Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Silvio Pellico Poesie scelte IntraText CT - Lettura del testo |
|
|
ROSILDE
CANTICA.
Dove il trovatore componesse questa cantica non appare; soltanto vedesi ch'egli era fuori di patria ed infelice nelle agitazioni in cui si trovavano a que' tempi le repubbliche lombarde - presso le quali si ricava dai suoi poemi ch'egli peregrinò diverse volte - è probabile che ivi s'attraesse lo sdegno d'alcuna di esse o di Federigo.
ROSILDE.
Canzoni de' miei padri, antiche istorie Che a' felici d'infanzia anni imparai Nel mio alpestre idioma (inculta lingua Ma d'affetti guerrieri e di mestizia Gentilmente temprata e dolce al core!) Riedete nel mio spirto: e col soave Risovvenir delle pietose note Illudetemi sì che a' miei dolori E al carcere ov'espio vani ardimenti Togliermi io creda, e a me ritornin l'ore Di mie gioje infantili - o di Saluzzo Nell'amato che prima aere spirai - O sui fragranti colli onde di fiori E limpid'acque Pinerolo è lieta - O per gli Eridanini ameni poggi, Ove la sera il Torinese ascolta Della lontana villanella il metro Che avventure d'eroi dice e d'amore. Oh poetica terra! oh popolata D'alte cavalieresche rimembranze Or gaje or triste, commoventi sempre! Tu la prima onda porgi e le tue valli Il primo letto al giovin re de' fiumi, Ed ei ne' campi tuoi cresce educato Come in orto di fiori! E di quell'orto Mentre il voluttuoso aere m'inebbria Veggio intorno - ove ch'io l'occhio sollevi - Con fiero atto seder sovra le alture Negre castella, e scemasi a tal vista, Ma no, non cessa e sol natura cangia La voluttà che mi ridea nel core E più seria diventa e non men dolce; E allora il pastoral flauto lasciando Toccar desio la trobadoric'arpa. Musa,o patria, a me sien le tue memorie: Rosilde io canto. - Bella era ed amata E al suo sposo e signor tenera amante: E - come a fiore un fiorellin s'appoggia - Nelle braccia materne un pargoletto Della madre al sorriso sorridea. Se torna dalla caccia il cavaliere Teodomiro, oh quanto gli par lunga La salita al castel! non perchè il domi Grave stanchezza, ma perchè alla sposa Adorata il pensier vola ed al figlio: Erge ei gli occhi alla torre - e v'apparìa Lui desiando la venusta dama Col leggiadro bambin, quasi dal cielo Scesa fosse d'Iddio la Vergin Madre A consolar d'un suo sguardo i mortali. Ma improvviso precipita il dolore Sui dì felici! Era un mattino, e in riva Stava al Lemna natio Teodomiro Inseguendo il cinghial. Vibra la freccia, E tra questa e la belva, ahi, dal cavallo Spinto è il giovin Denigi, e cade esangue! Denigi il fratel d'arme, il fido amico Dell'uccisore! (Vive ancor negli inni Di tue vaghe fanciulle, o Pinerolo, La beltà di Denigi e il suo coraggio.) Oh rammarco! rammarco! e dacchè tinto Del sangue dell'amico è il cavaliero, Sfuma ogni gioja sua. Sovra il castello, Così beato in pria, siede e vi spande I negri vanni suoi l'angiol del male; E dello spirto scellerato il riso Fama è che molti udir di notte tempo, Quando consunto da languor si spense Di Rosilde il figliuolo, e del materno Pianto ulular le desolate sale. Nè qui del mal le orribili minacce Termine han pure. Ahi! di Rosilde istessa Le giovanili guance scolorarsi Vede lo sposo, e andarsi a poco a poco Estinguendo in que' grandi occhi il bel raggio Onde dianzi splendean con tanta vita: E in segreto ei sospira, e mentre asconde Con ridenti parole il suo timore, Gli s'arriccian le chiome immaginando Un'altra tomba - e in questa tomba chiusi, Chiusi quegli adorati occhi per sempre! Presso a morte ella venne. E allor proruppe Nel già incredulo cor del cavaliero Religïon con tutta sua possanza: E sceso a Pinerolo, al maggior tempio Ricchi doni profonde, e con solenni Riti espiar l'involontario cerca Omicidio commesso, e (se mai peni) Suffragar di Denigi il caro spirto, Onde placato il ciel renda a Rosilde Vita e gioja e di madre il dolce nome. Ahi! nel sonno gli appar l'amico spettro, E non irato è il volto suo, ma mesto Come d'un che pietoso asconder