i cuori molti Che offeso avrai; s'obblïeranno i torti Del perduto signor; s'abbelliranno Le ricordate sue virtù. Lui spento, Sorgeran prenci astuti o generosi Per vendicarlo, e s'anco astuti ed empi Fossero in cor, venereralli il volgo, Giocondo sempre d'abborrire un forte, Che per ingegno e vïolenza regni. E a cotal colleganza d'assalenti Quai son le forze che opporrìa Manfredo? - Le regie forze! esclama furibondo Il Provenzal barone. - In molte guerre Il vostro re s'avvolge, Ugo ripiglia, E ove sia con gagliarde armi assalito Per altri lidi, a propugnarli io veggo Receder queste schiere, e te, Manfredo, Veggo fremente e povero d'acciari, E tradito da' tuoi!... Qui del profeta Interrompon la voce i capitani. Egli alza il Crocefisso, ed umilmente Prega i superbi, e pregali pel nome Del Redentor. Respinto viene, e sorge Più d'un ferro dell'oste a minacciarlo. Scudo al monaco feansi alcuni prodi, E fra questi Eleardo. Il santo vecchio Di scherni non tremò, nè di minacce, E più fïate ripetè ai felloni: - L'impresa vostra maledice Iddio!
III.
Di te, Religïon, nobile è ufficio, L'affrontare imperterrita coll'arme Delle temute verità i superbi, Pur con periglio d'onta e di martirio! E quell'uficio, oh quante volte i veri Sacerdoti di Dio forti adempièro! Talor sotto l'acciar de' vïolenti Perìan que' venerandi, e talor rotti E insanguinati, e carichi di ferro Venìan sepolti in erma, orrida torre: Nè dai tremendi esempi sbigottito Era il cor d'altri santi. E se la voce D'un'alma pura e consecrata all'are Da iniqui prodi spesso iva schernita, Pur non inutil pienamente ell'era: Schernita andava, ma ponea ne' petti Di que' feroci inverecondi un germe Che forse un dì fruttava; ed era un germe Religïoso di terrore. E in mezzo A tai feroci petti, alcun pur sempre Ve n'avea di men guasto, a cui l'ardita Sacerdotal, magnanima parola Or di cospicui presuli, or d'umili Fraticelli o romiti in patrocinio Degl'innocenti, era parola invitta Che con pronti rimorsi il tormentava, Sì che riedesse a carità ed onore. Compagno fessi al vecchio Ugo per molti Passi Eleardo oltre al terren coperto Da quelle schiere di crudeli armati, Indi, con grave d'ambidue cordoglio, Il nipote strappossi dalle invano Tenaci braccia dell'amato antico. Ahi! senza pro sclamava questi: - Oh figlio! Qui non m'abbandonar! Più fra quell'empie Insegne che il Signore ha maledette Pel labbro mio, deh non ritrarre il piede! Te ne scongiuro per la sacra polve Della mia suora, a te sì dolce madre! Te ne scongiuro per la polve illustre Del tuo buon genitore e de' nostr'avi, Che fidi cavalieri ed incolpati Furon sostegni tutti a chi in Saluzzo Stringea con dritto il signorile acciaro! Esci dal laccio che al tuo core han teso I rapaci stranieri! A me, alla patria, Al tuo prence ritorna. Infamia e lutto Sta con Manfredo, con Tommaso il cielo! Udìa Eleardo il prolungato grido Del supplice canuto, ed il veloce Corso intanto seguìa. Ma benchè sordo Paresse e irreverente, a lui que' detti Eran quai dardi all'anima commossa, E vïolenza a sè medesmo ei fea Non fermando il suo corso, e non volgendo Il piè per rigittarsi alle ginocchia Del caro supplicante. Il pro' Eleardo S'ostinava per varii ignoti impulsi A ritornar fra i collegati duci, Cercando creder ch'ei virtù seguisse, Ed Ugo fosse un tentatore, un cieco D'errori amico. Intende il cavaliero Ad ogni vil tentazïon lo spirto Incolume serbare: idolo intende Virtù, virtù, non larva farsi alcuna! Virtù vuol ravvisar, virtù secura Nelle giurate splendide fortune, Che il re Angioìno ai Saluzzesi e a tutta La penisola appresta. Ei quel monarca Ed i suoi capitani, e più Manfredo Vuol reputar veraci eroi. Ma pure.... Ad onta del proposto, il sen gli rode Nascente dubbio irresistibil. Cela Questo dubbio, ma il porta, e così giunge Turbato, afflitto ai Manfredeschi brandi. A molti il cela, sì, non a sè stesso; E ondeggia alquanto, indi neppur celarlo Può al genitor della donzella amata, Guerrier, cui lo stringea più che ad ogn'altro Pia reverenza. E sì gli parla: - Oh Arrigo! Appartiamci, m'ascolta: allevïarmi D'occulta angoscia non poss'io, se teco Non ne ragiono come a padre. Il fero Barone attento il mira, e con presaga Severità: - Vacilleresti? - Lievi Estimar bramerei del venerando Ugo le voci, e non so dirti quale In siffatte or benigne or fulminanti Parole di tant'uom, che onoro ed amo, Splender raggio tremendo oggi mi paia! Aggrotta il ciglio Arrigo, e l'interrompe: - Bada, Eleardo, che al rischioso passo Dopo lungo pensar ci risolvemmo; Or paventar nel cominciato calle Obbrobrio fora. Ma sebbene Arrigo Al giovin cavalier biasmo gettasse, Non men del giovin si sentìa colui Perturbato nel cor, per l'ardimento Del fatidico abate, e nel futuro Nubi scorger pareagli atre e sinistre. Dissimulava non pertanto, e saldo Stava come mortal che da gran tempo Il proprio senno e i proprii fatti adora. Tal era il truce Arrigo: ei mille volte Morto sarìa, pria che mostrarsi in gravi Opre dapprima certo, indi esitante. Il ferreo vecchio avea ne' precedenti Anni, coll'inquïeta ed iraconda Sua desïanza di giustizia e gloria, E col non mai pieghevole intelletto, Molti alla corte di Tommaso offesi. L'esacerbaron quelli, ed egli volse L'animo suo secretamente a' guelfi Ed a Manfredo, ivi lor duce occulto. Parve a Manfredo egregio essere acquisto L'amistà di tal forte, incanutito In severi costumi; e scaltramente Il seppe avvincolar con dimostranze Di sommo ossequio, affinchè il guelfo volgo, Affidato d'Arrigo alla canizie, Argomentasse tutti esser maturi, Tutti esser giusti gli audacissimi atti Cui Manfredo appigliavasi. Ahi! d'Arrigo La canizie coprìa pochi pensieri, Benchè gagliardi, e quell'ardito prence Consigli non chiedea, ma obbedïenza. Arrigo sè medesmo in alto pregio Reputa nella mente di Manfredo: A lui si crede necessario, e spesso Immagina que' dì, quando in Saluzzo Dominerà quel novo sire, ed ivi Migliorate n'andran tutte le leggi. Giubila e fra sè dice: - A tanto bene Della mia patria io dato avrò l'impulso! Io sono il genio di Manfredo! Io lui Illuminato avrò! Tener lontana Saprò da lui l'adulatrice turba, E gli ottimi innalzar! Beneficate L'adoreran le Saluzzesi terre, Ma unito al nome suo splenderà il mio! Sì grande speme ad Eleardo egli apre, Voglioso d'infiammarlo. Il giovin ode, Ma sta sospeso e mesto, indi ripiglia: - Rimaner con Manfredo obbligo è nostro, S'egli, mantenitor delle più sacre Fra le promesse, non vendetta anela, Ma podestà di padre, e di supremo Difenditor de' nostri antichi dritti. Chè s'egli, come d'Ugo oggi è temenza, Sol esca avesse ambizione ed ira, E gettasse la larva, e m'apparisse Malefico signor, oh! apertamente Gli disdirei servigio, e a cielo e terra Confesserei ch'io per error lo amava! Del magnanimo detto d'Eleardo Stupisce Arrigo, e corrucciato esclama: - Supposto indegno è il tuo! Pensa che solo A impermutabil, vero animo guelfo Sposa n'andrà dell'inconcusso Arrigo L'obbedïente figlia! Il disdegnoso Vecchio si scosta, e resta ivi solingo Col suo dolore, e colla sua turbata Ma non corrotta coscïenza il prode Amante cavalier. - Volli del giusto Seguir la insegna, e voglio: in me desìo Altro capir non potrà mai! Sospetti Sol mi ponno assalir che non qui sorga, Non qui del giusto la bramata insegna. E se ingannato mi foss'io? Se falsi Scorgessi i dritti di Manfredo? Ligio Ad armi inique ratterriami forse Perfido orgoglio? O ad armi inique ligio