Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Silvio Pellico
Poesie inedite

IntraText CT - Lettura del testo

  • VOLUME SECONDO.
    • AROLDO E CLARA
Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

AROLDO E CLARA

 

CANTICA.

 

Ideai e verseggiai la cantica d'Aroldo e Clara molto prima di scrivere i Saluzzesi; ma la pongo qui perché il soggetto si collega con quello del precedente poemetto.

Questa cantica nacque in giorni di somma sventura, ne' quali io, sentendomi troppo inclinato a sentimenti di sdegno, procacciava di vincerli col ragionare fra me stesso sulla bellezza della mansuetudine. Era in me indelebile un consiglio del buon Alessandro Volta, il quale un dì m'aveva detto queste parole, distogliendomi dallo scrivere satire: - «La poesia arrabbiata non migliora nessuno; e se v'avviene di sentirvi iracondo e propenso a spargere la bile in versi, paventate di diventar maligno. Vorrei anzi che allora cercaste di raddolcirvi, poetando sopra qualche nobile esempio di carità e d'indulgenza.»

 

 

 

AROLDO E CLARA.

 

Sed si esurierit inimicus tuus, ciba illum;

si sitit, potum da illi.

(Ep. Ad Rom. 12.)

 

 

I.

 

Piangi, o la più gentil fra le convalli

Dello spumante Pellice, ove un giorno

Alle sale d'Aroldo i Saluzzesi

Cavalieri affluìano ad alte feste.

Più non vedrai delle sue torri a sera

Uscir giulivo il cieco vecchio Aroldo,

Caramente appoggiando un braccio e l'altro

Sovra Ioffrido e Clara, ed il canuto

Ciglio volgendo con amor, ma indarno,

Ai dolci rai del tramontante sole.

Que' figli suoi nascean gemelli, e santa

Tenerezza li univa. Or sola e mesta

Clara accompagna il cieco padre a sera

Fuor della torre, perocchè il gagliardo

Fratel devote ha l'armi alla difesa

Del pio Tommaso suo ramingo prence

Contro i nemici della patria terra.

Rosseggiava bellissimo un tramonto

Sulle nevi lontane, e stupefatto

Pareva il sol che dal romito albergo

A salutarlo non venisse il vecchio.

Ahimè, quell'era di sventura un novo

Spaventevole dì! Schiudesi alfine

La porta del castello, e con veloci

Passi agitatamente escono Aroldo,

Clara e più servi; nè il canuto ciglio

Ai soavi del sole ultimi rai

Volger si cura. Che avvenia? - Dal campo

Infausto messo è giunto. Il pro' Ioffrido

Contro l'usurpator del saluzzese

Seggio osando tropp'oltre avventurarsi

Nel calor della pugna, il circondaro

L'empie straniere spade, e prigion cadde.

Speme di riscattar sì cara vita

Nutre il barone antico; e vuole ei stesso

Trar supplichevol senza indugio al truce

Fortunato invasor, che se talora

Immolar gode i miseri captivi,

Talor si placa a ricca d'oro offerta,

Molto dovendo da sua iniqua sede

Oro il tiranno effonder sulle bande

Dell'alleato provenzal monarca.

Giunto al margin vicino ove al tragitto

Nel rigonfiato Pellice è apprestata

La navicella, Aroldo porge il bacio

Del congedo alla figlia. Allora al collo

Gli s'avvinghia la pia. - Sola a mie stanze

Non riederò, buon genitor; pupilla

Esser della tua fronte a chi s'aspetta

Se non a me? Forse pietà maggiore

Assalirà dello sdegnato sire

Il cor, s'umano ha cor, prona a' suoi piedi

La veneranda tua canizie e gli anni

Giovenili di vergine scorgendo,

Che colla vita del fratel la vita

Chiede del padre.

Vuole opporsi Aroldo,

Ma mentre in barca ei scende, ella d'un balzo

Già vel precede, e al consentir paterno

Fa cogli amplessi vïolenza, e l'onde

Perigliose attraversano. Ma ov'era

L'Angiol del vecchio afflitto e l'Angiol tuo,

Generosa innocente? A voi non velo

Fecer colle tutrici ale a celarvi

Alla vista de' prossimi ladroni

Che irrompono co' brandi alla rapina.

