ROSILDE
CANTICA.
Dove il
trovatore componesse questa cantica non appare; soltanto vedesi ch'egli era
fuori di patria ed infelice nelle agitazioni in cui si trovavano a que' tempi
le repubbliche lombarde - presso le quali si ricava dai suoi poemi ch'egli
peregrinò diverse volte - è probabile che ivi s'attraesse lo sdegno d'alcuna di
esse o di Federigo.
ROSILDE.
Canzoni de' miei padri, antiche
istorie
Che a' felici d'infanzia anni imparai
Nel mio alpestre idioma (inculta lingua
Ma d'affetti guerrieri e di mestizia
Gentilmente temprata e dolce al core!)
Riedete nel mio spirto: e col soave
Risovvenir delle pietose note
Illudetemi sì che a' miei dolori
E al carcere ov'espio vani ardimenti
Togliermi io creda, e a me ritornin l'ore
Di mie gioje infantili - o di Saluzzo
Nell'amato che prima aere spirai -
O sui fragranti colli onde di fiori
E limpid'acque Pinerolo è lieta -
O per gli Eridanini ameni poggi,
Ove la sera il Torinese ascolta
Della lontana villanella il metro
Che avventure d'eroi dice e d'amore.
Oh poetica terra! oh popolata
D'alte cavalieresche rimembranze
Or gaje or triste, commoventi sempre!
Tu la prima onda porgi e le tue valli
Il primo letto al giovin re de' fiumi,
Ed ei ne' campi tuoi cresce educato
Come in orto di fiori! E di quell'orto
Mentre il voluttuoso aere m'inebbria
Veggio intorno - ove ch'io l'occhio sollevi -
Con fiero atto seder sovra le alture
Negre castella, e scemasi a tal vista,
Ma no, non cessa e sol natura cangia
La voluttà che mi ridea nel core
E più seria diventa e non men dolce;
E allora il pastoral flauto lasciando
Toccar desio la trobadoric'arpa.
Musa,o patria, a me sien le tue
memorie:
Rosilde io canto. -
Bella era ed amata
E al suo sposo e signor tenera amante:
E - come a fiore un fiorellin s'appoggia -
Nelle braccia materne un pargoletto
Della madre al sorriso sorridea.
Se torna dalla caccia il
cavaliere
Teodomiro, oh quanto gli par lunga
La salita al castel! non perchè il domi
Grave stanchezza, ma perchè alla sposa
Adorata il pensier vola ed al figlio:
Erge ei gli occhi alla torre - e v'apparìa
Lui desiando la venusta dama
Col leggiadro bambin, quasi dal cielo
Scesa fosse d'Iddio la Vergin Madre
A consolar d'un suo sguardo i mortali.
Ma improvviso precipita il dolore
Sui dì felici! Era un mattino, e in riva
Stava al Lemna natio Teodomiro
Inseguendo il cinghial. Vibra la freccia,
E tra questa e la belva, ahi, dal cavallo
Spinto è il giovin Denigi, e cade esangue!
Denigi il fratel d'arme, il fido amico
Dell'uccisore! (Vive ancor negli inni
Di tue vaghe fanciulle, o Pinerolo,
La beltà di Denigi e il suo coraggio.)
Oh rammarco! rammarco! e dacchè
tinto
Del sangue dell'amico è il cavaliero,
Sfuma ogni gioja sua. Sovra il castello,
Così beato in pria, siede e vi spande
I negri vanni suoi l'angiol del male;
E dello spirto scellerato il riso
Fama è che molti udir di notte tempo,
Quando consunto da languor si spense
Di Rosilde il figliuolo, e del materno
Pianto ulular le desolate sale.
