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Silvio Pellico Poesie inedite IntraText CT - Lettura del testo |
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LE PROCESSIONI.
Vexilla Regis prodeunt. (Eccl. hymn.).
Dolce è l'aspetto De' templi santi, Dove tra faci Sfolgoreggianti, Dove tra incensi, Dove tra canti Di Dio grandeggia La maestà;
Dove al mortale Le sacre mura Tolgono il resto Della natura, Dove ogni oggetto Ch'ei raffigura Gli dice: «Adora, L'Eterno è là!»
Nondimeno allorquando dal tempio Uscir vedesi l'Onnipotente, Tra le mani d'un debil vivente, Pe' sentieri che tutti calchiam, Pare a noi che vieppiù ci sorrida, Che vieppiù ci si faccia fratello: Per pregarlo un impulso novello, Una nova speranza sentiam.
Egli è il Re che diffondersi brama, Che pacifico vien dalla reggia, Che fra i sudditi amati passeggia, Che lor volge parole d'amor: Egli è il padre che visita i figli, Che s'appressa a ciascun de' lor petti, Che lor mostra quant'ei si diletti Di cercarli, di starsi fra lor.
Oh nel moltiplicar tuoi benefici, Ricca d'industrie amabili e sublimi, Religïon che a' tuoi sinceri amici Con sì söavi grazie amore esprimi! Religïon, che pur ne' tuoi nemici A lor dispetto meraviglia imprimi! Religïon d'imperscrutati veri, Bella in tuoi grandi lampi e in tuoi misteri!
Splendono innumerati i santi modi Con che rammenti agli uomini il Signore, Con che il Signor medesmo offerir godi Alla vista de' popoli ed al core; A te non basta in mezzo a preci e lodi Sull'ara alzar la diva Ostia d'amore; Fuor de' delubri, tu la traggi, e in pie Feste l'elèvi per le dense vie.
Perchè iroso talun le venerande Processioni con ribrezzo guata? Perchè immagina ei tutta in miserande Cure avvolta la turba ivi adunata? In ogni loco, ottusa al Bello, al Grande Langue, è ver, più d'un'alma sciagurata, Ma gente è pur che il Grande, il Bello ancora Sente con forza, e, quando sente, adora. Alme sono, in cui ragione Ed amante fantasia Tal serbarono armonia Che abbellisce ogni pensier: Chi ragion vuol tutta gelo Senza slanci, senza affetto, Tarpa l'ali all'intelletto, Non s'innalza fino al ver.
Tutto Ciò che santo brilla, Che divelle dalla creta, Che solleva ad alta meta, Dobbiam credere ed amar: D'infelici sprezzatori Non confondaci lo scherno: Vile sforzo è dell'inferno ogni cosa dissacrar.
Quali volge a noi la Chiesa Rimembranze in tutti riti? Son materni, dolci inviti A speranza ed a fervor. Il Signor quando discende, Quando incede in mezzo a noi, Chiede amore a' figli suoi, Chiede e in un largisce amor.
Indelebil mi sei, giorno lontano Allor che in giovenili anni a me stanza Era söave lido oltramontano:
Cessava la sacrilega burbanza Dalla falsa republica ostentata Contro la dolce degli altar possanza;
E l'ardito mortal che, rovesciata La licenza volgar, lo scettro prese, Volle che laude fosse a Dio ridata.
Da lungo tempo augusta dalle chiese Pompa uscita non era d'alternanti Supplici turbe a fervid'inni intese,
Ricordavano solo alcuni santi Vecchi le amate feste, ove il Signore Passeggiava cogli uomini preganti.
Di repente riviver lo splendore Ecco di quelle feste a' Franchi lidi, Ad un cenno del Corso Imperadore.
E con gara magnifica allor vidi Il popolo esultar, che finalmente Fosser compressi di bestemmia i gridi: E la città del Rodano opulente Sfoggiò tappeti e drappi ed archi e troni Al quaggiù ridisceso Onnipotente.
Gioiva la caterva udendo i buoni Racconti de' vegliardi, ed esclamava: «Di novo esser del ciel vogliam campioni!»
Intanto ognun con dignità n'andava Qua e là per le strade brulicando, O a' pensili balconi susurrava,
Lo spettacol santissimo aspettando.
