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Silvio Pellico
Poesie inedite

IntraText CT - Lettura del testo

  • VOLUME SECONDO.
    • LA MORTE DI DANTE.
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LA MORTE DI DANTE.

 

Cantica.

 

Non ho mai capito in qual modo Dante, perch'egli fra i magnanimi suoi versi ne ha alcuni iratissimi di varii generi, sia potuto sembrare ai nemici della Chiesa Cattolica un loro corifeo; cioè un rabbioso filosofo, il quale o non credesse nulla, o professasse un cristianesimo diverso dal Romano. Tutto il suo poema a chi di buona fede lo legga, e non per impegno di sistema, attesta un pensatore, sì, ma sdegnoso di scismi e d'eresìe, e consonissimo a tutte le cattoliche dottrine. Giovani che sì giustamente ammirate quel sommo, studiatelo col vostro nativo candore, e scorgerete che non volle mai esservi maestro di furori e d'incredulità, ma bensì di virtù religiose e civili.

 

 

 

LA MORTE DI DANTE.

 

Lavamini, mundi estote!

(Is. I)

 

E perchè l'arpa mia - debol, ma vaga

Di ritrarre in devoti, alti racconti,

A conforto degli altri e di me stesso,

Gioie e dolori di supremi spirti -

Perchè in sue melodìe qualche felice

O mesta ora de' sommi itali vati,

Qualche virtù del cor, qualche sublime

Effondimento de' lor sacri ingegni

Non ridirebbe? Oh quante volte ad essi

M'è grato alzar gli ossequïosi sguardi

Come figlio a parenti, investigando

Lor nobile natura, e divisando

Quasi funerea su ciascun di loro

Scior tal pietosa cantica di laude,

Che, senza nè adular que' generosi,

Nè tacer pur di colpe ov'ebber colpe,

Sia gentile tributo alle lor tombe!

Non avrai tu, per tragich'ira primo,

Possentissimo Alfieri, onde reliquia7

Sì prezïosa a me largì Quirina,

Tu che maestro all'arte mia più cara

Sì fortemente in giovinezza amai,

Tu che ad Italia ed a' nativi nostri

Pedemontani lidi onor sei tanto,

Non avrai tu dalle mie labbra un carme?

L'avrai. - Nè per Parini anco fia scevra

Di parole d'amor l'alma di Silvio;

Nè per Monti e per chiari altri intelletti

Di non remoti dì. - Ma se più d'una

Cantica aspettan molte ombre di vati,

Più l'aspettan le antiche. - Oggi tu, Dante,

All'anima mi parli. I tuoi divini

Versi non seguo, nè dipingo i giorni

Del tuo esular; di te la morte io canto.

Splendeva all'Alighier l'ultima aurora,

E sulle coltri sue muto ed assorto.

Ne' pensieri santissimi ei giacea

Munito già del Dio che alle fedeli

Alme è quaggiù ineffabile alimento.

Umile fraticel presso gli stava,

Or con brevi parole or collo sguardo

Le divine speranze rammentando;

E presso al letto, e qua e là per l'ampia

Sala, in piedi o sedenti, erano il vecchio

Guido sir di Ravenna e i figli suoi,

Ed assai cavalieri. Impallidite

Presso alla porta si vedean le facce

De' giovincelli paggi e delle guardie.

Dopo i riti adorabili, in silenzio

Stette gran tempo l'Alighier, ma gli occhi:

Significavan prece e consolante

Vista di cose celestiali e amore.

Poi si riscosse, mirò intorno, e grato

Salutevole cenno ai circostanti

Volse, e coll'imperar della possente

Sua volontà rinvigorì lo spirto,

La voce, i guardi, e levò il capo, e disse:

- Sia benedetta la pietà di Guido

Ch'ospital posa al mio morir provvide!

Sia benedetto, o amici tutti, il dolce

Vostro compianto, e benedetto ognuno

Di que' che al tosco esule vate il tristo

Pellegrinaggio consolâr d'onore

E d'applausi magnanimi - e di pane!

Ma non però il mio benedir ti manchi,

Patria crudel che a me noverca fosti,

Ed io qual madre amava ed amo! Andate

Le mie voci a ridirle e il mio perdono,

E i miei consigli e il lagrimar di Dante

Sulle materne iniquità e sventure!