Mi ratterrìa questa laudevol fiamma Che in petto chiudo per Maria, per tale, Che tutte illustri damigelle avanza In bellezza e virtù? Mi farei vile Per ottener la mano sua? Non mai! Amarti debbo degnamente, o donna Di tutti i miei pensier; debbo onorarti Ogni virtù seguendo e suscitando, S'anco per onorarti, ah! il più crudele Mi colpisse infortunio, e te perdessi! Del maggior tempio di Saluzzo all'alto Vertice non lontano erge le ciglia, E curvando ei lo spirto anzi alla croce Che colassù sfavilla, al Signor chiede Lume a scernere il vero e a praticarlo. Il divin lume balenogli e crebbe Al guardo suo ne' dì seguenti, alcuna Non vedendo in Manfredo esser pietosa, Verace cura nel funesto assedio Di tutelar gli oppressi e vendicarli, Mentre la invaditrice oste pe' campi S'andava ad ogni infamia iscatenando. A tutelare o vendicar gli oppressi Bensì Eleardo qua e là accorreva, Ma non di lui bastanti eran gli sforzi, Nè bastanti gli sforzi erano d'altri D'animo pari al suo cavalleresco, Che insiem con esso or s'avvedean fremendo Quanta in Manfredo, e ne' fratelli suoi Ed in Bertrando e nelle rie caterve Indol, non già d'amici eroi si fosse, Ma d'impudenti ladri e di nemici. Insin dal primo giorno i brandi iniqui Della straniera turba entro innocenti Tugurii sparser miserando affanno. Qui sgozzarono vergini inseguìte, Là genitori che alle amate figlie Difensori si fean. Volge ma indarno La sua voce imperterrita Eleardo Or a questo or a quel de' condottieri. Il siniscalco move il capo e ride, E Manfredo le accuse ode in silenzio, Guarda le torri di Saluzzo, e sembra Dir: - Che mi cal d'iniquità e di pianto, Purchè in breve là entro io signoreggi? Vengono a tutta la contrada imposte Inaudite gravezze, e ad ogni adulto Legge s'intima, sì ch'ei giuri ossequio Al marchese novel. L'abbominato Giuro negavan molti; indi tremende Carnificine a spegnerli, ed i tetti Diroccati e consunti dalle fiamme, E borghi interi in cenere ed in sangue! Fama nel campo giunge aver Lunello, Antico sir di Cervignasco, il giuro Negato agl'intimanti, e colà sorta Esser numerosissima una plebe A difender quel sir. - Temono i duci Che di Lunel la resistenza esempio Ad altri arditi feudatari avvenga, Ed invìan fero stuolo a Cervignasco, Che tutto abbatta, e in ogni dove insegua Il valoroso sire, e in brani il faccia. Consanguineo Lunello è d'Eleardo, Ed il giovin l'amava. Ahimè! non puote Questi il cenno arrestar, ma prontamente Scagliasi dietro all'orme de' ladroni, E moderarli spera, o spera almeno Sottrarre agli omicidi i cari giorni Del congiunto barone e de' suoi figli, O almen d'alcun di loro. Ah! dalle spade Distruggitrici invaso, saccheggiato, Pieno di strage è il borgo! Il prò Lunello Ferito fugge, e a stento si ricovra All'ombre sacre d'una chiesa, e seco Tragge l'antica moglie e le sue nuore E i lattanti nepoti. Ecco nel tempio I sacrileghi brandi! Ecco all'altare Abbracciate le vittime! Eleardo Entra, s'inoltra, grida: i truci colpi Eran vibrati! A' pie' di lui nel sangue Stramazzando Lunel, queste supreme Voci mettea: - Se tu Eleardo sei, Non prestar fede al rio Manfredo; imìta L'esempio mio: pria che avvilirti, muori! Dato alla chiesa il guasto, escon gli armati In cerca d'altre prede, e fra que' morti, Appo quell'ara, in disperata angoscia Resta Eleardo, e piange ed urla, e i crini Dalla fronte si strappa. Oh! chi l'afferra Gagliardamente per un braccio e parla? Il presul di Staffarda. Il qual veniva Di Lunel suo cugino ai dolci alberghi, Ed impensata vi trovò battaglia Ed orribile eccidio, e dalla fama Venne sospinto ai sanguinosi altari. Il braccio afferra del nipote, e dice Con autorevol grido: - O sciagurato, Non di lagrime è d'uopo in queste colpe, Ma di nobil rimorso! A me la cura Lascia di queste miserande spoglie: Di giusti da feroci arme sgozzati, E volgi ad opre valorose. Espìa Il breve tuo delirio: appella, aduna, Suscita i forti delle valli. Insieme V'avvincolate con possenti giuri: Pio ghibellino ridivieni e pugna. Abbracciò il giovin cavalier le piante Del magnanimo zio. Questi con forza Lo rïalzò, gli,ripetè il comando, Gli mostrò i consanguinei trucidati E il rosso altare e le spezzate croci; Raccapricciò Eleardo, il cor gl'invase Lampo di speme, si riscosse e sparve. Che avvien di lui, mentre lo zio infelice Riman nel tempio e fra dolenti voci D'alcuni inconsolati villanelli E di pietose donne, a tanti uccisi D'ultima carità rende gli ufizi? Strazïato Eleardo dal conflitto De' sinistri pensieri, asceso in sella, Simile a forsennato errò per vie, Per prati e per arene di torrenti, Chiedendo a sè medesmo e al ciel chiedendo Che fare omai dovesse. Un forte impulso L'agitava, e diceagli ad ogni istante D'obbedir senza indugio ai sacri detti Del morente Lunello e ai detti d'Ugo, Ridivenendo ghibellin. Ma in core L'astuto angiol del mal gli rinnovava Quel lusinghiero dubbio: - E se agli scempi Inevitati di que' giorni atroci, Che forse gettan falsa ombra maligna Sul benefico intento di Manfredo, Succedesser davvero inclite prove D'alto senno in Manfredo e di giustizia, Sì che alla patria giovamento e lustro Per lunga età tornasse? Impresa egregia Senza olocausti non compìasi mai, Nè per questi dar loco a terror debbe L'alma del forte, a giusta gloria inteso. Così fra le incertezze e le speranze E i rimbrotti del cor riede Eleardo Delle masnade assedïanti al campo.
IV.
Miseramente ricca è d'infinite Fallaci industrie coscïenza, i cari Proponimenti ad abbellir, pur quando Luce severa di ragion li danna. Ma chi d'iniquità volonteroso Per l'infame sentier non move il piede, Sente per quel sentier, sebben cosparso Da inferne mani di stupendi fiori, Un ribrezzo frequente, un indistinto Fetor che si frammesce a que' profumi, Ed il ferma e il sospinge ad arretrarsi; Simile a que' timori innominati Che invadon ne' deserti il buon destriero, S'ivi non lungi s'accovaccia il tigre; E simile a que' taciti spaventi Che fanno impallidir la verginella, Quando in sembiante d'uom che di bellezza Adorno splende, ella ravvisa ignoto Lineamento, o non so qual favilla Nel sorridente sguardo, o non so quale Moto di labbro che le dice: «Trema!» In que' presaghi palpiti d'un core Ch'è vicino al periglio, e per potenza Misterïosa se n'accorge e guata, V'è la voce di qualche angiolo amante Che tutti sforzi a pro dell'uomo adopra: V'è la possa d'Iddio che lume sempre Bastevol dona a illuminar suoi figli. Vane di coscïenza in Eleardo Son le fallaci industrie: ei sulla fronte Porta il corruccio di talun che vive Fra scoperti ribaldi, e più li mira, Più inorridisce; e nondimen vorrebbe Insensato scusarli e amarli ancora. Oh come trista di quel dì esecrando Giunse la sera, e qual più trista notte Agitò ognun che, pari ad Eleardo, Alti e pietosi sensi ivi serbasse! Ma la dimane di quel dì pur troppo Sorse peggior! Repente una perfidia Entro le mura di Saluzzo avvenne, Che affrettò la caduta. In vari alberghi Scoppiano incendi orribili, ed il volgo De' cittadini si sgomenta, accoglie Di calunnia le voci. Un grido s'alza Esser Tommaso degl'incendi autore, Affinchè al buon Manfredo omai vincente Nulla Saluzzo fuorchè cener resti. Da poche mani congiurate i fochi Erano stati per le soglie accesi, E poche fur le labbra che dapprima Spargere osaro il grido abbominoso. Ma frenesìa nel popolo s'appiglia, E ratto si moltiplica il pensiero, Esser Tommaso un barbaro oppressore Abborrito dal ciel. Lui benedetto