Del cannone il fragor nuncio prorompe, E da ogni parte ecco seguir silenzio; La procedente pompa in quell'istante Prese le mosse avea del tempio. E oh quale In tutta quella turba apparìa senso Misto di gaudio, di stupor, d'ossequio, Di terror sacro! E nel quadrivio tutti Protendeano la testa, impazïenti D'appagar le pupille in quel sublime Intervenir del Re dell'universo
Tra le infelici vie che de' mortali Cingon le case! Il cinguettìo s'andava A poco a poco intorno rïalzando, Sin che ad un capo della via rifulse La prima Croce, e la seguia drappello Di devoti cantanti. Allor di novo Regnò silenzio. A quella prima Croce Ed al suo stuolo, stuoli altri seguìro, Con altre Croci ed elevate insegne, E varii ammanti, onde scerneansi varie Affratellanze di civili uffici E di sacerdotali. Inteneriva Quell'ineffabil mistica armonia Degli aspetti, moltiplici, e dell'inno Da tante bocche e tanti cuor sonante, E del brillar dell'infinite faci, Il pio simboleggianti amor ridesto. Bello il mirar là sovra antiche gote Lagrime di piacer! Là, sovra gote Di dolci verginelle e di lor madri Lagrime d'agitate alme, ferventi Di carità reciproca e di gioia! E là l'ansante genitrice in alto Il suo bimbo elevar, sì ch'egli scorga La maestà del rito, ed insegnargli A riportar la tenera manina Sulla fronte e sul petto e sulle spalle, Balbettando la trina alma parola, Che de' cattolici è gloria e salute! Poi tragittate le abbondanti schiere Che annunciavan l'Altissimo, ecco un nembo Di timïàmi, e fra quel nembo pria Vago drappello d'angioli incensanti, E fiori per la sacra aura spargenti; Indi - oh spavento! oh amore! - indi Colui Che la terra creò, che creò i cieli, Che l'uom creò, che all'uom s'unì, e divisa Dell'uom l'ambascia, il consolò e redense! A cotal vista l'adorante folla Genuflessa cadeva, ed i singhiozzi Udii di molti che dicean: «Signore,» Pietà di me che te cotanto offesi, Ed ammenda desìo!» - Stava fra i mille Colà prostrato un giovane infelice, Ch'empio non era stato, e sempre in core D'amor favilla avea per Dio nodrita, Ma pur sovente dal demòn superbo Delle dubbiezze invaso avea lo spirto. E certo le dubbiezze eran flagello Da Dio permesso, perchè umìl non era Di quel giovin lo spirto, e si credea D'altissima natura, atto all'acquisto D'ogni saper cui non s'aderge il volgo; E lungh'ore ogni dì sedea solingo Fra libri ottimi e pessimi, e scrutava La verità - dimenticando spesso D'invocarla dal ciel. Ma in quel gran giorno Dell'adorabil pompa, in quel momento Che a mille a mille si prostràr gli astanti, Ed anch'egli prostrassi; il giovin, pieno Poco prima di tenebre, una luce Vide novella, e umilïò l'altero Intelletto con gioia, e senza orgoglio Fu per più giorni e immacolato e forte. E quando quell'audace irrequïeto Tornava a' suoi deliri, investigando Con indagin profana alti misteri, Scontento si sentiva e sen dolea; Ed in sè di quel giorno Lugdunense La ricordanza ridestava, in cui S'era con fede innanzi a Dio gettato; E tale avventurosa ricordanza Lui consolava, e gli rendea sovente, Od accresceagli della fede il raggio!
V'amo, o Processïoni! e v'amo tutte, Pubbliche preci dalla Chiesa alzate Ad inforzarci in perigliose lutte!
Io son quell'un, che da dubbiezze ingrate Afflitto in gioventù, pur vi cercai, Ed hovvi schiettamente indi onorate.
E non sol nelle feste, ove, i suoi rai Nascondendo, intervien l'Ostia divina, D'indicibil dolcezza io m'esaltai;
Ch'ovunque l'uom pregando pellegrina Affratellato al suo simìle e canta, Sento un poter che a Dio mi ravvicina.
Quant'amo l'adunanza umile e santa De' confidenti nell'amor di Quello Che di bei fiori le convalli ammanta!
Congregati alle miti aure d'un bello Mattin di maggio, in copia anzi la chiesa Ecco stan villanel con villanello. Ed ecco, il piede innoltran per la scesa Giovani donne, e nel tugurio resta L'avola antica alle faccende intesa.
Ed il sacro Pastor move la festa, Guidando i parrocchiani in mezzo ai prati, E in mezzo a' campi e in mezzo alla foresta.