Nè qui del mal le orribili minacce
Termine han pure. Ahi! di Rosilde istessa
Le giovanili guance scolorarsi
Vede lo sposo, e andarsi a poco a poco
Estinguendo in que' grandi occhi il bel raggio
Onde dianzi splendean con tanta vita:
E in segreto ei sospira, e mentre asconde
Con ridenti parole il suo timore,
Gli s'arriccian le chiome immaginando
Un'altra tomba - e in questa tomba chiusi,
Chiusi quegli adorati occhi per sempre!
Presso a morte ella venne. E
allor proruppe
Nel già incredulo cor del cavaliero
Religïon con tutta sua possanza:
E sceso a Pinerolo, al maggior tempio
Ricchi doni profonde, e con solenni
Riti espiar l'involontario cerca
Omicidio commesso, e (se mai peni)
Suffragar di Denigi il caro spirto,
Onde placato il ciel renda a Rosilde
Vita e gioja e di madre il dolce nome.
Ahi! nel sonno gli appar l'amico
spettro,
E non irato è il volto suo, ma mesto
Come d'un che pietoso asconder brami
Le proprie, e più d'altrui senta le pene,
Nè gli si doni il sollevarle; e porti
Una coppa amarissima, e non sia
Quella coppa un rimedio, e ber si debba!
- Deh, spiegati! dicea Teodomiro,
Spiegati! - Ed il fantasma una lontana
Strada additava, e in fondo a quella strada
Con eccelse basiliche sorgea
Una grande città: dir sembra - «Vanne,
Là Dio ti chiama!» e mentre ivi lo affretta
Con una man si copre il volto e piange.
Atterrito si desta il cavaliere:
L'oscuro sogno medita; ispirato
Alfin si crede. «Ah! non v'ha dubbio, è Roma
Quella grande città: col pio vïaggio
Te, Denigi, da tue fiamme, e da morte
La cara donna liberar degg'io» -
Dice, e ad un tempo a ciò s'astringe in voto.
Esultate, o colline! ad
abbellirvi
Torna col redivivo occhio Rosilde.
Di festive ghirlande olezzan tutte
Del castello le sale: echeggian l'arpe;
Stagion tornò di danze e di conviti:
L'angiol della sventura è dileguato.
Ma fido al voto suo prende il
bordone
Teodomiro e seco uno scudiero,
Nè che la sposa il segua egli consente;
Perocchè a lei vicino ardua non fora
Più penitenza alcuna, e potria il cielo
Gravemente punirnelo. - «Addio, sempre
Più sempre amata! i giorni tuoi mi serba
E l'amor tuo! qui fra due lune io riedo.»
Piangea Rosilde, e dalle care
braccia
Strapparsi non potea: nè di Rosilde
Tutte eran quelle lagrime che il volto
Inondavano al sire. - Oh dolorose
Partenze, sì, ma di dolcezza miste,
Quando due cuori che batteano insieme
Breve tempo si staccano, ma l'ora,
La lieta ora si dicon del ritorno!
Ahimè che di partenze altre son conscio
Più dolorose! allorchè a forza svelti
Da geloso tiranno eran due cori,
Nè dirsi addio potean, nè lor rimase
Speme che di ritorno ora risplenda!
Compie una luna dacchè orando e
cinta
D'umil cilicio, infra i digiuni e il pianto,
Quasi pia vedovella, entro il solingo
Castel vivea la innamorata donna,
Di niun pensier curando altro che un solo,
Quando dal suo veron gli occhi volgendo
Giù sul pendio, salir vede un canuto
Che pare (ed è) il fedele Ugger, che il sire
Accompagnato ha in romeaggio. - «Ahi lassa!
Solo ritorna? Oh palpiti! oh funesti
Presentimenti!» - E indietro si ritrae:
Si riaffaccia indi al veron: prestigio
Creder vorria ciò ch'ella vede; e il santo
Segno si fa della salute, e sclama,
«No, mio Gesù, no, non sia ver! non sia!»
Ma giunto è il vecchio, e a' pie
della signora
Singhiozzando si getta.
«O mio buon servo!