Asseriscon invan con generosa Gara i ministri delle chiese e i sempre Pacificanti Francescani e il colto Stuol di color, che stretti avea la legge Di Domenico santo all'esercizio De' forti studi e della pia parola. Benefiche potenze eran que' frati Sullo spirto de' popoli, e sovente, In tai secoli d'impeti e di sangue, Ma di gagliarda fè, coi gonfaloni Di Francesco e Domenico a feroci Animi imponean calma e pentimento. Ma spuntano ai viventi ore talvolta Di contagiosa irrefrenabil rabbia, E sotto ore sì infauste debaccava Del Saluzzese popolo assai parte. Dal di fuori frattanto a que' momenti Ecco irromper l'assalto! ecco le mura Scalate, superate! ecco Tommaso Astretto a ceder le abitate vie, A salir frettoloso all'alta rocca A lui ricovro ed a' suoi cari estremo! Non eccelsa metropoli prostrata Da infinite falangi era Saluzzo, Nè i suoi dolori fur soggetto a carmi Di stupefatte illustri nazïoni, Ma fur sommi dolori! E li divise Quel Iacopo da Fia, che vergò in forti Carte la istoria del tremendo eccidio. Ah, inorridisco in leggerle, e m'ispiro Io tardo trovadore al mesto canto! La fella di Manfredo anima irosa Crucciavan nuovi aneliti a vendetta, Perocchè a' piedi suoi sotto le mura Fracassati da travi e da macigni Dianzi veduto alcuni cari avea, E fra loro un fratello, il più diletto De' prodi e truci due degni fratelli. In ogni vinto armato cittadino, Ed anco negl'inermi e ne' vegliardi, E nelle donne stesse il furibondo Immaginava la nemica destra Ch'orbo l'avea di quel fratello, e tutti Ei sterminati indi li avrìa. Frenava Il proprio acciar, ma non frenava quelli Della brïaca moltitudin varia Ivi con esso a imperversar prorotta. Rifugge l'estro mio dalla pittura Degl'inauditi singolari strazi Che segnalàr quel giorno. Oh vane e stolte Speranze dei domati! oh retrospinte Preghiere fervidissime, innalzate Da' miseri che proni eran nel sangue De' figli loro o nel fraterno sangue! Oh giustamente non curati applausi Della stolida feccia scellerata Che menar volea festa ai vincitori, Liberator'chiamandoli, e mandati A raddrizzar tutti i plebei diritti! Oh inutil congregarsi trepidando Di lagrimose vergini e di madri E di fanciulli anzi ai predoni infami, Ricordando a costoro i dolci nomi Di pietà, di giustizia e d'innocenza! Oh ingiurie non dicibili! Oh colpiti Dalle scuri sacrileghe gl'ingressi Di più case di Dio, dove sgozzati Cadono antichi sacerdoti, e gioco Reliquie vanno e sacri vasi ai ladri! Tutto è dileggio e rubamento e morte Intero un giorno e la seguente notte, E già parte dell'armi e de' congegni Ratta si volge ad investir la rocca. Magnifico sorgea d'aprile un sole, E delle pompe di sì splendid'astro Raccapricciaron di Saluzzo i vinti, Lor macerie e cadaveri mirando, Quand'a lor s'apprestàr novelle ambasce. Clangor repente innalzasi di tromba, E nel nome abborrito di Manfredo Gridan gli araldi questo atroce bando: «Esser giusto castigo al contumace Popol de' ribellanti soggiogati, Ch'ivi su pietra più non resti pietra, E irremovibilmente or quel castigo Compiersi pria che il sol giunga all'occaso; Ma perdonata andare ancor la vita Ai puniti felloni, e per clemenza Che maggiormente moderi il flagello, Concedersi ad ognuno il portar seco Qual ch'egli serbi di tesori avanzo». Tal legge uscita, il raddoppiato pianto Chi dirìa degli oppressi? A que' lamenti Inesorata del tiranno è l'alma, Inesorata al supplicar di molti Infra suoi cavalieri e d'Eleardo: Forz'è ch'ogni abitante i cari tetti Sgombri innanzi la sera, e chi sa dove Ramingo vada. Non v'è tempo a indugi, E vedi con sollecito, confuso Moto d'alme avvilite e disperate, Fra i singhiozzi e fra gli urli incominciarsi L'infelice spettacolo. Agl'infermi Ed agli avi decrepiti sostegno Fansi gli adulti d'ambo i sessi, e cinte D'adolescenti e pargoli e lattanti Collacrimar vedi le donne. Ognuno Che già d'averi non sia privo, or seco Gli ultimi tragge vestimenti e arredi. Di sì misera vista i vincitori Gioìron crudelmente insin che tutta Fosse la turba delle case uscita. Frodolento il decreto era a sol fine Di scovrir se ricchezza aveavi ancora Che al saccheggio primier fosse sfuggita. Or poichè tutti di lor robe carchi Furono i cittadini, il rio Manfredo Misericorde spirito ostentando, Disse che rasi non andrian gli ostelli, Ma diè barbaro cenno alle coorti Che assalisser la turba, e d'ogni spoglia La derubasser. Così il vil tiranno Suoi debiti solveva ai masnadieri, Che a quel regno di sangue aveanlo alzato. L'inverecondo estremo predamento Desta a furor gli sventurati. Allora Più non resiste agl'impeti possenti Del suo sdegno Eleardo: - Io m'ingannai, Alto grida fra il popolo; io sognava Esser Manfredo della patria padre; Usurpator mi s'appalesa infame! Con lui rompo ogni vincolo, al cospetto Di voi, di lui medesmo! Intorno al prode Cento gagliardi giovani un celato Ferro traggon dal seno, od ai nemici Tolgon con forza l'arme, e questo pronto Saluzzese drappello osa brev'ora Sperar prodìgi. Orribile, ostinato Combattimento per le piazze ferve, E più fïate incontrasi Eleardo Coll'iniquo Manfredo, e mescolati Sono i lor brandi valorosi indarno. S'incontrano Eleardo e Arrigo pure, E quei più volte può svenare il vecchio Ma con affetto filïal lo sparmia, Benchè Arrigo lo imprechi. Alfin dal troppo Numero sopraffatta è l'animosa Schiera de' cento, e arretra, e quasi intera Esce fuor delle mura, ed inseguìta Viene per la campagna infin che l'ombre Delle selve la involano ai crudeli. Intanto agli occhi di Saluzzo un nuovo Si compiva infortunio. In man degli empi Cade la rocca stessa, e prigioniero Indi co' dolci figli esce Tommaso, E tratti van gli sciagurati illustri In carceri diverse. Alta ventura Ancor si fu che in piena sua balìa Non li avesse Manfredo: ei li avrìa spenti. Il fero siniscalco uman s'è fatto, Sì perchè non abbietto era il suo core, Sì perchè astutamente al rio Manfredo Volea serbar temuto un avversario, E sì perch'egli al generoso senno Ed alle scaltre previdenze unìa Non leve sete d'oro: immenso chiede Pel vinto sir riscatto ai ghibellini. Ma che diss'io, nel provenzal barone Immaginando non abbietto il core? Qual fu pietà la sua, mentre di scherni Osò abbevrar fuor di Saluzzo, a' piedi De' trionfati muri, innanzi a tutte Le invereconde vincitrici squadre, L'illustre prigionier, lui dichiarando Spoglio di signorìa? lui dividendo Da' lagrimosi tenerelli infanti, Che al sir d'Acaia fur commessi e tratti Di Pinerol nella superba rocca? L'infelice Tommaso a sorso a sorso D'amara prigionìa sorbì la tazza, Prima in Cardeto brevi dì, poi chiuso Di Savigliano entro il castel, poi tolto Maggiormente alla vista de' mortali, E seppellito in solitaria torre, Di Pocapaglia sovra l'erta cima, Indi levato da quel forse troppo Mal securo deserto, e fra le mura Di Cuneo inespugnabili nascoso. Non sì tosto compita, ahi! di Tommaso Fu la caduta dall'avito seggio, Volò del tristo avvenimento il grido Pe' saluzzesi piani e per le balze, E l'intese Eleardo entro a' suoi boschi. Disconfortati allora esso e i compagni, Depongon le arditissime speranze Accarezzate nella prima ebbrezza, O se tutti non vonno appien deporle, In avvenir remoto, indefinito Le vagheggiano omai. Son ripetuti D'amicizia fra loro e di costante Cor ghibellino i dolci giuramenti, E con dolor s'abbracciano bagnando Di lagrime fraterne i forti petti, E chi per questa sponda e chi per quella, A diverso destin ciascun si trae.
V.