Mirano con dolcezza i germogliati Frutti di quel terreno, e pel ricolto Litanïando invocano i Bëati;
E il passegger da lunge dando ascolto Alla rustica prece, si commove, Ed anch'egli a pregar sentesi volto,
E forse da mal opra indi si move.
Udran certo la prece devota I Bëati che sono appo Dio; L'udrà l'Angel del bosco e del rio, L'udrà l'Angel del monte e del pian; E le debili umane parole Commutando in concento divino, Le alzeran fino all'Unico-Trino, E felice la messe otterran.
Ma se pur le parole dell'uomo In concento divin commutate Al Signor non salissero grate, E vibrasse tremendo flagel, La preghiera che alzaro i credenti Infeconda giammai non si fora, Sempre i cor la preghiera migliora, Sempre l'uom riconcilia col ciel.
E dopo l'anno in cui sole o procella Di frutti la campagna han desertato, Riedono i contadini in la novella Stagion di maggio al supplicare usato. Di sue peccata ognun castigo appella L'arsura o i nembi del trist'anno andato; Ognun con penitenza più sincera Da Dio depreca tai sciagure, e spera.
Venga a que' giorni il vate ed il pittore Sulla bella collina d'Eridàno, E contempli quel quadro incantatore Cui son limite l'alpi da lontano. Di bellezza uno spirito e d'amore Diffuso è là sui monti, e là sul piano, E qui sui poggi, e sui due fiumi, donde Accarezzan Taurin le amabil onde.
Il vate ed il pittor vedrà un incanto; A sì bel quadro unirsi novo ancora: Escon le forosette in bianco ammanto Da diversi tuguri anzi all'aurora, Ed affrettano il passo al loco santo, Ove la campanetta suona l'or; Passar indi tra questo albero e quello Vedesi colla Croce il pio drappello.
Pingetemi raggiante dall'Empiro Degli Angiol la Regina che sorride: Dicesi che talor nel sacro giro Delle Rogazïoni alcun lei vide; Dicesi che commossa dal sospiro Di quell'anime semplici a lei fide, Col divin Figlio i campi benedisse, Nè gragnuola per molti anni li afflisse.
E belle son le supplici Pompe di penitenza in alto lutto, Quando da morbo orribile A gran terrore un popolo è condutto.
Per alcun tempo attonite Portano le cittadi il flagel rio, Indi, poichè ogni provvida Arte inutile appar, volgonsi a Dio.
Ed allor sorgon uomini Per eloquenza e santo cor sublimi, E con ardir magnanimo Rinfacciano lor colpe ai grandi e agl'imi.
Della rampogna ridere Vorrìa il perverso, e già il malor lo afferra: Jeri con vil tripudio Opprimea l'innocenza, oggi è sotterra.
Prendon la Croce gli umili, E più d'un già superbo anche la prende, E il penitente cantico Da migliaia di cuori al cielo ascende.
Religïon fortifica Gli animi che depressi avea paura, E quindi all'aer malefico Più robusta resiste anco natura.
Religïon le torbide Coscïenze deterge, indi le calma, E più efficaci i farmachi Opran nell'uom, qualor pacata è l'alma.
Accumular prodigii Potria certo il Signor, ma senza questi Pur con sue leggi solite Sana e protegge chi a ben far si desti.
Il penitente popolo Dopo le preci meno ismorto riede, E più costante esercita Sua carità, perchè doppiata ha fede.
Ed allor men sovente abbandonati Van gli egri da' famigli e da congiunti; E più d'un egro che di duol perito Fora per l'abbandon, s'altri l'aiuta, Forze ritrova, e più del morbo i dardi A lui non son mortiferi. In tal guisa Scema la strage a poco a poco, e cessa.
Ah! in questi miseri anni Europa invasa Dall'indica per l'aer corrente lue, Quanta per ogni loco alzar dee lode A te, Religion! Dove i più ardenti Soccorritori delle inferme turbe? Eran color che a beneficio spinti Venìan da fede! Eran le pie fanciulle Vincolate da voto a farsi ovunque Ancelle de' languenti! Eran dell'are Degni ministri! Erano illustri o scuri Concittadini che schernir solea La vigliacca empietà, perchè prostesi Sovente all'are onde traean virtude! E te fra tanti ardimentosi egregi, Ottogenario Vescovo, annovrava La nostra Cuneo dianzi, a' più tremendi Lunghi giorni di morte e di spavento! Te col drappello de' tuoi forti amici Cingeano indarno gli ululi codardi, E i turpi esempli di color che aïta Negavano a' giacenti! Impallidìa, Ma per alta pietà, non per paura La vostra fronte, ed al pallor gentile Succedea sulle guance il nobil foco Della vergogna per l'altrui fiacchezza.
