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Silvio Pellico Poesie inedite IntraText CT - Lettura del testo |
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LE CHIESE.
Altaria tua! Domine virtutum. (Ps. 83, p. 4).
Oh di preghiera e verità e conforto E sublimi pensieri amate case, Case di Dio! sin da' primi anni a voi Con rispettosa tenerezza il guardo Io rivolger godea, come a ricovro Di prole addolorata entro riposta D'ottimo padre stanza, a' filïali Lamenti sempre ascoltator benigno.
Lunghe l'infanzia mia tenner vicende D'infermità e mestizia. A me d'intorno Giubilavano vispi e saltellanti, E di bellezza angelica festosi, I pargoletti di que' giorni, ed io, Nato robusto al par di lor, caduto In rio languor vedeami, ed in secreti Indicibili spasmi; e spesse volte Morte ponea sovra il mio crin l'artiglio, Ma per gioco ponealo, e mi sdegnava. Così che pur ne' dì quando men egro Io strascinava il corpicciuolo, e lieta La voce uscìa dalle mie smorte labbra, Tra i floridi compagni, ascosamente Spesso mie brevi gioie interrompea La pietà di mia fral, misera forza; Ed impeti frequenti allor d'angoscia Il petto mi premean, sicch'io fuggiva A nasconder mie lagrime solinghe; E quei che mi scopriano indi piangente Per ignota cagion, mi dicean pazzo. Salve, o gotici, begli archi del Tempio Che di Saluzzo è gloria! Archi, ove m'ebbi Alle mistiche fonti il nome caro D'un tra i vati gentili, onde graditi Sonaron carmi per le patrie valli. Palpiti d'esultanza erano i miei Quando me tenerello a quell'angusta Chiesa portava a' dì festivi il pio Braccio materno; e ricordanza vive In questo cor della speranza arcana Che molcea i mali miei, quando su quelle Antiche, venerande are il mio ciglio Supplicemente ricercava Iddio. E salve, o tempio di men nobil foggia, Ma parlante a me pur dolci memorie, In Pinerol, città seconda, ov'io Riposai le mie inferme ossa crescenti! Là nelle vespertine ombre, al chiarore Della lampada santa, io colla madre E col fratel pregava la pietosa Degli Angioli Regina e degli afflitti, Ed in secreto a lei mi cordogliava De' malefici influssi, onde a' miei nerbi Strazio era dato, ed al mio cor tristezza, Ed aïta io chiedeale, ovver la tomba. Ma l'infantil querela uscìa con sensi D'aumentata fiducia, e allevïarsi In me sentìa l'affanno, e sentia l'alma Di pensier fecondarmisi e d'amore. Nelle tue, Pinerolo, aure dilette L'adolescenza mia fu di soavi, Religïosi gaudii confortata; E indelebile è in me l'ora solenne, Quando, trepido il sen, mossi all'altare Tra drappelletto di fanciulli il grande Atto a compir, di confermar col proprio Conoscimento le promesse auguste, Che di virtù magnanima al battesmo Pronunciarono labbra altre per noi.
Oh nobil rito! oh santo olio! oh possente Grazia del Crisma! oh simboli che tanto A sublimi desiri alzan la mente!
Con pompa veneranda il Pastor santo Presentasi all'altare, e a lui corona Fan suoi pii Sacerdoti in aureo ammanto.
Celestiale armonia nel tempio suona Di cantici divoti, e di pietate Palpita il core a ogni gentil persona;
E più alle madri che nel vel celate Delle viscere lor sui cari frutti Tengono le pupille innamorate,
Scongiurando che a Dio s'elevin tutti.
«Re del ciel che noi madri volesti Di que' giovani spirti diletti, Nel dolore li abbiam benedetti Pria che i cigli schiudessero al dì; Nel dolore li abbiamo allattati, Custoditi li abbiam nel dolore: Ah, per essi t'offriamo, o Signore, Tutto ciò che nostr'alma patì!