Qui pianse e tacque. Indi il febbril tumulto

De' generosi suoi dolori il senso

Addoppiò della vita entro il suo petto,

E la parola gli tornò sul labbro

Non tremula, non fiacca. Ognun si stava

Rispettoso ed attonito, ascoltando

Di quel gran cor gli oracoli supremi.

- Dite a Fiorenza, e in un con essa a quante

Son dell'amata Italia mia le spiagge,

Che s'io censor severo e fremebondo

Ne' miei carmi di foco ira esalai,

Men da rabbia dettati eran que' carmi

Che da desìo perenne e tormentoso

Di ritrarre e caduti e vacillanti

D'infra il sozzume lor di melma e sangue.

E se nell'ira mia sfolgorò vampa

D'orgoglio e d'odio, or ne' pensier di morte

La condanno e l'estinguo, e prego pace

A' miei nemici sì viventi ancora,

Sì nella notte dell'avel sepolti.

Tacque di novo, e sollalzato meglio

L'infermo fianco, assisesi, ed eresse

La fronte, e colla palma la percosse:,

E disse: - Io veggo l'avvenir!

Nell'ossa

Degli uditori un gel di reverenza

Rapido corse e di spavento.

- Io veggo

In quel lezzo di fango e di macelli

Volversi le repubbliche di questa

Agitata penisola, e gli scettri

De' Visconti e Scaligeri, e le inique

Insegne vostre, o guelfi e ghibellini,

E bianchi e neri, e quanti siete, o falsi

Promettitori di virtù e di gloria!

Giù que' brandi sacrileghi e que' nomi

Di maledizïone e di discordia!

E giù quelle speranze, ahi, da me pure

Nutrite un dì, nelle straniere spade!

Gloria non sorge da esecrande leghe,

E da trame e da perfidi pugnali

Innalzati col vanto inverecondo

Del patrio ben, nè da fraterne guerre.

Cessate i mutui di vittoria sogni

Per primeggiar sull'abborrita parte,

Chè vane son fuggevoli vittorie

Onde un nemico trae letizia e lucro,

E la patria dissanguasi e s'infama.

- Chi è quel grande che non par che curi

Nè la bassezza della propria stirpe,

Nè gli altrui ferri, nè i diritti altrui,

Nè il mobil genio delle stolte plebi,

E sale in Campidoglio, e de' Romani

S'intitola tribuno, e or par del santo

Seggio il forte campione, or l'irrisore?

Insano! Ei grida libertà e ritorno

D'Itala imperiale onnipotenza

A rïalzar per l'orbe ogni giustizia,

Ed, ingiusto ei medesmo, irrìta Iddio,

E le folgori scoppiano, e quell'alto

Simulacro d'eroe crolla, ed è polve!

- Chi son color che un idolo si fanno

Dell'Angioïna Gallica burbanza

Da Carlo in trono appo il Vesevo assisa,

E la dicon sublime esca a future

Italiche armonie di leggi e forza

E civiltà! Strappatevi la benda:

Straniero è il Gallo! sua virtude è oltr'Alpe,

Qui pianta è che traligna, e non soave

Olezzo, ma fetor manda e veleno!

Qui tutela è bugiarda e si converte,

In laido furto ed in più laido oltraggio!

Qui farmachi alle piaghe offre, e vi sparge

Aceto e sale, e ficcavi gli artigli,

E de' ruggiti degl'infermi ride!

Onoriamolo oltr'Alpe, o quando inerme

Visita le latine illustri terre,

Non quando s'arma ed amistà ne giura!

Lui quasi imbelli pargoli maestro

Non invochiam, non invochiamlo padre:

Adulti siam se ci crediamo adulti!

E ad esser tai, non fremiti, non risse,

Non sommosse vi vogliono, ma senno,

E fede ai patti, ed indulgenza e amore!

Tacque come spossato e intenerito

Un'altra volta l'Alighier. Poi lena

Ripigliando sclamò: - Quanto sei bella

Fiorenza mia! Quanto sei bella, o Italia,

In tutte le tue valli, ancorchè sparse

D'ossa infelici e di crudeli istorie!

E che monta che in genti altre sfavilli

D'eccelsi troni maestà maggiore,

Mentre per varie signorie te reggi?

Chi può sfrondar della tua gloria il serto?

Chi a te delle gentili arti l'impero

Involar mai? Chi scancellar dal core

D'ogn'uom che bevve al nascer suo quest'aure

La gioia d'esser Italo? la gioia

D'esser nepote dell'antica Roma

E figlio della nuova? Abbian fortune

Luminose altri popoli: in disdoro

Mai non cadrà la venerata terra

Che domò l'universo, e dove eretta

Dall'Apostolo Pier fu la immortale

Face che tutti a salvaméntochiama!