Oh fra i più strazïanti umani affanni Quello di non perversa alma che rea Ad un tratto si tiene, ove sciagure Piovon non tanto sulla sua cervice, Quanto sulle cervici de' suoi cari E dell'intera patria sua, ch'ei vede Agonizzar, nè può recarle aïta! E più quando quell'alma, in suoi terrori Disamata s'estima, e disamata Da tal cuor ch'era suo! da tal diletto Cuor, che per sempre ei scorge ora perduto! Così da lunge qua e là mirando E pensando a Maria, come colui Che vedovato delle sue pupille Pensa a quel sol ch'ei non vedrà più mai, - Giunge di nottetempo alla badìa D'Ugo il nepote, e chiede ivi l'ingresso. - Dov'è lo zio? - Signor, finiti dianzi Erano i salmi, ed ei restò nel tempio. - Colà n'andrò. - Perturberesti forse Le più calde sue preci. Odi, ti ferma. A tai voci non bada il cavaliero, Ed il portico varca, e l'infrapposto Varca esteso cortile, e al tempio move. Apre la porta, inoltrasi tremando; E della sacra lampada al pallore Scorge prostrato il solitario antico Appo l'altar. Questi repente s'alza Al rimbombo de' passi. - Olà chi sei? Assaliti siam noi dalle masnade De' traditori? Oh che ravviso? Oh iniquo! Tu nella casa del Signor? T'arretra: Tinto di sangue cittadin tu vieni. Sino all'ingresso s'arretrò Eleardo, Confuso, esterrefatto, e dalle fauci Mettea supplici grida. Alfine a' piedi Dello zio inginocchiossi, e in abbondanti Lagrime ruppe; indi a' singulti amari Impose freno, alzò la fronte e disse: - Uomo di Dio, non maledirmi ancora, Porgi a mia strazïata anima ascolto! - Che di Saluzzo avvenne? - Ell'è caduta! Saccheggiata! arsa! - Che del sire avvenne? - Strascinato è prigion. - Quali i pensieri, Quai sono i fatti di Manfredo? - Orrendi! - E il proteggente provenzal vessillo? - Esulta negli oltraggi e ne' delitti! - E l'empio figlio di mia suora il brando Rotò per lor! - L'infame brando io ruppi, E qui vengo ad ascondere a' viventi La mia vergogna. E per quell'ara santa Giuro che illuso fui! Giuro che guerra Credei seguir magnanima, e salute Alla patria recar! Mi si è svelata L'ipocrit'alma di Manfredo alfine: Al par di te sue perfid'opre abborro, E disdico mie stolte ire nutrite Contro alla signorìa ch'oggi è crollata, E per Tommaso prego Iddio! e lo prego Che gli susciti vindici possenti, Sì che il traggan di carcere, e le insegne Espulsino straniere, ed ei risalga Al seggio avito, e il patrio suol conforti! - Oh Eleardo! mio figlio! àlzati; al cielo Chi delle colpe si ricrede, è caro. Piangi fra le mie braccia il breve fallo, E nobile fidanza indi ripiglia. - Unica posso una fidanza accorre Dopo tanto error mio; posso divina Misericordia chiedere e sperarla, Ma lontano dagli uomini, ma scevro D'ogni gloria del mondo. Io tutto perdo Ciò che più sorrideami, e affronto l'odio Del padre stesso dell'amata donna! L'odio di lei medesma! Alle terrene Cose son morto; seppellir qui voglio Tra penitenti angosce il nome mio! - Monaco tu? Vera sarebbe questa Vocazïon del Re del Cielo?...Ascolta. - Ugo, non contrastar; non mover dubbio Sulla chiamata che a me volge Iddio. Onor, dover m'astringono a deporre L'armi impugnate pel tiranno, e questa Ritratta mia decreto è che per sempre A me toglie la vergin ch'io adorava! Dopo tal sacrificio, il mondo spregio; Più non resta per me che o disperata Morte, o d'un chiostro il confortato pianto. - Figlio, se così scritto è dall'Eterno, Così sarà. Ma intanto a me l'Eterno Pon nell'alma un consiglio: odi e obbedisci. - Fede ti presto; obbedirò. - Disdici Con voci ed opre apertamente il rio Vincol che ti stringeva agl'invasori. Gloria rendi al diritto; offri il tuo sangue Pel patrio suolo. Ingegno e braccia al sire Che oppresso giace e salvatori chiede, Generoso consacra. Eccita i forti, I deboli rincora, e lor rammenta. Che speranza e virtù prodigii ponno. Arrossiva Eleardo, impallidiva A questi detti, ed arrossìa di novo, E balbettava: - Obbedirò, ma... - Tronca, Gli disse il vecchio, ogni esitanza, e parti. Servi al tuo prence ed a Saluzzo. - Come? - Volgiti a Dio; t'ispirerà. T'adopra Sì che, per gara de' baroni, l'oro Di Tommaso al riscatto or si fornisca: Scuoti la possa de' Visconti, scuoti I nostri prodi. Combattete: egregio Acquista un loco tra' vincenti, o muori! - Ch'io snudi il ferro, e di Maria nel padre Forse mi scontri, e di svenarlo io rischi? Troppo, troppo dimandi. A me bastante Sforzo è perder Maria, qui seppellendo I giorni miei fra lagrime e rimorsi. - Più degna del Signor, dopo alti fatti, Riporterai qui la tua fronte, io spero, E non che il padre di Maria tu sveni, Di salvare i suoi dì forse avrai campo! Profetici parean gli atti, gli sguardi, E la voce del vecchio. E ciò dicendo, Forte afferrò la destra d'Eleardo, E dalla porta appo l'altar lo trasse. Ivi dalla parete una pesante Antica spada sciolse, e a lui: - La spada Quest'è che strinsi in gioventù, e di sangue Saracin l'abbevrai; prendila e pugna Com'io pugnava per fratelli oppressi. Eleardo s'infiamma; il sacro ferro Prende, snuda, lo bacia, il pon sull'ara; Attesta Iddio che il roterà sugli empi; Le preci implora del canuto, e parte. E quand'ei fu partito, Ugo prostrossi Novamente nel tempio, e pel nipote Orò gran tempo, insin che all'altro ufficio Mosser ver l'alba in coro i cenobiti. Allora il santo abate al pio drappello Disse: - Pregate per Saluzzo! E pianse; E diè contezza dell'orrenda guerra; Ed i monaci in cor si rammentaro Parenti e amici, e lagrimaro anch'essi. Pregaron per Tommaso e pe' suoi fidi, E pregare altresì per gli oppressori, Solo Iddio supplicando a spodestarli Della vittoria che li fea superbi.
VI.
In popol da' civili ire diviso Speranza poca è di salute, allora Che sol gagliarde fervono le incaute Anime giovanili, intente a còrre Bella, sognata, non possibil palma, Mentre della canizie intorpidito Vacilla il senno, sì che norma e freno Agli audaci inesperti alcuna sacra Fronte non sorge di guerriero antico. Mancanza tal di celebrato prode Che vero prode alla sua patria splenda, Nel colmo avvien de' tralignati tempi, E lunga indi stagion regna di pazzo, Sanguinoso dominio e d'anarchìa, Moltiplice opra di fanciulli eroi, Fintanto che spossati e fatti vili Piegano il collo a tranquillante giogo. Non a tal segno eran corrotti i giorni Di Saluzzo ch'io canto, abbenchè tristi. Gioventù inferocìa, ma valorosi Vecchi brillavan sui crescenti ingegni Per nobil fama di bontà e prodezza. Fra tai canuti un prence grandeggiava, E Giovanni era, l'invincibil sire Dell'alte torri di Dogliani. Ei nato All'avo di Tommaso era fratello, E niun de' feudatarii dominanti S'agguagliava a Giovanni in virtù schiette D'amico e padre e leal servo a quelli Che abbisognavan di consiglio o scampo. In dì lontani ei superava i mille Cavalieri compagni in patrie pugne, Ed in pugne oltremar, sotto il vessillo De' campioni di Cristo: or men robusto È il braccio suo, ma pronta sempre e forte La intelligenza e immacolato il core. Grande è la fè del venerato prode Pel suo nipote or prigionier, ch'egli ama Siccome dolce padre ama il suo figlio, E ad un tempo siccome un pio guerriero Ama il signor cui vassallaggio debbe. Giovanni con baroni altri devoti A ghibellina parte ed a Tommaso S'adopravan solleciti, sì ch'oro Adunar si potesse e adunar gemme, Al fine urgente di comporre il chiesto Spaventoso tesoro, onde al marchese E a sua