Il tuo spirto divino discenda In que' teneri ingegni inesperti: Li fortifichi, li alzi, li accerti Della Croce per l'arduo cammin. Oggi intendano e intendan per sempre Che non nacquero a ignobile cura, Che son enti d'eccelsa natura, Che la palma celeste è lor fin!
Il tuo spirto divino addolcisca Que' germogli del sesso più forte: Non paventin perigli, nè morte, Ma li tempri alto senso d'amor! Il tuo spirto divino sostenga Que' germogli del sesso più amante: Sieno spose, o sien vergini sante, Ma in bell'opre virile abbian cor!
E delle accolte, lagrimose madri Col tacit'inno pe' figliuoli amati Il secreto consuona inno de' padri;
Sebbene i maschi petti ammaestrati Da esperïenza e fantasie più meste, Veggan su que' fanciulli or sì beati
Minacciose adunarsi, atre tempeste.
«Giovin'alme, or v'assecura Quella pace che gustate E all'Altissimo giurate, Immutabil fedeltà: Ma non conscii voi tocca l'aurora D'un'età di prestigi e di guerra, Che vi chiama, vi sprona, v'afferra, Vi strascina, a qual meta non sa!
Ah, noi pur dal Crisma santo Confermati esultavamo, E spogliar l'antico Adamo Era saldo in noi desir! Ma spuntato quel tempo tremendo Che i mortali a cimento conduce, Spesse volte falsissima luce In rei lacci ne fece languir.
Più gagliardi, più assistiti Da invisibili portenti Voi non domino i cimenti, Voi più traggano a virtù: Una stirpe formate di prodi Che agli esempi vigliacchi s'involi, Che la Chiesa gemente consoli, Ch'altre stirpi consacri a Gesù»!
Mentre de' genitori i voti accesi Sorgono per la prole benedetta, Stanno i fanciulli all'alta pompa intesi,
E ciascun d'essi palpitando aspetta Lo Spirto Santo e la percossa, donde L'alma a patir per nobil opre è eletta.
All'unzïone, al tocco, alle profonde Del Vescovo parole, il giovin core Con proposti magnanimi risponde.
Mai paventato non avea il Signore, Come il paventa in quest'istante, e mai Non avea per Lui tanto arso d'amore!
Nessun dica al fanciul: «Tu obblïerai Questo gran dì»: più non possibil crede Volgere a colpa affascinati i rai:
Trasmutato a quel rito in uom si vede; Sdegna le vanità, sdegna i piaceri; Più non vuol che Speranza e Amore e Fede,
E benefici, puri, alti pensieri, E studi gravi, e faticante vita Pe' divini del Golgota sentieri!
Ah! benchè poi dopo cotanto ardita Dolce fidanza, a tempo non lontano Trascorra ov'a lui d'uopo è nova aïta,
Al Crisma santo ei no, non mosse invano: Però che in lui ritorna con possanza Questa voce secreta: «Io son cristiano»!
E ripiglia la Croce, e al ciel s'avanza.
A me quella secreta, amabil voce Più nella giovinezza non diè posa, Sì che sovente alla gettata Croce Rivolsi la pupilla timorosa; E sebben mi paresse incarco atroce, La riportai con esultanza ascosa, Rammentando mia infanzia, quella Chiesa, E quel Crisma, e la possa indi in me scesa.
E qual fu lo splendor d'un altro giorno: Il giorno in cui di sè nutrimmi Iddio! Ah! non in tempio di gran pompa adorno Trarre allor mi fu dato al festin pio: Genitori e fratei piangeanmi intorno, E venne il Pan celeste al letto mio! E l'accolsi agognando inclita sorte Dopo la sovrastante ora di morte
Ma l'offerta ch'io pronto a Dio porgea, Non fu accettata, e lunghi dì ancor vissi! Oh! chi può dir con qual d'amore idea Morte sperando al Salvator m'unissi? Mille fïate poscia a me riedea La ricordanza di quel giorno, e dissi: «Deh, possa ancor con sì sublime amore, Come in quel dì, ricever io il Signore!»
