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Silvio Pellico
Poesie inedite

IntraText CT - Lettura del testo

  • VOLUME PRIMO.
    • L'ANIMA D'UNA FIGLIA.   (Parla qui Maria Valperga di Masino alla Contessa Eufrasia sua madre).   Quonium pius e misericors est Deus. (Eccli. 2)
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L'ANIMA D'UNA FIGLIA.

 

(Parla qui Maria Valperga di Masino alla Contessa Eufrasia sua madre).

 

Quonium pius e misericors est Deus.

(Eccli. 2)

 

Piangimi, o dolce Genitrice: a Dio

No, non è oltraggio il tuo materno pianto.

Della tua mente ogni pensier vegg'io,

Leggo le pene onde il tuo core è infranto,

Scerno fra cotai pene un gioìr pio,

Me figurando al Re de' Cieli accanto;

Scerno che tu il maggior de' sacrifici

Rinnovelli ogni giorno e benedici.

 

Ma affinchè le tue lagrime pietose

Grondino più soävi, o madre amata,

Io ti paleserò cagioni ascose,

Per cui sì tosto al ciel venni chiamata:

Non fu olocausto sol che Iddio t'impose

Per affinar l'anima tua elevata:

Di me compassïone alta lo prese,

E me sottrarre a sommi affanni intese.

 

La tempra ch'Egli al fianco tuo mi dava,

Era tutta d'affetto e d'innocenza:

Io caldamente i genitori amava,

Io gioconda sentìami in lor presenta:

Il caro guardo tuo mi confortava,

Qual guardo di superna intelligenza:

Io d'uopo ognor avea di starti unita,

Tu della vita mia eri la vita.

 

Di congiunti e d'amici altr'alme belle:

Dopo il padre e la madre eranmi care:

Tanto v'amava, e tanto amava io quelle,

Che più tesori io non sapea bramare.

Il pensier che sorride alle donzelle

Di rosei serti e nuzïale altare,

A me non sorridea, temendo ognora

Che a te vivrei meno vicina allora.

 

Dato m'avresti, è ver, degno consorte,

E quindi io molto esso pregiato avrei;

E d'esser madre avuto avrei la sorte,

E rapita m'avriano i figli miei;

Ma come inevitabili di morte

Son su questo o su quello i dardi rei,

Avrei veduto chi sa quali amati

Anzi a me infelicissima atterrati!

 

Ah! s'io perduto avessi alcun di loro,

E te precipuamente, o madre mia,

Sì acerbo fora stato il mio martoro,

Che capir mente d'uom non lo potria!

Commosso fu quell'Ottimo che adoro

Dai dolci sensi ch'egli in me nodrìa,

E perchè strazi io non avessi atroci,

Una invece mi diè di molte croci.

 

Quest'una era il lasciarvi, o miei diletti,

E più, madre, il lasciar te sì dogliosa:

Pesante croce fu! la ricevetti

Come don dell'Eterno ond'era io sposa:

Premendola al mio sen, piansi e gemetti,

Ma investimmi Ei di grazia generosa:

Pesante croce! ma in serrarla al core

Sentii che al cor serrava il mio Signore!

 

 

Sai tu perchè negli ultimi momenti

Io, nel parlar delle mie nozze eterne,

Volsi ancora su te sguardi ridenti,

Come talun che liete cose scerne?

Dalle lor salme l'anime innocenti

Divelte son con voluttadi interne:

Perde per esse il pungol suo più forte

La regnante sul mondo ira di morte.

 

Già pria di separarmi dalla spoglia

Dotata fui di vista celestiale:

Schiusa a me ravvisai l'eterea soglia,

Vestita mi sentii d'angelich'ale:

Tutto mi s'abbellì, fin la tua doglia,

Cui di rado la terra ebbe l'eguale:

Divina luce a me svelava il merto

Del materno dolore a Gesù offerto.

 

E vidi allora, o madre mia, che il mondo

De' rammarichi nostri non è degno:

Vidi che frode e malignar profondo

Han tal perpetuo fra' viventi regno,

Che spirto ivi non puote andar giocondo,

Benchè di virtù segua il santo segno:

Compiangendo chi resta in tanta guerra,

Io mi strappai contenta dalla terra.

 

E contenta vieppiù me ne strappai,

Perchè i tuoi sensi mi fur noti appieno:

Seppi che da tal madre io germogliai,

In cui fortezza mai non verrà meno:

Seppi che a dritto il caro padre amai,

E ch'ambo in ciel ristringerovvi al seno;

Seppi ch'io, precedendovi, ottenuto

Avrei per voi d'eccelse grazie ajuto.

 

Piangimi, o dolce genitrice: a Dio

No, non è oltraggio il tuo materno pianto;

Ma pensa che felice or qui son io,

Che degli sposi mi toccò il più santo;

Che siccome eri tu l'angiolo mio,

Angiolo or son che aleggio a te d'accanto,

E, qual tu provvedevi a' gaudii miei,

Così di me perenne cura or sei.

 

Duo carissimi spiriti celesti

Meco sempre su te stanno vegliando,

Cui pochi giorni tu per prole avesti,

Poi ratti a Dio volaron giubilando:

Nostra gara è scostare i dì funesti

Dal tuo materno aspetto venerando:

Una di nostre gioie è sul tuo viso

Certo mirar suggel di Paradiso.

 

Possederti vorremmo in ciel sin d'ora,

Ma carità ciò chieder non consente:

Tale offri degno esempio a chi dolora,

Tal sei provvida madre all'indigente;

Se tarda viene a te la suprem'ora,

Maggior gloria n'avrà l'Onnipotente,

E, al suo cenno, da noi tua fronte amata

Fia di più chiare stelle incoronata.

 

 

 




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