progenie libertà riedesse. Un dì alle sale di Dogliani aveva A non lieto convito egli parecchi Fervidi amici accolto, a consultarsi Coi lor fidi intelletti e a stimolarli, Prodigando con bello accorgimento Lodi e parole di speranza e preghi. Dopo la mensa i congregati forti, Nel bollor de' pensieri e de' colloqui, Facean di voci rintronar le auguste, Adornate di ferri, alle pareti, Allor ch'entrò il valletto d'armi, e nunzio Fu dell'arrivo d'Eleardo. Al nome D'Eleardo s'aggrottano le ciglia De' ghibellini. - Ingresso entro tue mura Darai, Giovanni, all'arrogante guelfo? - Venga il fellon. Certo, Manfredo il manda: Udirlo giova. Non sapeano alcuni Infra quei generosi fremebondi Ch'Eleardo si fosse un di coloro, I quai, vedute l'ultime rapine, Disperata battaglia avean con gloria, Benchè indarno, arrischiato entro Saluzzo. Ei nella sala addotto vien. Severo Salutevole cenno appena a lui Movon gl'irati ghibellini. - Donde Tu, guelfo, a me? - Sir di Dogliani, al cielo Piacque arricchir le avite mie castella Di non lieve tesor. Vedi tal borsa E orïentali perle ed adamanti, Che saranno alcun che, perchè s'affretti Dell'infelice signor mio il riscatto. - -Che veggo? Agli occhi miei creder poss'io? Tu che a Manfredo!... - A lui sacrato ho l'armi Credendol pio liberator: lo vidi Menzognero e tiranno, e gli ho disdetto Il non dovuto mio servigio. Ai torvi Cavalieri asserenansi le fronti: Esultan, cingon l'arrivato prode, Gli stringono la destra, e per quegli ori Da lui recati, soverchiare omai Veggion quanto al riscatto era mestieri, E benedicon Dio. Quel dì medesmo Andò il sir di Dogliani al regio campo; La libertà ricomperò del prence E de' figli di lui; volaron messi A Cuneo, a Pinerolo: e nel seguente Giorno redenti uscirono il felice Padre dai torrïon che il Gesso bagna, E dall'altra fortezza i giovinetti, E si rïabbracciar con dolce pianto; E dal suolo, natìo trasser raminghi Con Riccarda all'Insùbre ospitai reggia. Gli esuli amati accompagnò Giovanni Con altri pochi; e fra costor v'avea Un cavalier cui nascondea il sembiante Ferrea visiera. Di Dogliani il sire Narra per via a Tommaso, onde l'estrema Voluta somma gli venisse. Il prence Chiede ove sia il benefico Eleardo; E il pro' Giovanni sottovoce: - Vedi Quel cavalier che le sembianze cela, E accostarsi non osa: egli è Eleardo. Sino a' confini ei t'accompagna, e poscia Rieder vuole a sue torri, e mantenervi L'insegna tua ed apparecchiarti aiuti Pel dì che il ciel te chiamerà a vittoria. Serbar silenzio non potè il commosso Esul marchese, e, volto il palafreno, Ad Eleardo s'accostò, e per nome Chiamandol con affetto, - A te perenni Sien grazie, disse; or mi si svela quanto Debitor ti son io. Balzar di sella Volle e prostrarsi il giovin, ricordando La frenesìa che inimicollo al sire. Ma smontò questi insieme, e lo rattenne Con vivo amplesso, e intorno al cavaliero Venner anco Riccarda e i dolci figli, Mercè rendendo, chè senz'esso lunga Durar potea la prigionìa tuttora. Più da temersi non parea Tommaso A' nemici frattanto, e sovra lui Liete canzoni alzavano beffarde. Ma tacquer le canzoni indi a non molto Al grido inaspettato, esser Tommaso, Non nella reggia de' Visconti, in vana Mestizia ed in abbietti ozi sepolto; Bensì già di colà rapidamente Tornato a' gioghi saluzzesi, in mezzo A falange d'armati, inalberando Il vessillo di guerra. Allor Manfredo Sovra il suo seggio impallidisce, e copre Il timor collo sdegno, alto sclamando: - La prima volta i dì sparmiammo al tristo; In nostre mani or riede, e, qual lo merta, Guiderdon di sua audacia avrà la scure. Solleciti provveggono Manfredo E il sir del Balzo al moversi di lance Che di Tommaso sperdano i fautori, E s'odon rinnovar le invereconde Del patrio ben promesse. Odonsi voci D'increscimento onde si dice afflitto Degli scempii Manfredo. Odonsi voci Di futura clemenza irrevocata, E di leggi paterne, e di novello Tribunale integerrimo, e d'onori A chi giovi col senno e colla spada Al marchese, allo stato, ai sacri altari. Uso antico, perenne è di potenze Su rapina fondate, allor che spunta Il giorno del periglio, il serrar l'ugne Sovra l'oppresso volgo e accarezzarlo, E sfoggiar mire eccelse a sgombrar tutti Alfin gli avanzi de' passati danni. Di nuovo suona piucchè mai d'astuti Stranieri l'eloquenza: essi la mente San di Roberto; un re sì pio, sì grande Ne' benefici intenti, unqua non visse. Ei vuol felice Italia, ei vuol felici I prodi Saluzzesi. Attribüirsi Non denno a lui nè a' capitani suoi Nè all'ottimo Manfredo i brevi strazi Recati dalla guerra al marchesato. Si saneran le cicatrici, e in loco Della prisca Saluzzo, è già decreta Sulle rovine sue più vasta e bella E forte una città che degna appaia Di cotanto dominio, e faccia invidia Alla rival Taurino. Al guelfo rege Cosa non è che sì altamente prema, Come il dispor che a' piè dell'Alpi sia Il regio feudo Saluzzese un nido Glorïoso di prodi, atto a far fronte Ai vicini avversari. Indi i confini Di questo feudo estendere or si vonno, Sì che divenga ampia duchea gagliarda, A' Visconti terrore ed a' Sabaudi. Tal dipintura offerta è dagli scaltri Alle volgari fantasìe. Nè il lustro Della reggia di Napoli si tace, Che l'egual non fu visto, e il portentoso Incivilir de' popoli ove impulso A piena civiltà dona sì forte Il gran Roberto; il gran Roberto, amico Di dottrine e bell'arti; il gran Roberto Che pone il core in luminosi ingegni, E più in Petrarca, uomo divino, a cui Sulle chiome Roberto in Campidoglio Metteva fregio d'immortal corona. E si dice che tosto il re a Saluzzo Con Petrarca verranne e coll'arguto Narrator di Certaldo, il cui volume Fra le più vaghe istorie annoverati Ha d'una sposa Saluzzese i vanti, Onde per tutti d'Occidente i regni L'alme gentili, in onorar Griselda, Onoran di Saluzzo il caro nome. Ed in qual secol e in qual mai contrada Mancaron voci splendide e robuste Ad adular la moltitudin cieca, Schernendo quasi barbara e compiuta La vicenda de' scorsi anni infelici, E asseverando ch'ora alfin comincia L'età de' veggentissimi intelletti? Ma tempi v'ha più di prestigio ricchi Per quest'amabil fola; e simil tempo Era quel di Roberto e delle tante Suscitate degl'Itali speranze, Ch'indi la morte di quel re disperse. Tai brillanti menzogne avriano forse Illuso ancor le Saluzzesi valli, Se a governar l'esercito severa D'un retto capitan si fosse stesa La destra allor, frenando de' guerrieri L'esecranda licenza. Al siniscalco Tanta giustizia non premea; invocata Venìa talor, ma indarno da Manfredo. Ambo imperar voleano, e il Provenzale Non consentìa che un suo guerrier giammai, Per quante iniquità sui vinti oprasse, Colpevol fosse detto e avesse pena. Del supremo stranier la tracotanza, E quindi le ribalde opre di mille Armati suoi sovra l'inulta plebe Qui riprodusser quel furor, che visto S'era in Sicilia poco innanzi, quando Per l'isola scoppiar vespri di sangue. Se non che men secreti i Saluzzesi Scorger lasciaro improvvidi le trame, E più avveduti e unanimi vegliaro Gl'investiti oppressori alla difesa. Tace il mio carme i varii assalti e i varii Destini delle insegne ora fuggiasche Or vincitrìci. Sempre a' ghibellini Anima principale era il Dogliani, Come già tempo il Procida a sue terre, E fra i ministri al suo comando egregi Splendea per senno e per virtù Eleardo.
VII.