Quindi appena sui piè mi ressi alquanto Dopo quel memorando atto divino, Mossi alla chiesa, e di dolcezza ho pianto, Ivi tornando al sovruman festino: E mi parea che con dolor più santo Io sopportassi l'egro mio destino, E che tutto il mio core arder dovesse In avvenir di quelle fiamme istesse.
L'ombra del tempio al giovinetto è invito A pensieri gentili ed elevati: Tacite preci, canto, augusto rito, Tutto ivi il trae da' ciechi impeti usati; Tutto l'inizia a pregiar l'uom, munito Di ragione e d'affetti alti ispirati; Santa filosofia quivi il matura Sì che in terra egli stampi orma secura.
Che se ignobile in terra orma sovente Stampa il mortal che pio fu giovanetto, Non è già perchè sia guida impotente Religïone a obbedïente petto, Ma perchè alla celeste Conducente Sveltosi l'uom, s'affida a novo affetto, E segue il proprio orgoglio e i vili esempi, E teme la beffarda ira degli empi.
Oh come lor beffarda ira scagliata Contro gli altari l'alma mia percosse! Ed, ahi! la prima voce scellerata, Che da innocente fede mi rimosse, Uscì da tal, che, dopo aver sacrata Sua vita al tempio, il divin giogo scosse! Quanto è alta luce pio, ver Sacerdote, Tant'è funesto mastro ogni Iscariote!
D'inferno una smania Tormenta quel tristo, Che indegno consacra La coppa di Cristo, Che insegna il Vangelo Con labbro infedel; Che invidia de' laici Le vesti e la chioma, Che irato sogghigna Sui cenni di Roma, Che nutre eresia Mal cinta da vel.
Ossesso quel petto Quïete non gode Se in alme innocenti Non getta sua frode, Se non avvelena Lor candida fè: Ei spera, involando Credenti al Signore, Estinguere il verme Che rodegli il core, E dirsi: «Per gli empi «Castigo non v'è».
Tal fu lo sciagurato, onde la prima Fïata io stupefatto e impaurito Intesi accenti di bestemmia astuti Contro a' misteri, dietro cui l'eterna Maestà del Signore all'uom traluce. Avess'io a quell'apostata strappata L'indegna larva! L'avess'io al cospetto De' giusti vilipeso! Io stoltamente Tacqui, e volsi nel cor le rie parole Dell'incarnato Sàtana, e sorrisi Al suo ingegnoso e perfido sorriso, E in forse stetti, fra i dettami austeri Da verità segnatimi, e i dettami Lieti e superbi del parlante serpe. Da quel funesto giorno io non potei, No, disamar le sante are paterne, Ma a quando a quando io le mirava, incerto Se venerar le dovess'io, siccome Ne' miei dì d'innocenza, o se più senno Fosse obblïarle o irriderle, e aver soli Idoli i miei voleri e il mio ardimento. Così varcai l'adolescenza, e gli anni Toccai di giovinezza, ebbro di studi E di speranza nelle forze innate Del mio altero intelletto. E pure i templi Secreto avean per me fascino sempre! E sovente io gettava i baldanzosi Libri, e fuggìa le argute, empie congreghe, Per raddurmi solingo e sconfortato Sotto i tuoi grandïosi archi vetusti, Lugdunense Basilica, ove i primi Apostoli di Gallia hanno sepolcro! Oh bella chiesa! Quante volte prono Colà pregando e meditando io piansi Le natìe abbandonate Itale sponde, E il focolar lontano, ove la madre Ed il padre e i fratelli erano assisi, E piansi in un mie tenebre, miei dubbi, Mie passïoni, ed il perduto Iddio! Perduto, no, per me