Tu mi rechi la morte, io già t'intendo:
Narra ov'ei cadde; ah,ch'io sovra la terra
Che lo ricopre, almen mi tragga e spiri!»
«O Donna, il fido Uggero a te
dinanzi
Non torneria, se del suo sir la tomba
Veduto avesse.»
«Che dicesti? Ei vive?
Ah! sciagurata più non sono.»
«Ascolta,
Signora mia: non lusingarti, grave,
È grave assai questa sciagura: è incerto
Del mio sire il destino. Appena giunti
A quel varco eravam dove la terra
Al Piacentin del Po bagnano l'onde,
Allorchè un passegger, forte spronando
IL cavallo ver noi: fuggite, grida,
Fuggite, e pelegrini! un'orrenda oste
Invaso ha la contrada: il fero Otlusco
Co' suoi prodi vaganti Ungari il fianco
Occupò di Piacenza, e impossessato
S'è d'un vicin castello, e in quel castello
Quanti più può, chiude prigioni, e immensi
Indi al riscatto vuol tesori o il sangue
Versa degli infelici. - Il cavaliere
Che così ne parlava era un prigione
Al cui riscatto i teneri parenti
Tutto venduto avean, servi e poderi
E rocche avite. E il giovin cavaliere
S'era con altri prodi a fratellanza
Religiosa consacrato, e il voto
Di que' frati guerrieri è i pellegrini
Difendere e gli oppressi e la innocenza;
Ma nè il coraggio lor, nè tutti i brandi
Dell'afflitta città respinger ponno
Il fero Otlusco: sue terribili armi
Son gli stessi prigioni onde la strage
Minaccia se assalirlo osin le genti. -
Mercè rendiamo al generoso, e in fretta
Ricalchiamo la via. Ma quando soli
Teodomiro ed io per una selva
Ci scostiam dal periglio, «aita! aita!»
Sentiam gridar da lunge: onor ci vieta
Negare aita a chi la implora: il ferro
Snuda Teodomiro: il seguo: a zuffa
Con gli Ungari veniamo. Avean rapita
Al suo sposo una dama. Ahi, che potero
Contro a sì forte stuol soli due brandi?
Mira sul petto mio le non ben salde
Ancor ferite, onde i nemici a terra
Mi lasciar, mentre vinto e prigioniero
Strascinavano il sire. Allorchè appena
Riavermi e sorreggermi sull'egro
Fianco potei, mossi ad Otlusco e chiesi
Del mio signor divider la sciagura:
Ma il barbaro esultò, mi risospinse,
E appeso ad una croce un uman tronco
Mostrandomi: - «Al tuo sir, disse, egual sorte
Fra pochi dì sovrasta, ove quant'oro
Val sì nobile vita io non riceva.»
«E ch'è mai l'or? grida Rosilde:
ah, tutto
Si sagrifichi tosto: assai di gemme
Erede io fui...»
«Deh, ciò bastasse, o donna!
Ma tal chiede riscatto il masnadiero,
Cui ben pavento non s'adegui alcuna
Di tue ricchezze. E il tempo incalza: i giorni
Numerati ha il crudel.»
- Quando la donna
L'enorme udì richiesta somma, il lume
D'ogni speranza a' guardi suoi s'estinse:
E come il Giusto1 in Idumea, percosso
Dall'eccesso de' mali, osò il suo grido
Elevar verso Dio, ragion chiedendo
Del non mertato aspro flagel - Rosilde
Così, nel colmo del suo affanno, obblia
Che col suo Creator, dritto la polve
Di contender non ha: ma il Creatore
Come allor per quel Giusto, or si commove
Per la infelice delirante, e a detti
Che nell'angoscia le sfuggian, perdona.
E che sai tu, cieco mortal, se
Iddio
Non conduce le sorti e non ti scaglia
Incontro alla sciagura, onde il tuo spirto
In più che umane lotte trionfando
Vieppiù a Lui s'assomigli? Al Sempiterno
Mancheran forse i modi e le delizie
Onde il lor guiderdone abbiano i forti?