Voler divino ai nembi di sfortuna

Lascia possanza sovra i giusti un tempo;

Ma breve è il tempo sotto il sole, e arcana

Nei patimenti una virtù Dio pose

Ch'anco i giusti migliora e a sè li innalza.

Sbandato di predoni era un drappello,

Che della guerra col favor raccolto

S'era d'Itale spiagge e di straniere

A rubamenti ed omicidii, altero

Linguaggio alzando di zelanti eroi,

Campioni della patria e di Manfredo.

S'azzuffan del baron coi fidi servi,

E nell'orrenda mischia ad uno ad uno

Dal soverchiante numero feriti

Vengon que' servi, e de' vincenti in mano

Son le ricchezze che a comprar la vita

Destinava del figlio il cieco sire.

Intero un dì per boschi e per dirupi

Ei trascinato colla figlia venne,

Ma il manto della notte ai duo infelici

Prestò propizie tenebre, e dal mezzo

Del brïaco drappel de' masnadieri

Quetamente si trassero alla valle.

Come lontani fur dall'empia frotta,

E ardiron favellare, il cieco strinse

La figlia al seno, e grazie alte le rese

D'averlo addotto a salvamento, e lei

Per l'accorto suo senno e per la dolce

Filial carità ribenedisse.

- Or dove, o padre, senza aïta alcuna

Ci avvïeremo?

- O Clara mia, remoti

Siam dal nostro castello, e a ritornarvi

Il tempo mancheria; son prezïosi

Tutti gl'istanti; acceleriamo il passo

Verso il campo nemico, appo le triste

Di Saluzzo rovine. O senza doni

Compariremo anzi al tremendo sire,

Ma sincere promesse il piegherranno

A moti di clemenza. Inoltre ho fede

In mia canizie e in queste spente occhiaie

E nel pianto che versano, e ben anco,

Figlia, nel tuo.

Pensava Aroldo ospizio

Prender non lunge, ove la figlia al raggio

Della luna scorgea l'amica torre

D'un consanguineo sir. Ma là giugnendo,

Odon che il giorno pria furibonda oste

Era quivi passata e avea deserta

La rocca e trucidato il castellano,

E devastato a' villici i tugurii.

Il negro pan de' villici dispersi

Piangendo rompe colla figlia Aroldo,

E beono alle lor tazze. Indi sen vanno

Per tutti i casolari, invan cercando

Palafreno o giumento: avean le schiere

De' nemici avidissime votata

In que' lochi ogni stalla.

- Ahi, dilungati

Vieppiù ci siam dal tetto nostro, o padre!

Or dove andrem?

- Pedon la via si segua

Sino al mattin: buio non è, dicesti.

Fa cor; preghiamo camminando, e al guardo

D'altri ladron te, mia dovizia or sola,

Te il ciel pietoso asconderà.

Sì disse,

E di padre l'affetto e di sorella

Lena lor porge insino all'alba. Il campo

Mostrossi allora al pauroso orecchio

Della fanciulla pria che agli occhi.

- O padre,

Odi tu, disse, odi tu roco un suono

Simile al suon della bufèra o a quello

Di molte acque correnti?

Il vecchio capo

Ei soffermò, ed immemore un istante

Delle sue angosce, alzò la barba e rise.

-Oh di qual gioia quel fragor m'empiea

Negli anni miei di gloria! È il campo, o figlia!

Noto è ad orecchio di guerrier quel suono,

Come voce di sposa al suo diletto.

Un dì così fremente io il bellicoso

Aere appena sentia, sovra il mio scudo

Battea forte l'acciaro, e dai precordii

Metteva un grido che atterrìa da lunge

Del nemico le scolte. E i miei congiunti

Dicean: «Voce è d'Aroldo, oggi si pugni,

Chè dove è Aroldo, è la vittoria.» Or fiacca

È questa voce, e più la destra, e al breve

Giubilo del guerrier tosto succede

In me a quel suono il trepidar del padre.

Proseguiro alcun tempo, e quindi Clara,

Che sino allor söavemente a' detti

Del genitore avea frammisti i suoi,

Incominciò a interrompersi, e risposte

Dar che, non conscio l'intelletto, un moto

Parean sol delle labbra. A poco spazio

Vedea della distante oste per l'aure

Quasi di nave altissimi duo pini

Elevarsi e ondeggiar, poscia fermarsi

Come al suolo confitti. E secondata

Venìa quell'opra da un clamor che il primo

Clamor non era, ma or fischiante or rotto

Da infami ghigni o da cupo silenzio.