E quando truce cova, e già scoppiando Va in queste Taurinensi aure la lue, Chi a' bisogni provvede e rischi affronta, E sprona, e gare generose incìta? Alme prodi son desse, a cui ben nota Religion senno e costanza infonde! E fra tali, io con giubilo un amico Vidi primo scagliarsi all'ardue cure Che salvaron la patria; e fra i gagliardi Che il seguitavan, godo altri a me cari Scorgere e benedire, e vieppiù amarli!
Ma il dolor pur rammentiamo D'altre turbe supplicanti: Stirpe misera d'Adamo, Numerar chi può tuoi pianti?
Più d'una volta Furon vedute Disperar quasi Della salute Assedïate Degne città.
L'oste che i muri Ivi circonda; Desolò questa E quella sponda; Scevra si vanta D'ogni pietà.
Pubbliche preci La Chiesa intima, Anzi agli altari Ciascun s'adìma, Indi procede Ignudo il piè. La mescolanza Del lor dolore, Del loro grido Al Salvatore, In tutti i petti Cresce la fè.
Dopo la pompa Il capitano Ripon sull'elsa L'ardita mano, Ed ispirato Snuda l'acciar, «Chi di voi sente «Iddio con noi? «- Tutti il sentiamo!» Sclaman gli eroi. Apron le porte, Vanno a pugnar.
Scossa, atterrita L'oste nemica, A ripulsarli Mal s'affatica; Già si scompiglia, Si dà a fuggir. Mai non è, vinto Chi vincer crede: Negl'irrompenti, Opra la fede: Salva è la patria Presso a perir!
Chi son que' feroci Che d'Asia partiti, Di tutto Occidente Percorrono i liti? Rapinan, devastano Campagne e città. Il lor capitano È demone od uomo? Da niuna possanza Giammai non fu domo. Flagello di Dio Nomar ei si fa.
Le Slaviche terre, Le terre Tedesche Sopportan sue stragi, Sue luride tresche; Le Gallie lo veggono Sovr'esse piombar. Ma il barbaro in mezzo Al sangue, alle prede Non gode, se Roma In polve non vede; Ed eccol dall'Alpi Furente calar.
Qual possa di braccio Avria soffermato Chi tanto al suo ferro Già, avea soggiogato? Qual gente dal Tevere Incontro gli vien? Un duce canuto, Magnanimo, forte, Non forte di schiere Datrici di morte; La sola sua fede Il guïda, il sostien.
Quel duce vestiva D'Apostolo il manto; Portava in sue mani Il Re sempre Santo; E folto seguialo Pregante drappel. Ed Attila, fero Flagello di Dio, Innanzi agl'inermi Tremò, impallidìo, E disse: «Non voglio «Pugnar contro il Ciel!»
Perchè retrocesse Con tanto spavento? Vid'ei nelle nubi Un vero portento, O tutto il prodigio Oproglisi in cor? Dicevano gli Unni Con rabida voce: «Per quale incantesmo «Ci vinse la Croce?» Ed Attila urlava: «Fuggiamo il Signor!»
Ah! dolce siami ricordarmi ancora Processïoni d'altri cuori amanti, Volte a far sì ch'uom santamente mora;
Allorquando a' fratelli doloranti Sovra il letto di morte vien portato Quel Dio che si commove a' nostri pianti.
Brama la Chiesa intorno a sè adunato Stuolo di figli allora, ed indulgenza Materna a chi v'accorra ha pronunciato.
Per le vie con sollecita frequenza Suona la nota squilla annunziatrice Di quel mister d'amore e sapienza.
E già la donnicciuola, osservatrice De' pii dettami, il suo lavor sospende, E prega per l'incognito infelice,
E lascia l'officina, e il passo tende Con altri umili artieri al loco santo, E il cereo appo l'altar ciascuno accende.
Ivi ad artieri e a donnicciuole accanto S'inginocchiano tai, che più cortese Hanno il contegno e le sembianze e il manto.
Il vario grado qui sparisce; intese Tutte quell'almo al Re del Ciel si stanno Che in man dell'uom dalla sua gloria scese.
Sostegno quattro fidi ecco si fanno Al padiglion, sotto cui l'Ostia viene Riparatrice dell'eterno danno
Escon del tempio, e in meste cantilene Salmeggiano il bel carme in che il Profeta Reo si chiamava, ed estollea sua spene.