Va', pia Rosilde, al tuo destin: che sono
Mai di Teodomiro e di te stessa
La pace e i giorni, ove allo scampo Iddio
D'una intera città voglia immolarli?
Scuotesi: amor le ridà forza, e
nulla
D'intentato consente. - E drappi d'oro
E splendidi monili e vasi e perle
Tutto che mobil sia d'alto valore
Sui giumenti si carca. In fretta e campi
Vendere e torri non poteansi: in pegno
Alla Badia li affida, e ne ritrae
Non picciolo tesoro.
«O mia signora,
Deh! non avventurarti,» invan ripete
Il prudente scudiero; «a me abbandona
Questo messaggio.»
«A tutto, il barbaro Unno
Resister può, non d'una moglie al pianto,»
Sclama la dolorosa.
«Eppur, deh! pensa
Che non è fede ne' malvagi. E s'egli
I tesori rapisse, e te prigione,
Donna, tenesse?»
«Ah! del mio sposo al fianco
Andar carca di ferri, anzi che lunge
Aver tesori e libertà, ben chieggio.»
Dice, e comanda, e vuole. E sulla via
Col fido Ugger, co' pochi servi, assisa
Eccola sulla mula. - Ahi! così un tempo
Da' Francesi inseguito io colla madre
Pargoletto fuggìa: si soffermava
Il viandante attonito e chiedea
Da qual parte calato era il nemico.
Oh cavalieri improvidi, ch'a
imbelli
Arti educate le fanciulle! Or d'uopo
Qui saria di valore! In mezzo all'armi
E all'arroganza od all'insidie forse
Troverassi Rosilde, e le vien meno
Segretamente al sol pensarvi il core.
Dal palagio paterno uscita mai
Pria non era del giorno in che da Susa
Mosse al castel dello sposato amante:
E qualche volta appena ivi la faccia
D'alcun ospite vide, e tutto serba
Il pudor dell'infanzia e la paura.
E quel debole petto or notte e giorno
Per le selve cavalca! e ad ogni fischio
Trema di fronda, e gli urli della lupa
Ode, e vede la sera da lontano
I fochi, ove, chi sa? forse cenando
Novi omicidii medita un ladrone! -
«Per me non tremerei: ma se rapiti
Mi fossero que' carchi, onde salvezza
A te verria, Teodomiro, allora?» -
Ed ei, Teodomir - dall'alte mura
Ove geme prigion, stassi alle doppie
Sbarre aggrappato della sua fenestra:
Ad ore ad ore immobilmente figge
Sovra l'ampio orizzon l'occhio bramoso:
Bramoso? e che mai spera? - Ah! nulla spera!
Estinto credo il fido Ugger: Rosilde
Saper di lui non può. - «Questo vil cibo,
Che invan mi si largisce, alfin dispendio
Parrà soverchio, e m'alzeran la croce;
Venga, venga quel dì!» - Tal è il febbrile
Suo frequente desio. Fero contrasto,
Bramar come riposo unico morte,
E inorridir pensando al disperato
Lamento di chi t'ama, allorchè il grido
Udrà del tuo martirio! e nuovamente,
Quasi l'orribil vita che tu vivi
Bramar di proseguire, onde non giunga
Alle tue sale mai quel desolante
Indubitabil grido Ei più non vive! -
Da quelle sbarre guarda, e nulla spera
Teodomir: ma i dì passan talvolta,
Ed umana figura egli non vede,
Perocchè a tergo della torre il campo
Giace degli Unni, e a questa parte è un vasto
Tratto deserto di palude e arena
Che ad un bosco confina, e solo a manca
Veggonsi dietro agli olmi i campanili
Della città, e se il vento agita i rami
Si scoprono gli spaldi... Agita, o vento,
Agita quelle fronde! e il prigioniero
Veggia talor sovra gli spaldi il passo
Di vivente persona! È un indistinto
Tormentoso bisogno al solitario
Il veder l'uomo - Almen da lunge! un santo
Misterioso amor lega i mortali,
Se distanza li scevra: ah! come a noja
Puon da presso venirsi e farsi guerra?