Amor di patria in vani sogni il core No, non agita allor, ma di divina Potenza il nutre e lo sublima, quando Svolgesi in terra da stranieri oppressa: Allor non dubbia è sua purezza; allora Tutte s'intendon l'alme generose Che fremono del giogo; allor divisi In discordanti aneliti e dottrine Non son nobili e volgo: unica han meta L'espulsïon delle insultanti spade, E della prisca dignità il ritorno. Quanto in que' dì contrario al patrio bene Fosse pe' Saluzzesi il guelfo spirto, Meglio comprese ognuno all'improvvisa Morte del vecchio provenzal monarca. Orbo questi del figlio, al debil pugno Della nepote abbandonò lo scettro; E della incauta il leve cor s'avvolse In infelici amori, e la sua fama Fu dalla morte del trafitto sposo Più orrendamente deturpata, e i novi Mariti la tradìan, sin che il feroce Vendicator carnefice a lei fessi. Sceso Roberto nella tomba, crebbe Per tutta Italia il ghibellin coraggio, E si volser de' più le speranzose Ciglia novellamente alle promesse Della potente signorìa Lombarda. Moltiplicati vidersi gli esempli Di fraterna concordia e di valore Ne' nostri lidi Saluzzesi. Al bello De' popoli fervor corrispondea La virtù di Tommaso: egli emulava De' suoi più forti la prodezza. Il nome Di Tommaso era sola indi una cosa Col nome della patria al cor de' giusti; E da lunga, sfortuna raffinato, Il suo spirto gentil s'affratellava Sinceramente co' minori, e segni Dava di gratitudin commoventi A cavalieri e ad infimi mortali Che ponean fede in esso, ed olocausto Con lui fean degli averi e della vita. Godea l'animo a tutti i generosi In vederlo onorar gli alti consigli Del canuto Giovanni. Eran Tommaso E di Dogliani il sir qual figlio e padre, E il portentoso vecchio corregnando Söavemente sulle suddit'alme Più e più le affidava. Alcune volte Lievi nascean principii di discordia Nelle diverse ghibelline schiere, Perocchè a' Saluzzesi andavan misti Sotto il vessillo di Tommaso e Insùbri E assoldati Germani. Alla parola Dell'antico Giovanni i dissidenti Animi s'acquetavano, e sebbene Cagion di lagno non restasse agli altri, Pur gioìa il Saluzzese, ognor veggendo Che anteposto a lui mai nell'intelletto De' sommi duci lo stranier non era. L'opposto caso tuttodì avvenìa Nella parte de' guelfi. Il rio Manfredo Dell'odio de' nativi esacerbossi Più feramente ciascun giorno; e volle Col terror contenerli: indi suprema Grazia spargea sugli esteri comprati, E verso ogni nativo anco più fido Scorger lasciava diffidenza ed ira. Giunse a tal, ne' suoi dì più disperati, La tirannide sua, che i prigionieri, Se patria avean la saluzzese terra, Considerava ribellanti degni Dell'ultimo supplizio, e senza indugio Strage ne fea. Tal rabida inclemenza Costrinse i ghibellini a rappresaglia, Sì che perdòn più non brillò sui vinti. A quel tempo si vide in ambo i campi Accorrer di Staffarda il santo abate, Misericordia supplicando invano Pe' guerrieri captivi. A lui Manfredo Con vilipendio rispondea, sgozzando Innanzi a lui le vittime, e nell'altro Campo l'udìano con ossequio i prodi, Ma rispondean che giusto uso di guerra Stabilìa le vendette, unico modo A frenar gli avversari in tal barbarie. Per tutti gl'immolati Ugo gemea, E notte e giorno l'atterrìa il timore Che prigion di Manfredo in qualche pugna Eleardo restasse. Ah! insiem con esso Un altro cuor da quel pensier tremendo Era a que' tempi strazïato: il cuore Della figlia d'Arrigo. Avea creduto L'infelice Maria poter nemica Vivere ad Eleardo, allor che intese Ch'ei dipartito dalle guelfe insegne Alla destra di lei più non ambiva. L'avea davvero alcuni dì abborrito Com'uom che lei tradìa, com'uom che l'armi Tradìa de' generosi. Ah! nel sincero Animo della vergin quello sdegno Fu breve fiamma, e sfavillò al suo ciglio De' ghibellini la giustizia, e pianse Riconoscendo in qual funesto errore Il padre s'avvolgesse. Ella in Envìe Nel paterno castel traea la vita Colle dilette ancelle, trepidando Pel genitore e per l'amante. Ascesa I passegger vedeanla da lontano Su questo ovver su quel dei sette grigi Torrïoni d'Envìe. La sventurata Scorgea nella pianura o sovra i colli Gl'incontri delle avverse aste feroci, E talor le parea per que' remoti Lochi discerner dal fulgor degli elmi Arrigo od Eleardo, od ambidue Cozzanti insiem. Prostravasi la pia Lagrimando e pregando il Re del Cielo E la Donna degli Angioli; e sovente Restava lunghi giorni il dilicato Corpo affliggendo con digiuni, e intere Vigilava le notti in calde preci, I proprii patimenti a Dio offerendo Per la salvezza de' suoi cari. E seco Viveano in lutto e assidua penitenza Le fide ancelle e antichi servi. L'alme Angosciate si schiudono a paure Di superstizïone. Or dalla torre Nelle nubi scorgean croci di sangue, E sembianze di scheletri, e l'immensa Falce e dell'Angiol della morte il pugno; Or di sciagure sovrastanti indizio Lo strido era dell'ùpupa ed il mesto Urlo notturno dell'errante cagna; Or dagli armati servi a mezzanotte L'estinta madre di Maria s'udiva Singhiozzar nel sepolcro, o lentamente Scoperchiarlo ed uscirne, e per le brune Scale salire, ed appellar con fioca Voce il marito o la diletta figlia. A calmar quelle ambasce e que' terrori E a consolarsi fra i soavi amplessi Dell'innocente vergine, il cruccioso Padre venìa talor. Con duri modi L'aspreggiava e garriala del suo pianto, Poi commoveasi e l'abbracciava, e preci La supplicava d'innalzar pe' guelfi. E nelle rughe della smorta fronte Ella più e più leggea del genitore I sinistri presagi. Insinüante Sonava un non so che nella pietosa Voce di lei che costringea il canuto A poco a poco a palesarle occulti Sempre novi dolori. Un dì le disse: - Più non pregar pe' guelfi! abbandonati Siamo da Dio! Deluse ha mie speranze Il superbo Manfredo: i miei consigli, I preghi miei non cura. Adulatrici Parole ei vuol; darle non so. Un drappello D'infami lusinghieri applaude a tutte Sue tirannie, le suscita, il fa cieco Stromento a loro insazïabil sete Di tesori e vendette. Apportar senno Volevamo e giustizia; abbiam delitti E stoltezza apportato. Ad uno ad uno Da noi si dipartìano i prodi amici: Pochi omai siamo ed esecrati, e all'orlo Dell'estrema ignominia! - Oh sciagurate Voci! oh misero padre! I vaticinii Ecco d'Ugo avverati! Il reo vessillo Lascia tu dunque di Manfredo: accetta Di Tommaso la grazia! - È tardi, o figlia! Errò Manfredo, ma infelice il veggo: Mai da prence infelice non si scosta Fuorchè il vigliacco! - Oh padre amato, pensa... - Che vigliacco non son, che con Manfredo Debbo cader. - Mai di vigliacco taccia Ad Eleardo non darassi. - Ei corse Quando da noi si svincolò, a bandiera D'un prence espulso: audace era il partito, Ma generoso. Non così oggi fora, Correndo a sir cui la fortuna arride. Cessa il tuo supplicar, cessa il tuo pianto: Dimane si combatte, e se non opra Per noi prodìgi Iddio... dimane, o figlia, Più non hai padre! - Oh feri detti! - Io vengo L'ultima volta a benedirti forse: Con vigor di te degno, odimi: stirpe Di codardi non siam. Tergi le ciglia, Frena i singhiozzi; te l'intìmo. Ascolta: Un patto pongo al benedirti. - Quale? - Bada che guelfo io moro, e maledetta Sarà tua man se a ghibellin la porgi! - T'affida, o padre: intendo. Amo Eleardo, Ma te guelfo perdendo, a ghibellino Moglie mai non sarei! - Tutti il Signore Dunque sul capo tuo spanda i suoi doni! Me sol, me sol de' falli miei punendo, Sparmii l'anima tua! Disse. Ad un servo L'accomandò; da lor si svelse e sparve.
VIII.