A' sensi suoi creder dovea? Le cime

Parean gravate de' duo legni, e il pondo

Che le gravava non scerneasi. Udito

Spesso Clara ha di barbari supplizi,

Ove ad appesa vittima lo strale

Drizzano i bersaglieri, ed ottïen palma.

Quei che divide dalle ciglia il teschio.

Di tai supplizi un questo fora? Oh dubbio

Peggior di morte! E chi alla sbigottita

Dice s'uno colà de' morïenti

L'amato suo fratello ora non sia?

Chi le dice se il passo al genitore

Vietare a forza ella non debba? Ahi lassa!

E se il padre trattien, non di Ioffrido,

Che forse ancor sull'albero non pende,

Cagionerà la morte?... Ad ogni costo

Vadasi al fatal loco!

Il piè, tremando

In ciò pensare, affretta. In man la mano

Della meschina Aroldo tien. - Di gelo,

Fra sè diceva, è questa man, siccome

Quella ch'io strinsi di sua madre al letto

Ove s'estinse.

Indi il vegliardo scuote

Il capo, quasi scuotere volesse

Un malaugurio, e non potea. - Di morte,

Figlia, i negri m'inseguon pensamenti.

Abbi pietà di mia vecchiaia, e i cari

Detti mi porgi che tue labbra sciorre

Uniche san, quando scorato è il padre.

Nata ne' giorni di sventura, e in erma

Torre cresciuta, ove sorelle e madre

Vide spirar, sollecita a sinistri

Presentimenti schiuder l'alma, è fatto

In lei religïon. Si raccapriccia

In udir che s'affaccin alla mente

Del genitore e in quest'istante i negri

Pensamenti di morte. A lui si volge,

Apre le labbra - e i consolanti detti

Ch'uniche sciorre un dì sapean, non trova:

Non trova, ed ahi! la prima volta è questa

Che inobbedito di suo padre è il cenno.

- Più de' pensier miei tristi or malaugurio

M'è il tuo silenzio, ei dice.

E lo spavento

In lei crescendo, e a' rai primi del sole

Splender veggendo le volanti frecce,

Improvviso s'arresta. - Oh genitore!

Non c'inoltriam: non odi tu le strida

Degli assassini?

- Il figlio, il figlio mio

Forse a morte strascinano: affrettiamci.

- Deh, padre, ferma! a' piedi tuoi ten prego.

Io stessa innanzi andronne, e se Ioffrido

In vita è ancor, di novo al fianco tuo

Tosto mi rendo, ma te... O ciel! raddurre

Te vivo a casa allor io posso almeno!

- Sciagurata, che parli? Orrende cose

Forse tu vedi e a me non dici. Ovvero

Fra quelle voci che il mio antico orecchio

Non distinte percuotono, tu scerni

Voci di morte e del fratello il nome.

Che vedi tu? Che al giovenil tuo orecchio

Porta il tumultüoso aere d'atroce?

- Nulla, o buon padre. Ma t'arresta; pensa

Che se tu, giunto appo i nemici, udissi

L'orribil caso... tu m'intendi... allora

Orfana forse rimarrei nel campo.

- Me perder temi, e non t'avvedi, insana,

Che scellerata è tua pietà? Egli muore,

E tu qui mi rattieni? Il varco sgombra,

Tel comando, obbedisci.

All'inusata

Ira paterna impaurissi Clara;

S'alzò. Con passi rapidi il cammino

Misura il cieco, e strascinata quasi

La giovinetta il segue. Erasi spersa

La turba intanto che cingea i duo pini,

E presso a questi il padre e la sorella

Arrivan di Ioffrido. Ella più volte

Erse il ciglio tremando, e insanguinate

Scorse due salme, e incontanente a terra

Ritrasse il guardo. E non varrìa sovr'esse

Fiso tenerlo ad indagar; chè franta

Han la coppa del cranio, e dal mozzato

Lor sembiante piovea cèrebro e sangue.

Ma quell'orrida vista e lo spavento

Forza a' ginocchi tolgonle ed al core:

- Padre! dic'ella, padre!... E qui stramazza

A' piè d'Aroldo.