Anco i nemici quasi ama, se ascolta
Lor selvaggia canzon Teodomiro,
Che pur l'Ungaro canto è umana voce.
E se nel bosco alcuna volta udia
La percossa lontana della scure,
Pur frenava il respiro, e da que' colpi
Alcun piacer traea, perocchè all'occhio
Della mente pingeasi il buon villano
Che coll'ardua fatica alla diletta
Moglie porgeva e a' dolci figli il pane.
Ahimè, ben d'uopo è ch'uom giaccia all'estremo
D'ogni miseria onde gli sien ricchezza
Così povere gioje! - E se nel bosco
Tace la scure - e taccion gli Unni - e tace
Negli olmi il vento - e dalle torri il caro
A' meditanti suon della campana -
Chi allor molce, o prigion, tue tetre noje?
Oh allor - quel ciglio ch'uom giammai non vide
Nel lutto inumidirsi, in mesta guisa
Abbassandosi a terra, a larghe stille
Versa il dolore!
«Oh mia Rosilde! io sono
L'autor di tua sciagura! Io da celeste
Credea ispirazione essere al pio
Viaggio mosso, e m'illudea il consiglio
Dello spirto a cui gioco è l'uman pianto!»
«A cavallo! a cavallo! ecco una
preda!»
Così sclama, e già sprona, e già seguito
Da cento lance è Otlusco. Oh, qual fu l'alma
Della timida donna al furibondo
Proromper d'una squadra! oh spaventose
Urla che assordan l'aere, e men saccheggio
Sembran nunciar che rapido macello!
Discende dalla mula. Il cor le
manca,
Ma invoca il suo buon angiolo e confida
Nel suo soccorso, e pallida e smarrita -
Pur risoluta - avanzasi all'incontro
De' masnadieri, e con la mano accenna
Che raffrenino il corso ed ascoltarla
Vogliano per pietà. - V'è nell'aspetto
Dell'inerme e del debole un arcano
Che ispira reverenza anco ai feroci:
E se il debole opprimono, è un comando
Che natura non fece, è un altro moto
Che senza sforzo non si compie, e il compie
Pensata voglia di trionfo o lucro.
Commovente spettacolo! Un
istante,
E dalle scalpitanti ugne pestata
Esser potea la misera - un istante,
E l'avventata squadra immobil sta:
Cosi Otlusco imperò.
Smonta, s'appressa
All'atterrita dama: e sopra il viso
Dell'assassin colla insultante gioja
Della propria potenza e colle dure
Tracce di crudeltà, v'è come un fosco
Lume che quelle tracce e quella gioja
Addolcisce un momento, e sembra quasi
Raggio di cortesia. L'opra era forse
Di tua beltà, o Rosilde? o forse innanzi
Ch'atti inumani il trasformasser, grande
Fu dell'eroe lo spirito, e quel raggio
Di cortesia reliquia è di quel tempo?
Ma in alme dal delitto degradato
A' moti generosi un pentimento
Di sentirli succede, e - unica a loro
Nota virtù - della virtù il dispregio.
«Signor, la sposa io son d'un
prigioniero
Di cui t'offro il riscatto. Ove regina
Nata foss'io, per quel riscatto un regno
Dato t'avrei: ma ciò ch'io m'ebbi or pongo
Tutto a' tuoi piedi, e supplice scongiuro
Che il mio Teodomir tu mi ridoni.
«Donna, ravviso il tuo scudier.
Recato
T'avrà il pregio in che tengo il signor tuo:
Nè mai per men del valor suo di tanto
Peregrino giojel fia che mi spogli.»