Infelici ambidue! - Ma più infelice Forse d'ogni innocente addolorato È quel mortal che temerario corse A illusïoni infauste, onde tormento Ineluttabil ridondò a' suoi cari! Oh come allor, nella pietà ch'ei sente Di questa o quella vittima diletta, Tardi vede primier debito d'uomo Esser religïon, carità, pace, Provvedimento a dolce sicurezza Di domestiche gioie, e non desìo Imprudente di gloria e di perigli. Tal verità gli splende, or che non puote Più sollievo ritrarne il vecchio Arrigo; E forte è assai per sè medesmo in tutte Avversità, ma non è forte, al duolo Della figlia pensando, e sebben mostri In mezzo a' suoi guerrieri animo invitto, Spesso ei nel manto si rinchiude e piange. Tre dì Maria si stette in disperati Non cessanti delirii: - Empio Eleardo! Perchè movevi alle felici insegne Destinate al trionfo, e il padre mio Per dolci preghi e dolce vïolenza Teco a salvezza non traevi? Oh fossi Tu restato co' guelfi! il valoroso Tuo braccio avriali sostenuti. Un prode Fatal perdemmo in te: spesso deciso A pro de' ghibellini hai la vittoria. Possente impulso hai dato alla fortuna Del profugo Tommaso: alta, primiera Cagion tu sei delle sconfitte nostre. Ah, non m'amavi, ingrato! E insino ad ora Io figlia iniqua, immemor de' perigli Del caro padre mio, secretamente Alzato sempre voti ho pe' tuoi giorni! Que' voti abborro! quell'amor disdico! Il padre mio si serbi! il padre vinca! Il padre atterri i suoi nemici, i miei! Guelfa, guelfa son io! Mendace è il grido Che di virtù civile ai ghibellini Or dona palma. I nostri petti infiamma Vero di patria amor: calunnïato È Manfredo da voi; calunnïato È il padre mio, di giuste opre seguace; Ma vinti siamo, e il mondo vil ne impreca! Così l'immenso affanno isconsolata Iva Maria sfogando; e avvicendava Accenti d'ira e di pietà, e d'umìle Fervida prece. E promettea al Signore, Se dagli eccidii salvo andasse il padre, Essa tutrice farsi ad orfanelli, A vedove, ad infermi, a pellegrini, E tutti gli anni un dono offrire eletto Sì di Riffredo al monister famoso, Sì ad altri santi d'innocenza asìli. Ella avrebbe voluto alle promesse Che le dettava il core, aggiunger quella Di cingere in Riffredo il santo velo, Ma la meschina non potea, pensando Al solitario padre orbo di figli! Ed, ahi, forse non conscia ella a sè stessa, Anco pensava mal suo grado ognora A colui, che ne' scorsi anni felici Erale stato così caro! Oh come La infelice Maria sta dalla torre Investigando ogni lontano moto D'armi o di passeggieri, ed in lei cresce Indicibil timor ch'ella securo Presentimento d'alto lutto estima! Chi son que' duo che sull'arcion veloci Movon per la pianura? Ad essi lunghe Soverchiamente son le usate strade, E là passano un rio, là per gli sterpi D'una macchia s'inoltrano, agognando Il più diretto corso. Alla borgata Pareano volti di Revello, e pure Quivi non si soffermano, e alla terra Certo d'Envìe sospingono i cavalli. Oh di Maria nell'anima dubbiante Ansïetà novella? Or si protende A guardare in silenzio, or si dispera, E grida e trema di saper chi sièno Que' frettolosi. Omai discerne alfine Che non guerriera è la lor veste; e poscia Sospetta, avvisa che l'un d'essi il giusto Presule sia col fido laico. Un dubbio No, più non è; son dessi! A quella vista Le ginocchia le mancano, ma i sensi Non perde ancor. La reggono le ancelle, E la misera esclama: - Ugo! tu vieni A me del padre ad annunciar la morte! Ma quando intese appo il castel d'Envìe Scalpitare i corsieri, allor sì grande Fu la tema e il dolor, che appieno svenne. Ahimè! spenta la credon qualche tempo Le ancelle e i servi. Alfine in sè ritorna, Ed entrar vede pallido, turbato, Lagrimoso il canuto. - Il padre mio... Parla... dov'è sua spoglia? - Ei vive ancora; Ma prigionier, ma dalla cruda legge Che a morte danna i prigionieri, oppresso! - Oh sventurato! oh più felici quelli Che in battaglia cadeano! E tu a supplizi Lasci lui trarre? Intercessor non debbe Uom di Dio farsi a disarmar le atroci Ire de' vincitori? - Ah! da te sono, O vergine, ignorati i vani sforzi Che tentai da Tommaso! I suoi nemici, Or volgon pochi dì, sacrificaro Barbaramente dieci illustri teste Di ghibellin captivi. Universale Nell'oste ghibellina è quindi il grido, Che gl'immolati abbian vendetta. Arrigo Morrà domane con nov'altri: il cenno Tommaso niega rivocar; respinto Venni da lui. Prova sol una or resta: Seguimi al campo: sforzerem l'ingresso Della tenda del sir; forse il tuo pianto Ammollirà il suo nobil cor, dai truci Fatti d'alterna rabbia incrudelito. - Il ciel t'ispira: andiam. Rapidamente La vergin s'allestì; rapidamente Ella e pochi fedeli in sui corsieri Volser con Ugo al saluzzese campo. Ad un tronco giaceva incatenato Tra i furenti nemici Arrigo, a breve Di Saluzzo distanza. Ei siccom'uomo Che avea la gloria di Saluzzo amata Vagheggiando per essa e per Manfredo Fortune alte, impossibili, or mirava Con istupor, qual visïon non vera, Quell'ultima sconfitta, e quell'orrendo Svanir d'ogni speranza, e quel ritorno De' ghibellini e di Tommaso, e quella Guerra in veloci tratti or consumata Con nessun frutto, fuorchè stragi e scherni E povertà ed obbrobrio e sacrilegii! E tutto ciò per vicendevol, grande, Creduto zelo di virtù e di patria! E innanzi a lui mirando egli quel loco Dove a prosperi dì sorgea Saluzzo, E dove diroccato oggi è il recinto, E dentro quel, fra orribili macerie, Non v'ha che rari antichi alberghi e templi Con negri campanili, e qualche novo Incominciato cittadino ostello, Sente Arrigo la dura alma infiacchirsi Da pietà inusitata. Ei nella foga Delle gioie guerresche avea con occhi Di ferocia le fiamme un dì veduto Ed il saccheggio devastar Saluzzo. Or cessata l'ebbrezza, il cavaliero Delle avvenute iniquità s'affligge, E dice mal suo grado: - Ecco onde il Cielo Manfredo e i guelfi e me con lor condanna! Poi caccia quel pensiero, e, benchè rieda, Celarlo vuole, e alta la fronte ei tiene, Con dispregio guardando i vincitori. Cacciar vorrebbe altro pensier più dolce, Ma in un più divorante. Ei nelle meste Sale d'Envìe scorge la figlia, ed ode Il miserando suo lamento, e sola, Orfana, senza prossimi congiunti, Senza soccorsi d'amistà la mira; E le canute palpebre di pianto Amarissimo grondano e i singhiozzi Frenar non puote, e colle scarne mani Si copre il volto per vergogna e rugge. Un de' custodi come un tempo i falsi Di Giobbe amici, lo compiange e incuora. - Non avvilirti, o prode; in cielo è scritto Il destin de' mortali; adorar sempre Dobbiam di Dio gl'imperscrutati cenni: Non accettarli è codardia e bestemmia. - Taci, impudente ghibellin; m'è noto Che giusto è Iddio, che i falli miei punisce, Che l'are sue mal onorai, che vissi D'ira e d'orgoglio più d'ogn'uom, che merto Cader per mani inesorate e inique. Non mi ribello contro a lui; non biasmo Il suo rigor, non tremiti codardi Me presso a morte invadono: un'angoscia Non ignobil mi preme. Ho una figliuola Ch'orfana resta, e sua sventura io piango! - Padre ai pupilli derelitti è Iddio. - Vero favelli, ma la terra è piena Di pupilli derisi, insidïati, Spogli di tutto; ed ahi! su lor punite Forse da Dio son le paterne colpe! Indi io pavento, io peccator, sul fato Che all'innocente figlia mia sovrasta. - Ben paventate, o sciagurati guelfi, Che tanti alberghi incendïaste, e tanti Olocausti sacrileghi immolaste: Men empio è il ghibellino. - Empi siam tutti, Amor vantando di giustizia a gara, E ognor con nostre stolte ambizïoni Opprimendo la patria e calpestando Natura e dritti ed innocenza e onore! Così dal labbro del feroce vecchio Usciva un misto d'indomata audacia E di sincero pentimento. Il capo Piegava sotto ai fulmini divini, Ma i consigli degli uomini esecrava, E negli sguardi suoi sì presso a morte Indistinti fulgean Cielo ed Inferno.
IX.