E mentre brancolando

Col caro pegno tra le braccia fugge

D'in mezzo della via, però che udito

Brigata di cavalli ha scalpitante

Di qua dal campo alla sua volta, e ignaro

Ad un de' lati fermasi, ove un tronco

D'albero sente; innanzi a lui lo stuolo

Giunge de' cavalieri. Era Manfredo,

Che di baroni provenzali cinto

Per intenti di guerra iva il terreno

Intorno visitando. Una fanciulla

Scorge egli tramortita ed un vegliardo;

E voltosi ad Aroldo, acerbamente

Così gli grida: - O discortese e stolto,

Perchè nel sangue d'un fellone e sotto

Il patibolo tratta hai quell'afflitta,

Cui toglie i sensi il raccapriccio?

- Oh sire,

Oh novo sire di Saluzzo! esclama

L'antico cavalier, cui non intera

L'aspra parola del crudel pungea,

Nota è ad Aroldo ancor la voce tua:

Aroldo io son dalle romite torri

Che si specchian nel Pellice. E l'illustre

Tuo genitor te adolescente spesso

Adduceva a mie sale, e co' miei figli

In un calice sol beevi a mensa.

Ah per memoria del tuo estinto padre

Oggi pietà di me ti prenda! Il figlio

Ch'unico maschio avanza a mia vecchiaia,

E cadde tuo prigion, deh non rapirmi!

Io non leggeri doni a te in riscatto

Dal mio castel portato avea, ma iniqui

Predatori per via m'hanno assalito.

Alle mie braccia il caro figlio rendi,

E qual tributo m'imporrai ti solvo,

Pareggiasse anco de' miei campi aviti

L'intero pregio.

- O sciagurato Aroldo,

Di qual osi tributo or favellarmi,

Se finor tutto mi negasti? È tardi.

- Tardi, o sire, non è. Seguita, è vero,

Fu da bollente figlio mio l'insegna

De' prischi Saluzzesi e di Tommaso,

E la vittoria a tua prodezza arride.

Ma tu il fervido oprar del giovinetto

Dona pietosamente al supplicante

Suo genitor che in venti pugne il sangue

Versò pel nobil padre tuo, quand'esso

Con tanta gloria signorìa qui tenne.

- È tardi, o vecchio, e duolmene. In te accogli

Tutta la forza ond'è capace il core

D'un cavalier. Sovra quel legno pende

Un trafitto cui grazia altra non posso

Conceder più che di ritorlo ai corvi,

E consentirgli de' suoi cari il pianto.

Disse, e accennando che una guardia il morto

Dalla croce calasse e all'infelice

Lo rimettesse, cogli sproni un tocco

Dïede al cavallo e col suo stuol disparve.

Clara i sensi racquista, e oh di dolore

Qual novo orrendo palpito! Era dunque

Il fratel suo quel miserando ucciso!

Eccolo tolto dal funesto legno;

Ed ella il raffigura a cicatrici

Che sul petto ei portava. Oh come il vecchio

E l'angosciata giovin su quel corpo

S'abbandonan piangendo! Ella in lino

L'infranta testa pïamente avvolge,

E chiede aiuto ai vïandanti. A dolce

Carità si commove una famiglia

Di Saluzzesi agricoltori, e dato

Viene un carro con bovi, onde al lontano

Castello il morto cavalier si tragga.

 

 

II.

 

Or da quel giorno d'ineffabil lutto

Rivolgiamo la mente oltre a sei lune,

E la mesta mia cantica, i solinghi

Pianti dell'orbo vecchio e di sua figlia

Commiserando, svolga altra vicenda.

Era una sera: alle vetuste mura

Del baron s'appresenta un fuggitivo,

A cui ferite e febbril sete esausta

Miseramente avean la voce. Aroldo

Piena di vino gli mandò una coppa

Con questi detti: Al focolar t'accosta

Sin che apprestata sia la cena, e al sire

Perdona del castel s'ei di sue stanze

Non uscirà, dove cordoglio il tiene.

Clara portò que' detti, e il fuggitivo

Che al maestoso inceder cavaliero

Parea e mendìco a' finti panni, il volto

Pria si coverse, indi con pronti passi

Balzar tentò fuor della soglia, a guisa

Di mortal che, caduto in impensato

Orribile periglio, aneli scampo.