«Deh! non macchiar tue forti
gesta, o sire,
Schernendo gl'infelici: ecco non vile
Tesoro, e tu il gradisci: e fa' che priva
Di quanto io possedea, tranne il consorte,
Di mia miseria non curante, io possa
Ogni dì benedirti.»
«Olà mi segua
Quel convoglio al castel.»
Trema e rimonta
Rosilde la sua mula, e a fianco a Otlusco
Dinanzi agli altri avviasi, e da lontano
Guarda con desiderio e con affanno
Quelle mura ove chiuso è il suo diletto.
Ma l'avaro ladron vede l'amore
E la bellezza della dama, e volge
Nell'astuto pensier nova perfidia.
Arrivano al castel: spiegansi i
doni,
E Otlusco a sè venir fa il prigioniero.
Oh emozion de' due teneri sposi
Nel rivedersi! Udì Teodomiro
Ciò che a salvarlo fea Rosilde, e gioja,
Stupore e gratitudine è in lui tanta
Che parole non trova. - Il sospettoso
Unno quel muto giubilar mirando,
«No» sclama «non è ver, queste non sono
Vostre sole dovizie; in voi non fora
Sì poco duol nel perderle: al riscatto
Ben puon di te, o guerriero, esser bastanti,
Ma pari a questi quattro volte un dono
Vo' per la donna che prigion ritengo.»
Piansero, supplicàr. Barbaramente
Sono divisi, e dal castello a forza
Dagli Ungari cacciato è il cavaliero.
Che diverrà la misera? E ove mai
Teodomir ritroverà tant'oro
Qual dal perfido vuolsi? Il pio scudiere
Gli rammenta i congiunti. «Ah, i miei congiunti
Possenti son, ma antiche guerre e invidia
A me feali inimici, e non che ajuto,
Scherno n'attendo nella rea fortuna!
Vendere il mio retaggio? E lenta è l'opra;
Nè molto indi trarrei, poichè sì pingue
Già ne diè somma chi toglieali in pegno.»
Mentre varii nel cor volge
pensieri,
E un furibondo più dell'altro, e tutti
Fausti a vendetta sì, inefficaci
A liberar la cara sposa - e mentre
Tenta indarno in agguato al masnadiero
Toglier la vita - e mentre indarno ai prodi
Frati guerrieri e all'armi piacentine
Recasi e prega e stimola e, a gran rischio
Di cagionar d'ogni prigion la strage,
Pur li spinge a battaglia, e dieci volte
(Con finti attacchi) in lontananza spera
Trarre l'oste malvagia e della rocca
Rapidamente impadronirsi, e sempre
La vigile degli Unni arte il delude -
A investir la città pensa in segreto
Con audacia incredibile il ladrone.
Oh scellerata notte! Un tradimento
Forse ad Otlusco aprì le porte: il ferro
E il foco cinque giorni orribilmente
Scorre per ogni via, per ogni chiesa,
Per ogni ostello, e disperato sembra
Del popol vinto il più risorger mai.
Nè per l'amor sol della preda
esulta
Di sue vittorie il barbaro: egli esulta
Perocchè quanto più temuto e forte,
Tanto più grande apparir crede al guardo
Dell'altera Rosilde. Il ferreo core,
Non si sa come, al pianto di Rosilde
S'era commosso, e in guisa ch'ei sul punto
Fu alcune volte d'asciugar quel ciglio,
Libera rimandandola al marito:
E se eseguia il magnanimo pensiero
Non avrebbe sol lei, ma seco tutti
I suoi tesori rimandati. Un giorno
Alla stanza ei movea della dolente
Col nobile proposto, ahi! ma rivide
Quelle angeliche forme, intese il suono
Di quella voce, e gli morì sul labbro
La pensata parola, e generoso
Esser più non potè. Parlò d'amore,
E, ciò che mai sofferto ei non avea,
I dispregi sofferse, e quei dispregi
Eran pugnali all'alma del superbo,
Eppur chi li avventava era a lui caro.