Ma bastan forse aviti pregi? Il grido

Non vi colpì de' miei robusti carmi?

E ch'altro, poetando io per lungh'anni,

Vi dissi, Itali, mai, fuorchè d'apporre

Nobiltà a nobiltà, virtù a virtude

Innanzi al mondo, e a voi medesmi, e a Dio?

Oh gioventù d'alte speranze, i gioghi

Del vizio esècra e non i santi gioghi!

Le gare tue sien di pietà le gare

E degli esimii studi, onde ammirato

Il vïator che d'oltremonte viene,

T'onori e dica: «Ben ne' figli brilla

De' prischi forti la mental potenza!»

Ahi! delle giovin'alme i novi errori

A che biasmate, o corrucciosi vecchi,

Maledicendo al secolo perverso?

Che opraste voi per migliorarlo, e prole

Ad Italia lasciar che alteramente

Fosse sdegnosa di licenza e scismi,

E santamente amasse ara, scïenza,

Cavalleresca fede e patrio onore?

Provvedete a' crescenti! egregia scola

Sien le famiglie a' nati; egregia scola

Patrizi e dotti alla ignorante plebe;

Egregia scola per città e convalli

La sapïente carità de' cherci!

Ah sì! primiero, o Sacerdoti, esempio

Siate tra voi di pace e bei costumi!

Non sia drappel ch'altro drappello imprechi!

Umiltà vi congiunga imi con sommi

Sotto l'imper benedicente e sacro

Dell'Apostol supremo! Ognun di voi

Decoro sia del tempio, e sparga incanto

D'innocenza e di grazia: allor null'uomo

Luce di verità cercherà altrove!

D'Alighier le profetiche rampogne

E il supplice sospir profondamente

Commovean gli ascoltanti. E più commossi

Fur quando l'egro venerando vate,

Dopo quella versata onda robusta

D'autorevoli detti, e quell'ardente

Sguardo che nuncio ancor parea di vita,

Più languid'occhi intorno volse, e sparve

Il foco onde suffuse eran le gote,

E i fianchi più nol ressero, e la sacra

Testa cercò dell'origlier l'appoggio,

E la palpante man tremula corse

Al crocefisso, e lo portò alle labbra.

Presso all'infermo palpitàr concordi

Gl'impauriti cuori, e mal frenate

Voci s'udìr di pianto. Il vecchio Guido

Mirò i piangenti ed accennò silenzio;

Ma involontaria dal suo ciglio eruppe

Sovra Dante una lagrima, e il poeta

Sull'ospite magnanimo la grata

Pupilla alzando, gli serrò la destra.

Un de' figli di Guido al suol prostrossi

Presso al letto, sclamando: - Eterno Iddio,

Prendi l'inutil vita mia! conserva

Quella del re degl'itali intelletti!

Tutti gli accenti suoi son luce e scampo!

Tutta la vita sua fu impareggiato

Rimbrotto ai vili e sprone ai generosi!

Un uom divino egli è!

- Giovine insano!

Disse con voce moribonda il vate:

Deh, sii miglior di me! Mia forza imìta,

Non l'ire mie superbe.

- O padre Dante,

Ripigliò quegli, se i miei dì non ponno

Invece de' tuoi dì farsi olocausto,

Consiglia, impera; dimmi: ov'è la insegna

Nel secol mio più santa? ov'è la insegna

Cui darà palma Iddio sovra gl'iniqui?

Ov'è la insegna destinata a cose

Sulla terra sublimi? Io vo' seguirla!

E il vate a lui: - Non chieder tanto: il ferro

E la mente consacra al natio prence,

Al natio lido, e lascia a Dio l'arcana

Delle sorti bilancia: ogni stendardo

Che non sia traditor guida a virtude.

Disse, e pose la man sovra la testa

Del fervido garzon. Questi aspettava,

Tutti aspettavan che parola ancora

Benedicendo da quel labbro uscisse:

Irrigidita era la man, gelata

Nelle fauci la lingua, estinto l'occhio...

L'alma di Dante era salita al Cielo!

 

FINE.




7 L'orologio d'Alfieri mandatomi in dono da Firenze nel 1833 dalla signora Quirina Magiotti.






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