brami Le proprie, e più d'altrui senta le pene, Nè gli si doni il sollevarle; e porti Una coppa amarissima, e non sia Quella coppa un rimedio, e ber si debba! - Deh, spiegati! dicea Teodomiro, Spiegati! - Ed il fantasma una lontana Strada additava, e in fondo a quella strada Con eccelse basiliche sorgea Una grande città: dir sembra - «Vanne, Là Dio ti chiama!» e mentre ivi lo affretta Con una man si copre il volto e piange. Atterrito si desta il cavaliere: L'oscuro sogno medita; ispirato Alfin si crede. «Ah! non v'ha dubbio, è Roma Quella grande città: col pio vïaggio Te, Denigi, da tue fiamme, e da morte La cara donna liberar degg'io» - Dice, e ad un tempo a ciò s'astringe in voto. Esultate, o colline! ad abbellirvi Torna col redivivo occhio Rosilde. Di festive ghirlande olezzan tutte Del castello le sale: echeggian l'arpe; Stagion tornò di danze e di conviti: L'angiol della sventura è dileguato. Ma fido al voto suo prende il bordone Teodomiro e seco uno scudiero, Nè che la sposa il segua egli consente; Perocchè a lei vicino ardua non fora Più penitenza alcuna, e potria il cielo Gravemente punirnelo. - «Addio, sempre Più sempre amata! i giorni tuoi mi serba E l'amor tuo! qui fra due lune io riedo.» Piangea Rosilde, e dalle care braccia Strapparsi non potea: nè di Rosilde Tutte eran quelle lagrime che il volto Inondavano al sire. - Oh dolorose Partenze, sì, ma di dolcezza miste, Quando due cuori che batteano insieme Breve tempo si staccano, ma l'ora, La lieta ora si dicon del ritorno! Ahimè che di partenze altre son conscio Più dolorose! allorchè a forza svelti Da geloso tiranno eran due cori, Nè dirsi addio potean, nè lor rimase Speme che di ritorno ora risplenda! Compie una luna dacchè orando e cinta D'umil cilicio, infra i digiuni e il pianto, Quasi pia vedovella, entro il solingo Castel vivea la innamorata donna, Di niun pensier curando altro che un solo, Quando dal suo veron gli occhi volgendo Giù sul pendio, salir vede un canuto Che pare (ed è) il fedele Ugger, che il sire Accompagnato ha in romeaggio. - «Ahi lassa! Solo ritorna? Oh palpiti! oh funesti Presentimenti!» - E indietro si ritrae: Si riaffaccia indi al veron: prestigio Creder vorria ciò ch'ella vede; e il santo Segno si fa della salute, e sclama, «No, mio Gesù, no, non sia ver! non sia!» Ma giunto è il vecchio, e a' pie della signora Singhiozzando si getta. «O mio buon servo! Tu mi rechi la morte, io già t'intendo: Narra ov'ei cadde; ah,ch'io sovra la terra Che lo ricopre, almen mi tragga e spiri!» «O Donna, il fido Uggero a te dinanzi Non torneria, se del suo sir la tomba Veduto avesse.» «Che dicesti? Ei vive? Ah! sciagurata più non sono.» «Ascolta, Signora mia: non lusingarti, grave, È grave assai questa sciagura: è incerto Del mio sire il destino. Appena giunti A quel varco eravam dove la terra Al Piacentin del Po bagnano l'onde, Allorchè un passegger, forte spronando IL cavallo ver noi: fuggite, grida, Fuggite, e pelegrini! un'orrenda oste Invaso ha la contrada: il fero Otlusco Co' suoi prodi vaganti Ungari il fianco Occupò di Piacenza, e impossessato S'è d'un vicin castello, e in quel castello Quanti più può, chiude prigioni, e immensi Indi al riscatto vuol tesori o il sangue Versa degli infelici. - Il cavaliere Che così ne parlava era un prigione Al cui riscatto i teneri parenti Tutto venduto avean, servi e poderi E rocche avite. E il giovin cavaliere S'era con altri prodi a fratellanza Religiosa consacrato, e il voto Di que' frati guerrieri è i pellegrini Difendere e gli oppressi e la innocenza; Ma nè il coraggio lor, nè tutti i brandi Dell'afflitta città respinger ponno Il fero Otlusco: sue terribili armi Son gli stessi prigioni onde la strage Minaccia se assalirlo osin le genti. - Mercè rendiamo al generoso, e in fretta Ricalchiamo la via. Ma quando soli Teodomiro ed io per una selva Ci scostiam dal periglio, «aita! aita!» Sentiam gridar da lunge: onor ci vieta Negare aita a chi la implora: il ferro Snuda Teodomiro: il seguo: a zuffa Con gli