Nè degli altri prigion pari alla
sorte
Di Rosilde è la sorte. A lei l'uscita
Sol tolta è del castel, ma le si dona
E visitar gli altri infelici e alquanto
Alleviar lor pene e dalla croce
Redimer chi dannato era e taluni
Render senza riscatto a lor famiglie.
Con benefico intento e varia speme
Va serbando la vita, e all'esecrato
Ladron si finge meno irata, e volta
Tutta è a cercarsi occasïon di fuga.
Ma maggior di lor possa è il
breve sforzo
Di gentilezza e di pudor nei vili;
Parer grandi vorriano e oprar da grandi
Incominciato appena avean - nel basso
Sentiero ecco ricalcali natura,
O abitudin d'infamia, o delirante
De' sensi ebbrezza, o il giubilo del male.
Prudenza e preghi e dignità e
disdegno
Più a Rosilde non val. Fra le volgari
Delle coppe esultanze, il masnadiero
Motti d'amor - ma temerarii - vibra,
Ed orgogliosi (ah, il tuo bel nome, Amore,
Non merta il foco de' profani!)
«O stolta,
A che ostinarti contra il fato? E credi
Che, dacchè l'ha perduta, in vedovanza
Perenne stiasi il tuo primier compagno?
Ah, ch'ei ben già di tua mancanza in braccio
D'amante altra consolasi! A cercarti
Forse riedea? Ti vendica: le nozze
D'Otlusco accetta. Splendida ben altra
Che non Teodomir t'offro ventura:
Invitte squadre io guido, un regno innalzo
Cui le più ardite signorie curvarsi
Dovran d'Italia: te possanza e pompa
E adoramenti faran lieta, e madre
Sarai di regi.» (E in così dir con guardo
inverecondo alla pudica un braccio
Osa afferrar.)
«Deh, signor mio! Te irrito
Se il passato rammento e i dì felici
Che da te lunge io trassi: a sgombrar l'ire
Dal ciglio tuo, quindi in silenzio io pongo
Il prisco ond'arsi immenso amor: ti basti
Questo silenzio. E se ostinata speme
Nutrir pur vuoi ch'amor novel me accenda,
Fa' che d'atti tirannici e scortesi
Io mai capace non ti scorga, e al tempo
Lascia il mutarsi del cor mio.»
Tra umile
E maestosa così parla: e tenta
Allontanar pur quel terribil punto
Cui già da lungo con preghiere e pianto
S'è apparecchiata. - Mesi e mesi invano
Sperò in Teodomir: più non ritorna.
Nelle pugne sperò, ma invan: la palma
Sempre è dell'Unno. Invan sperò d'aprirsi
Qualche strada alla fuga: omai non resta
Scampo ad infamia, altro che un sol - la morte.
A timid'alma arduo dover, la
morte. -
Ma non feroci tutte fur le donne
Di cui l'alto morir narran le istorie.
A talune, o pittor, forse tra quelle
E maschi tratti e gigantesca possa
E spirito guerrier dar non dovevi:
E mite cor portavano, e formate
Eran solo ad amore, e d'una spada
Inorridiano al lampo, eppure (oh grande,
Oh ben più grande era virtù!) a dispetto
Della dolce indol femminile, il seno,
Anzi ch'a onore o amor farlo spergiuro,
Colla tremante man si laceravano! -
Ahi giunta è l'ora per Rosilde!
Un varco
Era all'audacia del fellon, quel varco
Or più non è. Nè avvidesi ei che l'armi
Appese alla parete ella adocchiasse:
La parete adocchiava e già scagliata
Col volo d'un baleno erasi a un ferro
La generosa... allor che risonanti
Di spaventose grida ode le sale.
Due i momenti non furo: assaliti ode
Rosilde gli Unni, e un rapido pensiero
Non mai previsto or le risplende, e il ferro
Che in sè volger dovea, vibra al tiranno.