Bella fra tutte umane imprese è quella Dell'uom che avvampa di desìo di pace E di perdon, non per suo proprio bene, Ma per altrui! ma per servire a Dio, Ed alla dolce patria e ad infelici Cuori ch'egli ama e consolare anela! Tal nell'ire civili è il vostro uficio, O vegliardi autorevoli che all'ara Del Dio di pace consecraste i giorni! Ecco arrivare al campo Ugo e Maria: E mentre del marchese al padiglione Van rivolgendo accelerati i passi, Veggono appunto da catena stretto A fisso legno fra custodi Arrigo. Con qual pianto e quali impeti di grida Prorompe la fanciulla infra le care Braccia paterne! e qual celeste han suono Sue filïali tenere parole A genitor così infelice? Ei serra Al sen quella innocente; e sclama: - Oh gioia! Ma insana gioia! Oh nuovi affanni orrendi! Deh, perchè a me non li sparmiava Iddio? Non misero abbastanza era il mio fato, Ugo crudel? Tu qui la figlia traggi A vedermi morir! - Padre, ei mi tragge A salvare i tuoi dì. - Che? supplicando Codardamente il vincitor maligno Di largirmi il perdon? Non sarà mai! La stirpe mia non annovrò guerrieri Che morir non sapessero da forti. D'espor ti vieto il virginal sembiante Al barbaro sorriso de' felici! Io so morir, io morir voglio prima Che la mia figlia a' piedi altrui si prostri! - Padre, lasciami: il so, ti disdirebbe Di coraggio scarsezza ai più tremendi Giorni della sconfitta, e se il nemico Te immolar vuol, da prode cavaliero E da cristiano perirai pregando Non gli uomini, ma Dio. Lasciami: un altro Dovere è quel di figlia. A me ignominia Fora il non chieder la tua vita al sire. - Vilipesa sarai. - Pur vilipesa, Degna sarò d'ossequio e di compianto: Avrò adempiuto quanto amor di figlia, Quanto la voce del Signor m'impone. Contendeano in tal foggia, e l'ostinato Arrigo persistea nel suo divieto; Ma di Staffarda l'infulato duce Strappò Maria dalle paterne braccia, Ed attraverso a numerose tende Corrono di Tommaso al padiglione. Udivan essi da lontano gli urli Del corrucciato Arrigo: - A tutte dunque Serbato io son le più esecrabili onte! Di me la figlia indegnamente stesa Ad implorar la vita mia, la vita Che mi si fa spregevol, che non posso, Che non voglio accettar! Riedi, ten prego, Tel comando! paventa il furor mio, Il maledir d'un genitor morente! Ghibellino fu sempre Ugo, e nol move Pietà di noi. L'ipocrita vegliardo Del nostro duolo infamemente esulta, E per farlo maggior vuol che d'Arrigo L'ultima figlia esempio doni abbietto. Del minacciar, paterno e delle ingiuste Voci contr'Ugo questa inorridiva; Ma il venerando abate alla fanciulla Reggeva il cor, dicendole: - Salvarlo Dobbiam malgrado l'ira sua superba. Ma qual d'entrambi è l'animo allorquando Dalle guardie interdetto al padiglione Vien lor l'ingresso! Non bastàr nè preghi, Nè lagrime, nè strida. Un assoluto Cenno del sir faceva inesorati Tutti i guerrieri che cingean la tenda. Stavano dentro a quella in assemblea Col supremo signor parecchi duci; E questi duci tutti eran da lunghi Danni e da amare perdite innaspriti, Sì che spinto da lor venìa il marchese A costante fierezza, insin che, espulsi Pienamente i nemici, astro securo Di comun gioia sfavillar potesse. Entro la rocca di Saluzzo chiuso Erasi il rio Manfredo, e colà ancora Ei da stranieri iva sperando aïta, Benchè spersi fuggissero, inseguiti Dall'antico Giovanni e da Eleardo. Di questi duo suoi fidi cavalieri Or più Tommaso non avea contezza Già da due dì. Certo parea il trionfo; Ma se fallito avesse? e se impensate Novelle squadre di possenti guelfi Nel paese irrompessero? Que' dubbii Nutron lo sdegno di Tommaso. Impone Che congedati sien Ugo e Maria, E quai si fosser supplicanti. Allora Pria di ritrarsi il presul generoso Resistendo alle guardie, alzò la voce: - Nobil marchese di Saluzzo, ascolta I moti del cor tuo: non meritato Da' tuoi nemici è di tua grazia il raggio, Ma so ch'aneli d'emanarlo, e Iddio L'adempimento di tua brama aspetta Per benedirti più e più... Troncato, Fu duramente da' guerrieri il pio Grido del vecchio, e fu troncato il grido Dell'angosciata vergine, e repente Lunge dal padiglion venner sospinti. Videli Arrigo a sè tornare, e disse Con amaro sogghigno: - Il pianto vostro Non terse dunque il vincitor? Lucraste, E ben vi sta, gli ultimi oltraggi: io puro Son di codesto obbrobrio vostro almeno! A Dio mi curvo; a nessun uomo in terra! Ma dopo quel sogghigno e quell'acerba Favella, intenerissi alle dirotte Lagrime di Maria. Con lui rimase La sconsolata, e ritornò alla tenda Il santo amico lor, novellamente Tentar volendo di Tommaso il core; Ed intanto la vergine abbracciando Del padre le ginocchia, or lo pregava Di placar Dio con miti sensi, ed ora A Dio medesmo rivolgea sue preci. Ugo, ahimè, ricompar! nulla otteneva, Nulla ottener più spera! Alta mestizia Al degno sacerdote in volto siede, Ma mestizia di forte alma che viene Un moribondo a regger nel tremendo Agonizzar dell'ore sue supreme. Maria l'intende, e misera prorompe In impeti di duolo inenarrati; Smarrisce i sensi, e inconsapevol tratta Viene appartatamente infra pietose Donne che a lei soccorrono. Prostrossi Arrigo allor del sacerdote a' piedi, E confessò sue colpe. E dacchè sciolto Gli fu in nome di Dio di queste il laccio, Si rïalzò con pacatezza altera, Ma non di quella indomita alterigia Che in lui dianzi apparia, qual di nociva Fosca meteora formidabil luce. Or quell'ardito e dignitoso sguardo Porta di pace e d'umiltà un'impronta Che vien dal Ciel, dal Cielo, autor sublime Di stupende armonie! - Dov'è mia figlia? Ugo, traggila a me: l'estrema volta, Benedirla degg'io. Meco brev'ora Star si potrà. Fu ricondotta al padre La sventurata, ed ancorchè d'affanno Le sanguinasse il cor, pur di lui vide Con maraviglia la quiete, e grazie Alla Donna degli Angioli ne rese, Ed impose a se stessa umiltà, pace, Eroica forza. Ella piangea, ma freno Ponea a' lamenti, e con devote ciglia Mirava il padre, e sue parole tutte Accoglieva nell'anima, siccome Parole d'uom che santamente muoia. Festivo era quel giorno, e perciò l'altro Pei supplizi aspettavasi. Omai tarda Era la sera, ed Ugo apparecchiati A pio morire aveva altri prigioni. Ritorna ei quindi presso Arrigo, e i proprii Palpitamenti di pietà vorrìa Celare in parte: - O cavaliere! o donna!... Tutto puossi con Dio!... - Dal padre amato Deh, ch'io non venga separata ancora! Lontana è l'alba. - Più crudel sarìa Vicino all'alba separarvi. Arrigo Stringeva al sen la figlia, e lei disporre Desïava a partir. Ma la infelice Alla prova tremenda obblïò i miti Sentimenti di pace, e la ragione Le si turbò miseramente. - Oh guerre Scellerate di popoli! oh stendardi Di virtù menzognere! oh glorie infami D'emuli cavalieri, onde son frutto Crudeltà e morte! Ah! perchè Dio fecondi Alla feroce umana stirpe ognora Fa gl'imenei, se la catena intera De' secoli spruzzata è d'uman sangue? E qual di sì esecrande ire perenni Colpa abbiam noi, dell'uom compagne e figlie, Nate ad amar, nate a compianger, nate A viver senza offesa, assorte in Dio! Di qual delitto intrisa son perch'oggi A me tolgano il padre i masnadieri, Nè generoso pur vi sia terrestre O celeste poter, che degli oppressi Alla difesa accorra? Ed Eleardo In ch'io tanto fidava, anco Eleardo Ch'io tanto amava, abbandonommi! Il campo Suona improvviso di festanti grida. Balza il core a Maria; porge ella ascolto: Che sarà mai? Reduci sono il prode Antico Doglianese ed Eleardo, Apportatori di vittoria piena. Brillan del presul le ispirate luci Per novella speranza, e i passi affretta Ver l'amato nepote; il giunge, il ferma, E d'Arrigo gli parla. Intanto usciva Del padiglion Tommaso, e lieto amplesso Porgeva a' trionfanti; e ratto a lui Volgea tai detti di Dogliani il sire, Indicando Eleardo; - Alla prodezza Di questo forte molto devi, o prence; Le più valenti squadre egli ha sconfitte. Stende il marchese al giovin glorïoso L'amica destra. Ei gliela bacia, e prono. - Signor, grida, signor, me qui tu miri Astretto a chieder dalla tua clemenza A' pochi miei servigi alta mercede. - Quai pur sieno tue brame, o campion mio, Le manifesta, e saran paghe. - I giorni Chieggo salvi d'Arrigo. Il so, fu reo: Non corrucciarti del mio ardito prego. Arrigo a me qual padre ebbi molt'anni, E padre è di colei che sul mio core Sin dall'infanzia regna. Ondeggia alquanto Il magnanimo prence, indi prevale Benignità sugli altri affetti, e sclama: - Ho perdonato! ogni prigion si sciolga, Ed a' suoi tetti rieda, apparecchiando A più nobile oprar suoi dì futuri. A quella augusta consolante voce Mill'altre voci eccheggiano, e fra loro Quella del vecchio di Dogliani, e quella Del presul di Staffarda, e più robusta Quella del giovin che all'amata donna Rendere può del genitor la vita. A tanti applausi si nasconde il prence Rïentrando commosso entro sua tenda: Ed ecco volan Ugo ed Eleardo A scior d'Arrigo i lacci. Il prigioniero Uso ad ira e superbia, esitò prima, Poi fu da conoscente animo vinto E da dolcezza, ed Eleardo al seno Colla figlia serrando, inginocchiossi, E disse a Dio: - Sovra Tommaso schiudi Tuo più giocondo riso, e prosperato Sia nel dominio e nella prole, e cessi A lui d'intorno ogni fraterna guerra! Modestia e gratitudine e contento E maraviglia e amor davano agli occhi Della vergin bellissima un novello Indicibile incanto, onde il fedele Suo cavalier gioìva inebbrïato. Scorge i lor voti il padre, e prende e unisce Le destre loro. Un grido alza di gioia Il felice Eleardo, e la tremante Fanciulla irrompe in lagrime soavi, Benedicendo la celeste aïta Che i lunghi affanni in tanto gaudio volse. Di Saluzzo la rocca indi a tre giorni Spalancar si dovette. Uscì Manfredo Con pochi suoi compagni ed esularo; E in sua paterna sede il buon Tommaso, Se non durevol pace, almen godette Signorìa da virtudi alte illustrata, E alle rovine di Saluzzo orrende Nuovi successer tetti e nuovi prodi.
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5 La Contessa Deodata Roero di Revello, nata Saluzzo. |
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