non era! e il lume Di lui mi sfolgorava alcune volte Sì che sparìan le tenebre, e di novo Io mandava dal core inni di gioia. Ma tempi erano quei di non verace Filosofia, sulle rovine sorta Di molti altari, e sovra molto sangue; E la Gallica terra, infra sue pesti, Di sacerdoti rinnegati avanzo Chiudea velenosissimo; e i più feri, Più studïosi e scaltri eran nemici De' sacri templi, rïaperti allora, E dal Corso magnanimo scettrato Arditamente in onoranza posti. Un di que' Giudi inverecondi a' passi Miei s'attaccò: l'ornavan lusinghieri Eletti modi, e pronto ingegno, e il foco De' sottili motteggi scoppiettanti, E facile parola, e d'infiniti Libri conoscimento, e quell'audace Sentenzïar che sicuranza appare. Sommessa voce ripetea d'orecchio In orecchio: «Ei fu monaco»! E la macchia Sciagurata d'apostata sembrava Sedergli orrenda sulla calva fronte, E dir: «Nessun più sulla terra l'ami!» E nessun più l'amava, e nondimeno Ascondean tutti l'intimo ribrezzo, E cortesi accoglieanlo, e davan plauso Alla dolce arte della sua favella. Quella canizie al disonor devota Orror metteami e in un pietà. Più giorni L'esecrai, l'osservai, gli porsi ascolto Come a stupendo rettile, e gli chiusi I miei pensieri; indi scemò l'occulto Raccapriccio, e piegai più tollerante L'alma alle grazie di quel falso ingegno. Oh pe' giovani cuori alta sventura Lo scontrarsi in sagaci empi, che fama Di lunghi studi grandeggiar fa al guardo Dell'attonito volgo, e d'intelletti Che pur volgo non sono! Al rinnegato, Pur non amandol, mi parea di stima Ir debitor per l'inclite faville Del possente suo spirto, e palesava Ei di mia riverenza e d'amistade Gentil, singolar brama; e questa brama Era al mio stolto orgoglio esca gradita. Lunghe non fur tra noi le avvicendate Confidenze ed indagini, e m'invase Giusto corruccio, e da colui mi svelsi: Ma le illudenti sue dottrine, a guisa Di succhiante invisibile vampiro, Stavan su me, riedean cacciate, e furmi A tutti i giovanili anni tormento.
Più vivo in me si raccendea l'amore Delle case di Dio, quando rividi, Bella Italia, il tuo sole animatore, E m'accolsero i cari Insubri lidi, Dove gli avi mostrar quanto al Signore Fosser devoti e a grande intento fidi; Tal sacra ergendo maestosa mole, Che a lodarla il mortal non ha parole.
Troppo ancora in Milan l'anima mia Tra giochi e alteri studii vaneggiava, E glorïosi amici e fama ambìa, Ed ogni dì più folli ombre afferrava. Ma pur di salutar malinconia Frequente un'ora i gaudii miei turbava, E al tempio allora io rivolgeva il piede, E in me scendea consolatrice fede.
E l'amato mio Foscolo infelice, Sebben lui fede ancor non consolasse, Talor volea con umile cervice Mescersi all'alme per cordoglio lasse, Che la bella de' cieli Imperadrice Imploravan che a lor grazia impetrasse; E quando al tempio a sera ei mi seguiva, Indi commosso e pensieroso usciva.
Oh quante volte insiem quella scalea Ascendemmo del duomo inosservati! Quante volte in quegli archi ei mi traea, E là susurravam detti pacati Sul beneficio d'ogni eccelsa idea, Sui vantaggi dell'are all'uom recati, Sulla filosofia maravigliosa Che della Chiesa in ogni rito è ascosa!