Ma nella mossa impetuosa a lui

Manca il fievole spirto, e piomba a terra.

Clara il soccorre, il mira, ed alla negra

Ricciuta barba e al crine ella il ravvisa.

Chi era? Chi!... Manfredo! il già possente

Desolator della sua patria! il ladro

Che alla corona del nepote osava

Stender la man sacrilega, e sul capo

Inverecondo imporsela, e i diritti

Calpestar più sanciti, e di Saluzzo

Dirsi benefattor, serva a stranieri

Brandi facendo la natìa contrada!

Fortuna alfin l'abbandonò: fuggiasco

Da compiuta sconfitta è l'empio sire,

E per sottrarsi agl'inseguenti ferri

Ei s'è imboscato in varii lochi, e ignote

Calcò deserte rupi. Indi pel sangue

Nella pugna perduto e per la rabbia

Gli s'era da brev'ora intorbidato

Sì fattamente il lume del pensiero,

Che mal sapea dov'ei movesse, e giunto

Era ai campi d'Aroldo altra credendo

Sponda toccar. Qui più dal dolce tempo

D'adolescenza riportate mai

Non avea l'orme, ed alberi e tugurii

Mutato avean l'aspetto della terra.

Sol quand'ei vide Clara, appien le soglie

Raffigurò d'Aroldo, e se bastata

A lui fosse la possa, ei rifuggìa.

Manfredo! e senza guardie! e semivivo,

Sotto il tetto dell'uom cui trucidato

Non in battaglia, ma in supplizi ha il figlio!

Clara il conosce, e mentre a lui gli spirti

I famigli richiamano, ella corre

Alle stanze del padre, e già già quasi

A lui così sclamava: - Esci, un prodigio

Ad ammirar del Dio delle vendette:

Sull'ossa di tuo figlio a spirar viene

Il suo assassin!

Ma in quell'istante gli occhi

Della donzella alzaronsi a parete,

Onde pendea dell'Uomo-Dio morente

Effigie veneranda, e a quella vista

L'irrompente parola in cor rattenne.

Religïoso fremito la invase

Dinanzi a quell'effigie.

- Oh mio Signore!

Quai voci arcane alla tua ancella parli?

Tu irreprensibil fosti e sì infelice!

E a quei che l'uccidean pur perdonavi!

Or chi sa? Forse il dolce mio fratello

Pe' falli suoi fuor dell'eterna reggia,

In carcer sotterraneo, o d'inquieti

Elementi per l'alte aure ludibrio

Sta ancor penando, e a liberarlo vane

Fervon le preci, e in loco d'esse un atto

Di virtù nostra è d'uopo! O fratel mio!

Forse quest'atto or chiedi. Ah, virtù somma

È il perdonar! Cert'è che in cielo entrando

Tu perdonar, tu e noi, tutti dobbiamo

Come a noi perdonato ha il Redentore!

Ma padre è Aroldo: esser maggior potrìa

Delle forze d'un padre il dare aïta

D'un caro figlio all'uccisor. La lancia

Ei no giammai non bagnerìa nel sangue

D'uom che toccò la mensa sua... Ma pure

Chi può segnar dove talor trascorra

Nella foga dell'ira un core offeso?

Chi mi consiglia? Ah tu; gran Dio, tu solo!

Disse, e prona curvossi, e lungamente

Con ambascia pregò. Temea d'orgoglio

Esser tentata; innanzi a Dio temea

Calunnïar la santa alma del padre.

Ma nella mente repentino un raggio

Di fidanza pienissima le splende,

E ratta sorge e dice: - Ah sì, fratello!

Questo è il momento in che del ciel la porta

A tue brame si schiude: io di tua gioia

Sento il reflesso, e quella gioia è Dio!

Un servo entrava: - Damigella, o carco

D'inaudite peccata, o fuor di senno

È lo stranier. Che far dobbiam? D'Iddio

Parla tra sè com'uom cui prema occulto

Di vendette terribili spavento,

E di qui vuol fuggir.

- Tosto bardata

Per lui sia mia cavalla.

Il servo parte

Maravigliato, ed obbedisce. Intanto

Antico armadio la fanciulla schiude,

Ed indi tratto un de' paterni manti,

Al leve suo tesor poscia s'affretta

D'auree monete, e in una borsa il pone.