Ungari veniamo. Avean rapita Al suo sposo una dama. Ahi, che potero Contro a sì forte stuol soli due brandi? Mira sul petto mio le non ben salde Ancor ferite, onde i nemici a terra Mi lasciar, mentre vinto e prigioniero Strascinavano il sire. Allorchè appena Riavermi e sorreggermi sull'egro Fianco potei, mossi ad Otlusco e chiesi Del mio signor divider la sciagura: Ma il barbaro esultò, mi risospinse, E appeso ad una croce un uman tronco Mostrandomi: - «Al tuo sir, disse, egual sorte Fra pochi dì sovrasta, ove quant'oro Val sì nobile vita io non riceva.» «E ch'è mai l'or? grida Rosilde: ah, tutto Si sagrifichi tosto: assai di gemme Erede io fui...» «Deh, ciò bastasse, o donna! Ma tal chiede riscatto il masnadiero, Cui ben pavento non s'adegui alcuna Di tue ricchezze. E il tempo incalza: i giorni Numerati ha il crudel.» - Quando la donna L'enorme udì richiesta somma, il lume D'ogni speranza a' guardi suoi s'estinse: E come il Giusto1 in Idumea, percosso Dall'eccesso de' mali, osò il suo grido Elevar verso Dio, ragion chiedendo Del non mertato aspro flagel - Rosilde Così, nel colmo del suo affanno, obblia Che col suo Creator, dritto la polve Di contender non ha: ma il Creatore Come allor per quel Giusto, or si commove Per la infelice delirante, e a detti Che nell'angoscia le sfuggian, perdona. E che sai tu, cieco mortal, se Iddio Non conduce le sorti e non ti scaglia Incontro alla sciagura, onde il tuo spirto In più che umane lotte trionfando Vieppiù a Lui s'assomigli? Al Sempiterno Mancheran forse i modi e le delizie Onde il lor guiderdone abbiano i forti? Va', pia Rosilde, al tuo destin: che sono Mai di Teodomiro e di te stessa La pace e i giorni, ove allo scampo Iddio D'una intera città voglia immolarli? Scuotesi: amor le ridà forza, e nulla D'intentato consente. - E drappi d'oro E splendidi monili e vasi e perle Tutto che mobil sia d'alto valore Sui giumenti si carca. In fretta e campi Vendere e torri non poteansi: in pegno Alla Badia li affida, e ne ritrae Non picciolo tesoro. «O mia signora, Deh! non avventurarti,» invan ripete Il prudente scudiero; «a me abbandona Questo messaggio.» «A tutto, il barbaro Unno Resister può, non d'una moglie al pianto,» Sclama la dolorosa. «Eppur, deh! pensa Che non è fede ne' malvagi. E s'egli I tesori rapisse, e te prigione, Donna, tenesse?» «Ah! del mio sposo al fianco Andar carca di ferri, anzi che lunge Aver tesori e libertà, ben chieggio.» Dice, e comanda, e vuole. E sulla via Col fido Ugger, co' pochi servi, assisa Eccola sulla mula. - Ahi! così un tempo Da' Francesi inseguito io colla madre Pargoletto fuggìa: si soffermava Il viandante attonito e chiedea Da qual parte calato era il nemico. Oh cavalieri improvidi, ch'a imbelli Arti educate le fanciulle! Or d'uopo Qui saria di valore! In mezzo all'armi E all'arroganza od all'insidie forse Troverassi Rosilde, e le vien meno Segretamente al sol pensarvi il core. Dal palagio paterno uscita mai Pria non era del giorno in che da Susa Mosse al castel dello sposato amante: E qualche volta appena ivi la faccia D'alcun ospite vide, e tutto serba Il pudor dell'infanzia e la paura. E quel debole petto or notte e giorno Per le selve cavalca! e ad ogni fischio Trema di fronda, e gli urli della lupa Ode, e vede la sera da lontano I fochi, ove, chi sa? forse cenando Novi omicidii medita un ladrone! - «Per me non tremerei: ma se rapiti Mi fossero que' carchi, onde salvezza A te verria, Teodomiro, allora?» - Ed ei, Teodomir - dall'alte mura Ove geme prigion, stassi alle doppie Sbarre aggrappato della sua fenestra: Ad ore ad ore immobilmente figge Sovra l'ampio orizzon l'occhio bramoso: Bramoso? e che mai spera? - Ah! nulla spera! Estinto credo il fido Ugger: Rosilde Saper di lui non può. - «Questo vil cibo, Che invan mi si largisce, alfin dispendio Parrà soverchio, e m'alzeran la croce; Venga, venga quel dì!» - Tal è il febbrile Suo frequente desio. Fero contrasto, Bramar come riposo unico morte, E inorridir pensando al disperato Lamento di chi