Oh allorquando vi penso, io spero ognora Che, pria di morte almen, quell'alto ingegno Avrà veduta la söave aurora Del promesso agli umani eterno regno! Spero che quella forte anima ancora Nodrito avrà del ciel desìo sì degno, Che quel Dio che sol vuole essere amato Avrà i tardi sospiri anco accettato!
Con reverenza visitava io pure Altre in Milano vetustissim'are: Quella ov'a Sant'Ambrogio ama sue cure Il buon Lombardo con fiducia alzare, Ed il sacel, dove Agostin le impure Fiamme alfin volle in sacra onda smorzare, E colà volgev'io nella mesta alma Sete di verità, sete di calma.
Ed in talun di quegli alberghi santi Una donna io vedea ch'erami stella; E a lei movendo i guardi miei tremanti, S'umilïava mia ragion rubella: Mi parea ch'a me un angiolo davanti Stesse per me pregando, e allora in quella Amica del Signor ponendo io speme, «Ah sì, diceva, in ciel vivremo insieme!»
Ma de' templi alla mistica dolcezza Vinto non era appien l'orgoglio mio: Il passo indi io traea con leggerezza, E i gravi intenti rimettea in obblio: Rossor prendeami appo colui che sprezza Chi, pari al volgo, osa implorare Iddio: Io mi volgeva a Dio, ma come Piero, Interrogato, ahi! rinnegava il vero!
E poi non come Piero io mi pentiva Con dïuturno, generoso pianto; Incostante nodrìa fede mal viva, E a guisa d'infedele oprava intanto: Allor fu che la folgor mi colpiva, E ogni mortal mio giubilo andò franto, E in man mi vidi d'avversario forte, Me condannante a duri ceppi o morte.
Oh lunghi di catene e d'infiniti Strazi del core inenarrabili anni! Ed oh! com'anco in giorni sì abborriti Mia fantasia godea sciogliere i vanni, E fingersi ogni sera entro i graditi Templi, ed ivi esalar gli acerbi affanni! Poche amate persone e i patrii altari Erano allora i miei pensier più cari!
Oh quai mi parver secoli Que' primi anni di duolo, In che fra mura squallide Vissi cruciato e solo!
Nè mai con altri supplici Sorgea la prece mia, Ed il desìo del tempio La pace a me rapìa!
Mi si pingeano i fervidi Religïosi incanti, Le grazie che sfavillano D'in sugli altari santi:
E di Davidde i gemiti, E gli avvivanti lumi, E le armonie dell'organo, E i mistici profumi,
E l'ineffabil agape, Ove il Signore istesso Pasce e solleva ad inclite Speranze l'uomo oppresso.
Allor la vil perfidia Del mondo io ricordando, Dare ai profani gioliti Giurava eterno bando,
E con insonni pàlpebre, E con preghiera accesa Chiedea versar mie lagrime Ancora entro una chiesa.
Mi sovvenian le placide, Ombre de' monasteri, E le velate vergini, Ed i romiti austeri:
E tormentosa invidia Prendeami di que' petti Ch'appo gli altari effondere Doglia potean e affetti.
Ma in quella mia nel carcere Brama de' sacri ostelli, Söavi sensi teneri Pur si mescean novelli.
Rendeva al Cielo io grazie Che i genitori amati Piangere almen potessero Anzi all'altar prostrati.
Anzi all'altar che ai miseri Sol può istillar virtute, Che rïalzar può l'anime Da angoscia più abbattute!
Un giorno alfine, oh fortunato giorno! Nunzio ne venne che sariane schiuso Della comun preghiera ivi il soggiorno:
E tratto per brev'ora allor dal chiuso, Rividi il tabernacolo, ove alberga Colui che in ciel di gloria è circonfuso.
Tempio quello non è ch'ardito s'erga Sovra eccelse colonne, e in maraviglia, Quasi reggia celeste, i cuori immerga.
Poco più che a magione umìl somiglia, E pur ivi m'invase quel tremore Che per solenne ossequio all'uom s'appiglia;
E per quell'ara palpitai d'amore, Come mai palpitato io non avea, E in ver sentii ch'ivi sedea il Signore!