Così ver l'agitato ospite mosse,

E que' doni offerendogli - D'Aroldo

Questa, gli disse, è la vendetta, o sire.

Fremea la generosa in lui mirando

L'uccisor di Ioffrido e il formidato

Di Saluzzo oppressor, ma pïamente

Frenò il ribrezzo, e dal balcon la corte

Del castello accennando, a lui soggiunse:

- Ecco a' tuoi cenni un corridor: se lena

Ti basti, fuggi, e t'accompagni il cielo!

Clara sparve, ciò detto. E l'infelice

Tiranno - Angiol! gridò. - Poi diè dal core

Uno scroscio di pianto. Ed allor forse

Pentimento verace a lui fu strazio,

Le proprie atroci colpe rammentando,

E rammentando il giovine Ioffrido,

E quel misero cieco che appoggiato

Ad un alber credeasi, e gli grondava

Sovra la testa, ahi, di suo figlio il sangue!

Frettoloso Manfredo i doni tolse;

L'inaudita pietà benedicendo,

D'Aroldo cinse su le spalle il manto,

E quindi a pochi tratti il vide Clara

Dalla fenestra, che, al cortil venuto,

Con sembiante commosso intorno intorno

Iva gli occhi volgendo, e verso il cielo

In atto di preghiera ergea le mani,

Poi le briglie toccava ed era in sella.

Fermato ivi un istante, ad alta voce

Mise queste parole: - Aroldo! Aroldo!

Tu sol Manfredo hai vinto. Io del perduto

Seggio e de' vituperi onde vo sazio,

Consolarmi potrò; non potrò mai

Consolarmi d'aver tua nobil alma

Col più truce rigore insanguinata.

Udì il vecchio baron quel forte grido,

E balzò dalla seggiola esclamando:

- Figlia! il nemico nostro! il maledetto

Uccisor di Ioffrido!

E sul rugoso

Pallido volto del canuto il foco

S'accese del furore. A' piedi suoi

Clara gettasi allora, e gli palesa

Ciò che d'oprar le ispirò Iddio.

- No, Iddio

Questo non t'ispirò! prorompe Aroldo;

Manfredo è un empio! ei di dominio sete

Portò infernal su queste invase terre,

Che al suo nepote, a lui sovrano, tolse!

Infame della patria e del suo prence

Manfredo è traditor. Per sollevarsi

Sulla sede non sua, trasse alleati

E Provenzali e Càlabri e venduti

Guelfi di tutta Italia allo sterminio

De' nostri feudi e delle nostre plebi,

E incenerì Saluzzo!... e il figlio mio,

Il figlio mio su scellerata croce

A' carnefici suoi diede bersaglio!

Lunga e tremenda di rammarco e d'ira

Fu l'eloquenza dell'antico. A lui

Clara abbracciava le ginocchia, e santi

Detti porgea con supplice dolcezza:

- Le iniquità punir sol puote Iddio;

Noi non possiam sul misero fuggiasco

Punirle coll'acciar: solo a punirle

Una guisa n'è data, ed è il perdono.

Càlmati, o genitor; pensa che o degno

Per penitenza diverrà Manfredo,

O, rimanendo iniquo, a lui carboni

Saranno inestinguibili sul core,

Giusta il dir dell'Apostolo, i rimorsi

E fra l'alme perverse il danno eterno.

A Dio il giudicio! a noi l'umil dolore,

E il benefico palpito e l'eccesso

Della pietà non sol sugl'innocenti,

Ma pur sui rei, perocchè tutti d'uopo

Del perdono di Dio morendo avremo!

- Oh mia figliuola! sclama alfine Aroldo,

Ti benedico; santamente oprasti!

L'alza, al petto la stringe, e lagrimando

Mercè le rende che alla prova il senno

D'esacerbato padre ella non mise.

Un dì alle torri del baron fu visto

Giungere di Manfredo un messaggero

Da lontana contrada, e apportatore

Venìa di ricchi doni. Eran tre lune

Che pace avean l'ossa d'Aroldo, e muto

Era il castello, ed in vicino chiostro

Cinta di sacre lane, i dolci salmi

L'orfana, per la cara alma del padre

E del fratel, tutte le notti ergea.


 

 

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License