All'ansio mover della schiera è meta Il tetto di fratello o di sorella, Cui forse morte è già da Dio decreta.
E talor quell'afflitta anima in bella Giace magion, che al volgo ivi stupito Rammemoranza d'alte gioie appella.
Allor più d'un fra gl'infimi è colpito Dal sentir ch'è pur cosa egra e mortale Uomo a sorti sì splendide nodrito.
E tra sè dice: «Ai fortunati oh quale «Stolta invidia portai, se tutti dee «Involver duolo ed esterminio eguale!»
E mentre le atterrite alme plebee Il vil livor depongono, e commosse Pregan per lui che l'ultim'aure bee,
Con dolcezza rammentan com'ei fosse Modesto in sua possanza, e come pure L'altrui miseria a pietà sempre il mosse.
Ovver tristi rammentan le pressure Ch'oprate lunghi giorni ha il vïolento, Insultando degl'imi alle sventure.
Lagrime versa quei di pentimento, E scorge di perdon raggio felice Entro al cor ricevendo il Sacramento:
E a sè d'intorno mira e benedice La carità di quella pia congrèga, Che i torti obblìa dell'alma peccatrice,
E pel suo scampo sempiterno prega.
Chi sì fredda laudar mente potrìa Sì del bello avversaria e del sublime, Che la potenza non ammiri ed ami Del gran mister? Mentre all'infermo è data Per patire o morir forza oltr'umana, Uno spirto di serii pensamenti E di mutua pietà gli astanti afferra; E ciascun dal palagio ov'oggi han regno Le dolorose infermità e la morte, Riede a sue ricche sale, o al suo tugurio, Più memore del cielo e più benigno. Nè spettacol men alto è quando tragge Il Pan celeste al miserando letto Dell'indigenza. Fra lo stuol seguace Dell'adorabil visita divina, Donna s'annovra illustre e generosa, Ben conscia già di luride scalee E di covili ov'han mendici albergo. Ed ella dietro al Salvatore ascende Alla povera stanza; e gentilmente Del suo splendido stato si vergogna, Ed aïtar tutti vorria gli afflitti. Egra giace una vedova, ed intorno Lagrimosi le stanno i figliuoletti Della fame dimentici, e accorati Sol perchè temon pe' materni giorni. Della Comunïon pur non vorrebbe Questa mirarli nel solenne istante; Pensar vorrebbe solo a Dio; ma gli occhi, Pensando a Dio, ricadon sovra i figli, E s'empiono di pianto. - «Oh figli miei! «All'infrenabil mio materno lutto «Deh non badate, e voi consoli Iddio! «A lui vi raccomando: ei padre ognora «Fu de' pupilli derelitti; piena «Fiducia abbiate in lui!» Così l'inferma Geme ed abbraccia ad uno ad uno i cari; Poi, vinta dall'angoscia, obblia di nuovo La voluta fiducia, e per delirio. Lamentosa prorompe: «Oh delle mie Viscere amati frutti! ov'è chi prenda Cura di voi, quand'io sarò sotterra? - Per mezzo mio li aiuterà il Signore!» Dice l'illustre donna ivi prostrata; E s'alza, ed alla vedova giacente Le braccia stende, e al sen la stringe; e questa Effonde il core in voci alte di gioia, Dicendo: «Io moro consolata! a' figli «Che in terra lascio, resterà una madre!» Io vidi, io stesso un giorno in mezzo a' campi Avvïarsi la visita d'Iddio A povera magion. Seguii la turba, Per l'infermo pregando, e quell'infermo Canuto essere intesi agricoltore Presso al centesim'anno. Ove giacea L'onorato vegliardo? In una stalla! A manca erano i buoi; spazio bastante Libero stava a destra, e un letticciuolo Ivi il padre capìa della famiglia. E in quella stalla il Creator del mondo Entra a soccorrer l'uomo! ad onorarlo! A nutrirlo di sè! tanto è il prodigio Dell'umiltà divina, o tanto agli occhi Del Crëator sublime cosa è l'uomo! Ah! ben desso è quel Dio che in una stalla Nascer degnava, e palesar che in pregio Gli era il mortal, non per potenza ed oro, Ma per l'umana sua nobil natura! Oh mirabile vista quel languente Che dal guancial la testa sollalzava, Bella per bianche chiome, e pel sorriso Della pace di Dio! mirabil vista L'atto in cui della debil creatura Cibo si fa il Signor! Chi non di dolce Stilla bagnate aver potea le ciglia, Ripetendo le preci? - E la pietosa, Ond'or parlai, che della vedov'egra L'oppresso spirto avea racconsolato, Non è del vate invenzion. Mi stava Quell'angelica donna appunto a fianco Or nella stalla del canuto. E quando Il Sacerdote retrocesse, allora Sorse l'egregia, e avvicinossi al letto, E favellò non so quai detti al vecchio, E nelle antiche palpebre io vedeva Gratitudin rifulgere e contento.