Brev'ora fu, ma pure indi io sorgea Trasmutato in altr'uom, portando in seno Il Salvator che i mesti accoglie e bea.
E tale in que' momenti era il baleno Della luce divina in me raggiante, Che il patir mi parèa di gioia pieno,
E leve il ferro mi parea alle piante.
Oh di Spielbergo semplice chiesuola, Ove non s'alzan preci altre giammai, Che del mortal che cingesivi la stola, E di viventi infra catene e guai, Ah, in te risplende pur Quei che consola! Quei, che del fiacco non respinge i lai! Quei, che l'amaro calice accettando, Com'uomo il rimovea raccapricciando!
Con qual desìo la settima festiva Aurora io nel mio carcere attendea! Per sei giorni in mestizia illanguidiva, O la mente pensosa egra fervea, E talor preda sì di larve giva, Che il lume di ragion perder temea: In quell'ore io talvolta Iddio cercava, E, inorridisco in dirlo! io nol trovava.
Ma il giorno del Signor rivedea alfine, E mettea lieto suon la pia campana, E a söavi pensier l'alme fea chine, E a ricordanze dell'età lontana: Potenze inespressibili, divine Scemar parean l'orror della mia tana, E a me, come a fanciul, batteva il petto Di quel festivo bronzo al suon diletto.
Poi tutte disparian mie cure atroci Quando il pietoso sgherro aprìa le porte, E de' compagni mi giungean le voci, E la imperante seguivam coorte; Gli avvinti si porgean cenni veloci Di costante amistà nell'aspra sorte; Ma non a tutti amici ivi era dato Incontrarsi, parlar, pregare allato.
Sempre, sempre novella, alta esultanza Il commosso m'invase animo, quando In quell'incolta ma pur sacra stanza Posi il piè, mie catene strascinando, E in simbolica vidi umil sembianza Suoi sfolgoranti rai Gesù ammantando Benedirci, e per noi con inesausto Amore offrirsi al Padre in olocausto.
Colà il Signor mi favellava al core, E la sua voce somigliava a quella D'amorevole, ansante genitore Che a sè un figliuolo sconsolato appella, E «Disgombra gli dite, ogni timore «Che mai mia tenerezza io da te svella! «Veggio che disamar tu me non sai, «E ciò che indi tu vuoi, tutto otterrai!»
Ei mi diceva inoltre: - «Io t'ho punito «Non già per rabbia onde avvampar non soglio, «Ma perchè il prego mio non era udito, «E sì correvi per le vie d'orgoglio, «Che obblïato me avresti, e lui seguìto «Che l'alme adesca all'eternal cordoglio: «Con forte piglio il correr tuo rattenni, «Ma t'amai, t'amo, e per salvarti io venni!»
Io mi gettava allora a' piedi suoi Con dolcezza ineffabile, e piangeva, E sclamava: «Signor, fa ciò che vuoi «Di questo figlio della debol Eva!» «Sordo vissi, pur troppo, a' cenni tuoi, «Ma tua incorante voce or mi solleva: «Nulla sperar dovrei, ma poichè m'ami, «Un don ti chieggo ancor - ch'io ti rïami!»
E poi prendea fiducia, e proseguìa A lui tutti schiudendo i miei desiri: Lo supplicava per la madre mia Che sparso avea per me tanti sospiri! Pel dolce padre calde preci offrìa! Per tutti quegli amati onde i martìri M'eran del martìr mio più dolorosi, E ch'io tanto di me sapea bramosi!
Del Moravo castello umil tempio, Quante grazie ti debbo soavi! Il mio spirto pöetico alzavi Dai terreni, opprimenti dolor. Io sentiva entro te que' dolori, Ma diversi, ma misti a contento: Io chiedea raddoppiato tormento, Purchè Dio m'addoppiasse l'amor.