Cade - e su lei rovesciasi - e
quel ferro
Dal seno Otlusco a sè strappando il pianta
Ed il ripianta dieci volte e in viso
E nel fianco alla misera, e fra gli urli
E i colpi e il duolo e le bestemmie ei spira.
Tal nel castel la spaventevol
scena
Presentavasi agli Ungari, allorquando
Prorompea l'oste. Impugnano le lance,
A far fronte s'accingon, ma l'orrenda
Morte del condottiero e la sorpresa
Sì gli atterrìa che immemori son fatti
Dell'antica lor possa e a vergognosa
Fuga si dan per la campagna. - I prodi
Esuli Piacentini al forte, fatto
Duce Teodomiro, eransi spinti
Perir giurando o vincere: e mai fermo
Da moltitudin ciò non fu che tutti,
Per quanto lunghi sien feri gli inciampi,
Visti a crollar sotto ai suoi piè non li abbia.
Ma come or sì poco ardua è la
vittoria?
Donde il terror de' barbari? Nè Otlusco
Fu veduto pugnar.
Parla un morente
Ungaro e accenna del suo sir la sorte:
«Femminea man lo trucidò!» Ai vincenti
Raddoppiasi la gioja. - Ov'è la santa,
La salvatrice della patria? - Schiuse
Son le carceri: mischiasi col grido
De' redentori il grido di cinquanta
Liberati prigioni.
«E tu, Rosilde,
Che non accorri? Dove sei? Rosilde!
Diletta sposa!»
Ardea fosca una lampa
Nella gran sala. Spaventato n'esce
Il vecchio Ugger: nel suo signor s'incontra;
Ritrarnel vuol. Ma già Teodomiro,
Tra rovesciate mense e armi, scoverto
Ha l'immane cadavere d'Otlusco:
Con gioja gli s'appressa - oh vista! un altro
Cadavere ei copria! Rosilde -
E intanto
Che il più infelice de' mortali esclama
Miserandi lamenti (oh mescolanza
Che drizzar fa le chiome!) urla di gaudio
Metteano, ignari i suoi compagni ancora,
E con festa il chiamavano: «A te dessi
Questa lieta vittoria! A' fuggitivi
Riposo non si dia! Guidane, o prode!
La città si riacquisti!» -
A poco a poco
Cessa il giulivo dissonante strepito:
Il luttuoso caso odono: muti
Reverenti s'affollano alla sala:
Tutti lor gioja oblian: l'egregia donna
Mirano - e oh che pietà! quel cavaliere
Dianzi sì dignitoso, or nella polve
E nel sangue si rotola ululando,
Nè più gli cal che forse altri il dispregi.
«Ite, o felici: agevol cosa è
omai
Il ripigliar la città vostra. Otlusco
Da costei fu atterrato... oh, ma vedete
La generosa!»
E il sen tutto squarciato
Di Rosilde accennava e quelle care,
Or deformi sembianze: ed oltraggiando
Il fido Ugger che il contenea, una spada
Afferrava, ma indarno, onde svenarsi.
Riacquistò le sue mura il
fortunato
Popolo piacentino. Ebber perenne
Del vedovo stranier cura i pietosi
Ospiti, ed a Rosilde a eterna gloria
In mezzo al foro alzaro un monumento;
E allorquando, tra pochi anni recisa
Fu dal dolor la vita di quel prode,
Chiuse le sue infelici ossa nell'arca
Venner dov'eran di Rosilde l'ossa.
Ahi! quell'arca vedeasi a' tempi
ancora
Della mia fanciullezza, e il padre mio
La visitò: ma quando pellegrino
Adulto mossi tra i Lombardi, e volli
A mia debol virtù porger conforto
Quelle sacre onorando ossa d'eroi,
Più non rinvenni che un'infranta pietra,
E su quella sedea, laide canzoni
Vil giullare cantando, e gli fea cerchio
Con ghigni infami la plaudente plebe!
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