Ma non così pacifiche Sempre si volgon l'ore Al figlio della polvere, Quando patisce e muore.
Colui tre volte misero Che in suoi peccati è spento, Di cui la gente mormora: «Non ebbe il Sacramento!»
Assai meno, assai meno infelice Di chi muor senza luce d'ammenda È colui che da legge tremenda Vien dannato a precoce morir! Fur gravissimi forse i delitti Che macchiaron la vita del tristo; Ma piangendoli a' piedi di Cristo, Spera in ciel perdonato salir.
Ed anco a tal dannato a fera morte Religïon moltiplica sua cura: Ella sola al gran passo il rende forte, Che vinta da terror fora natura. Arrivato d'un tempio appo le porte Perchè il fermano? Oh ciel! che raffigura? Dall'altar mossa l'Ostia avvivatrice, Conforta ancor la vittima infelice.
E la vittima piange benedetta L'ultima volta dal Signore in terra, E con più vigoroso animo accetta La fune onde il carnefice la serra: Che è mai la morte al misero che aspetta Grazia colà, dove non è più guerra? Ch'è mai la morte all'uom quaggiù imprecato, Se Iddio gli dice in cor: «T'ho perdonato!»
Le varie pompe tutte Uopo non è che annovri il verso mio, Onde sovente addutte L'anime sono a rammentarsi Iddio, E onde abbelliti vanno Di vita il corso ed il postremo affanno.
Io tutte v'amo. quante Istitüì la provvidente Chiesa Processïoni sante! Sol per la mente a basse cose intesa, Il senno dell'altare Non benefizio, ma stoltezza appare.
Io v'amo, o pompe! ed amo Pur la più mesta; quella in cui giacente Nel fèretro seguiamo Il simil nostro, che di nobil ente Sulla terra mutossi In carne data a' vermi e in poveri ossi.
Oh commovente gara Il congregarsi ad onorar per via La sventurata bara! L'alzare ancora in fùnebre armonia Un voto pel fratello, Di cui le spoglie inghiottir dee l'avello.
Soleasi a' dì lontani, Che barbari a ragion forse son detti, Ed in cui pur gli umani Portavan reverenza a' begli affetti, Soleasi da' congiunti Pianto sacrar, solenne a' lor defunti!
Mutò la degna usanza, E quando un genitor serrato ha il ciglio, Più intorno non gli avanza Nè la consorte, nè un diletto figlio: Decenza impone a questi Sgombrar lochi per morte oggi funesti.
Ah! ben più venerando Era a' tempi de' barbari il compianto Delle famiglie, quando I figliuoli mescean lagrime e canto, Venendo primi dietro All'orribile e in un caro ferètro!
Fretta mi par non pia Il fuggire un amato, appena e' muore; Il non voler qual sia Prova a lui dar di pubblico dolore: Ma ben è ver, che ascoso Pur gronda il pianto - e spesso è più doglioso!
Se quei che vincolati Son per sangue col morto, alla gemente Pompa non son restati, Folta dietro la bara è pur la gente: Misto al terror, v'è un forte Amor nell'uom per l'alta idea di morte.
Chi vive puro, i grandi Proponimenti inforza a quella vista, E chi traea nefandi I giorni suoi, sogguarda e si contrista: D'ognuno a tal pensiero Scossa è la mente e richiamata al vero!
Ma poichè il più giulivo e il più dolente Fra quanti riti a noi la Chiesa espone, Ha in sè di grazia spirto onnipossente, Che al cor favella ed a virtù dispone, Star giammai non si vegga ivi il credente Col vil sorriso che a bestemmia è sprone: Ne' templi e fuor de' templi ogni atto pio Puote e debbe nostr'alme alzare a Dio.
V'amo, o pompe divine! e prego il Cielo Ch'io mora in patria ove sien usi santi, Ove alla tomba il mio corporeo velo Dato non sia da ignoti o da sprezzanti, Ma pochi amici con pietoso zelo Seguano la mia bara salmeggianti, E valga sì de' lor sospiri il merto, Che tosto siami il sommo regno aperto!
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