Io il disprezzo acquistava de' ferri, Ma non più quel disprezzo superbo Che del vinto fa l'animo acerbo Contro quei che nel lutto il gettàr. Io sperava, io credea che i vincenti M'assegnasser destin sì tremendo, Non vil odio, ma sol rivolgendo Di giustizia rigor salutar.
Io dicea che se in pugno tenuto Uno scettro in que' giorni avess'io, Gli avversanti dell'animo mio Con isdegno atterrati avrei pur: E scernea che son fremiti ingiusti Que' dell'uom che da forti domato, Non ripensa ch'ei forza ha sfidato, Che d'un dritto essi i vindici fur.
Compiangea il fato mio, ma pensando Qual dover mosse i giudici miei: Ma pensando che in ciel li vedrei S'io perdon ritrovava al fallir. E di grazia per me sospiroso, Supplicava ogni grazia per essi, Presentendo i reciproci amplessi Là dov'ira non puossi nodrir.
Della chiesuola de' prigioni uscito, Io ritornava entro mia mesta cella Col sen da mille affetti intenerito, Con fantasia più generosa e bella: L'ineffabil poter del santo rito Avermi parea dato alma novella: Ed intero quel dì lieto sciogliea Di David gl'inni, ed inni altri tessea.
Oh facoltà di poëtar gioconda, Ma più negli anni orribili del lutto, Quando forza divina il core inonda E d'eccelsi pensier lo infiamma tutto! Quando nell'uom tal grazia sovrabbonda Che a benedir sue croci indi è condutto! Face di poesia! senza una chiesa, No, non saresti in me rimasta accesa!
E se tal possa amabil dell'ingegno In me si fosse per dolore estinta, Languito avrei d'ira e superbia pregno, O l'alma a vil furor sariasi spinta: Della vita un frenetico disdegno Spesso prendeami in tanti mali avvinta, Poi la luce de' sacri inni tornando, Io riponea l'empio disdegno in bando.
Il mortal che in mestizia s'inabissa, E fero soffre ineluttabil danno, Sempre in oggetti d'ira il guardo affissa; Ogni umano gli par vile o tiranno; L'altrui virtù al suo torbo occhio s'ecclissa; In tutti sogna i benefizi inganno; E fraterna pietà posta in obblio, Disama e niega e maledice Iddio.
Filosofar s'immagina il fremente Calunnïando il mondo e il Créatore; Ma chiudendo a' pensieri alti la mente Tutto mira a traverso empio livore, Bugiarda estima ogni men atra lente; Satana è il suo maestro e il suo autore; Armi date e coraggio a quell'ossesso, Ed eccol trucidare altri o sè stesso.
Vicino a quella infame insania giacqui Più d'una volta a' giorni incarcerati; Ed allor tetramente mi compiacqui Ricordando que' libri sciagurati, Che nell'audace secolo in cui nacqui Plausi a ferocia e suicidio han dati, E col velen de' rei volumi in petto, Volvea il fin dell'apostol maladetto.
Grazie, chiesuola, a' prigionieri amica! Da te emanava inenarrato incanto! Da te riedea la mia fiducia antica Nell'assistenza del tre volte Santo! In te il perdon non mi costò fatica! In te d'amore e di dolcezza ho pianto! In te ne' tristi dì ripigliai lena, E sino al termin sopportai mia pena!
Improvvisa comparve un'aurora Che distinguer dall'altre non seppi, E la sera ivan sciolti i miei ceppi! Ed uscii dall'orrendo castel! Del decennio l'angoscia mortale Un istante, un accento avea sgombra: Dalla fossa qual reduce un'ombra, Mi stupìan terra ed uomini e ciel.
Traversai valli e balze straniere, M'avvïai della patria a' bei lidi, L'Alpe ascesi, ed oh gioia! rividi La natíva penisola alfin. Al dolcissimo letto del padre Egro giunsi, ma giunsi felice: Lui rividi e la mia genitrice; Tra lor braccia mie pene avean fin!
Ahi! nuove, pene sempre cingon l'uomo, Bench'ei talvolta in impeto giulivo Tutte calamità creda aver domo!
Piansi più cuori amati onde me privo Gli strali avean d'inesorata morte, E più d'un ch'io lasciato avea captivo!
Allegrar mi volea della mia sorte, Ma spesso in cupo involontario duolo Mie deboli potenze ivano assorte.
Ciò ch'io patissi, Iddio conosce solo, La mente rivolgendo a tanti cari Del cui lungo martir non mi consolo!
Il mondo mi dicea! «Se ancora impari Ad ambir le mie feste e i miei sorrisi, Sollevati saran tuoi giorni amari».
Ma indarno sovra lui le ciglia affisi: Ei più non mi rendea que' dì lontani Ch'io con altre dolci alme avea divisi!
Gratitudin destavanmi gli umani Che generosi mi plaudeano intorno, Ma i plausi lor pur rïuscianmi vani.
In sì frequente di dolor ritorno, Il loco ove ogni dì forza racquisto È quel dove le sante are han soggiorno:
Ogni mattin là prono a' piè di Cristo Breve, benefic'ora io volger amo, Ed esco allor più dolcemente tristo,
E conformarmi al divin cenno io bramo.
«Entro i templi, pari al volgo, Di prostrarti non vergogni? Lascia, stolto, i vieti sogni: Sol ne' sensi è verità. Pari a noi, sii glorïosa Del tuo secolo facella: Al pensar de' forti appella La crescente umanità».
«Al pensare de' forti l'appello; Forti son que' che regge l'Eterno: Molti errori nel volgo discerno, Ma non quando umil viene all'altar; Ma non quando suoi falli ripensa; Ma non quando li lava col pianto; Ma non quando de' Santi nel Santo Alza i lumi, e lo vuol seguitar».
«D'un Iddio pur si favelli; Ma di templi, ma di riti, Ma di spiriti contriti Fastidito è il pensator. Basta a gloria delle genti Predicar virtù civile, Maledir ogni opra vile, Intimar fraterno amor».
«Ch'altro grida la voce dell'Ara, Che civili, fraterne virtuti? Fiacchi sono del senno gli aiuti, Se l'Eterno virtù non impon. D'uomo il senno ch'a Dio non s'eleva Con qual dritto imporrà sacrifici? Senza Dio l'uom ne' giorni infelici Ruba, insidia, trucida a ragion».
«Se adorar si vuole un Nume, Sieno semplici omai l'are; Vane pompe ad esecrare Ne consiglia l'Evangel: Volgi l'alma a culto novo; Il vetusto s'abbandoni: Non più incensi, effigie, suoni; Ma qui l'uom, là il Re del ciel».
«Sventurati! v'abbagliano l'ire; Gl'intelletti ad amore schiudete, E virtù e verità scorgerete Nelle pompe che innalzano il cor: Non son vane se non pel fremente Che lor sacra potenza dileggia, Che il suo rigido spirto vagheggia Non il bel, non Iddio, non l'amor!»
«Chi son quegl'iniqui Che parlan di Dio? Chi sei che linguaggio Usurpi d'uom pio? Dai ceppi in che fosti Sol frode provien. Da noi t'allontana Ch'a Dio, a Sacerdoti Vivemmo fedeli Dagli anni remoti, Mentr'empie covavi Dubbianze nel sen!»
«Felici voi che al lume eterno ingrati Non foste mai, siccome questo insano! Ma nulla tolgo a voi, se ardisco alzati Tener gli affetti al Salvator Sovrano. I templi non a soli intemerati S'apron, ma accolgon pure il pubblicano: Di voi, di me pietà prenda il Signore, Ed in noi colla fede istilli amore!»
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