t'ama, allorchè il grido Udrà del tuo martirio! e nuovamente, Quasi l'orribil vita che tu vivi Bramar di proseguire, onde non giunga Alle tue sale mai quel desolante Indubitabil grido Ei più non vive! - Da quelle sbarre guarda, e nulla spera Teodomir: ma i dì passan talvolta, Ed umana figura egli non vede, Perocchè a tergo della torre il campo Giace degli Unni, e a questa parte è un vasto Tratto deserto di palude e arena Che ad un bosco confina, e solo a manca Veggonsi dietro agli olmi i campanili Della città, e se il vento agita i rami Si scoprono gli spaldi... Agita, o vento, Agita quelle fronde! e il prigioniero Veggia talor sovra gli spaldi il passo Di vivente persona! È un indistinto Tormentoso bisogno al solitario Il veder l'uomo - Almen da lunge! un santo Misterioso amor lega i mortali, Se distanza li scevra: ah! come a noja Puon da presso venirsi e farsi guerra? Anco i nemici quasi ama, se ascolta Lor selvaggia canzon Teodomiro, Che pur l'Ungaro canto è umana voce. E se nel bosco alcuna volta udia La percossa lontana della scure, Pur frenava il respiro, e da que' colpi Alcun piacer traea, perocchè all'occhio Della mente pingeasi il buon villano Che coll'ardua fatica alla diletta Moglie porgeva e a' dolci figli il pane. Ahimè, ben d'uopo è ch'uom giaccia all'estremo D'ogni miseria onde gli sien ricchezza Così povere gioje! - E se nel bosco Tace la scure - e taccion gli Unni - e tace Negli olmi il vento - e dalle torri il caro A' meditanti suon della campana - Chi allor molce, o prigion, tue tetre noje? Oh allor - quel ciglio ch'uom giammai non vide Nel lutto inumidirsi, in mesta guisa Abbassandosi a terra, a larghe stille Versa il dolore! «Oh mia Rosilde! io sono L'autor di tua sciagura! Io da celeste Credea ispirazione essere al pio Viaggio mosso, e m'illudea il consiglio Dello spirto a cui gioco è l'uman pianto!» «A cavallo! a cavallo! ecco una preda!» Così sclama, e già sprona, e già seguito Da cento lance è Otlusco. Oh, qual fu l'alma Della timida donna al furibondo Proromper d'una squadra! oh spaventose Urla che assordan l'aere, e men saccheggio Sembran nunciar che rapido macello! Discende dalla mula. Il cor le manca, Ma invoca il suo buon angiolo e confida Nel suo soccorso, e pallida e smarrita - Pur risoluta - avanzasi all'incontro De' masnadieri, e con la mano accenna Che raffrenino il corso ed ascoltarla Vogliano per pietà. - V'è nell'aspetto Dell'inerme e del debole un arcano Che ispira reverenza anco ai feroci: E se il debole opprimono, è un comando Che natura non fece, è un altro moto Che senza sforzo non si compie, e il compie Pensata voglia di trionfo o lucro. Commovente spettacolo! Un istante, E dalle scalpitanti ugne pestata Esser potea la misera - un istante, E l'avventata squadra immobil sta: Cosi Otlusco imperò. Smonta, s'appressa All'atterrita dama: e sopra il viso Dell'assassin colla insultante gioja Della propria potenza e colle dure Tracce di crudeltà, v'è come un fosco Lume che quelle tracce e quella gioja Addolcisce un momento, e sembra quasi Raggio di cortesia. L'opra era forse Di tua beltà, o Rosilde? o forse innanzi Ch'atti inumani il trasformasser, grande Fu dell'eroe lo spirito, e quel raggio Di cortesia reliquia è di quel tempo? Ma in alme dal delitto degradato A' moti generosi un pentimento Di sentirli succede, e - unica a loro Nota virtù - della virtù il dispregio. «Signor, la sposa io son d'un prigioniero Di cui t'offro il riscatto. Ove regina Nata foss'io, per quel riscatto un regno Dato t'avrei: ma ciò ch'io m'ebbi or pongo Tutto a' tuoi piedi, e supplice scongiuro Che il mio Teodomir tu mi ridoni. «Donna, ravviso il tuo scudier. Recato T'avrà il pregio in che tengo il signor tuo: Nè mai per men del valor suo di tanto Peregrino giojel fia che mi spogli.» «Deh! non macchiar tue forti gesta, o sire, Schernendo gl'infelici: ecco non vile Tesoro, e tu il gradisci: e fa' che priva Di quanto io possedea, tranne il consorte, Di mia miseria non curante, io possa Ogni dì benedirti.» «Olà mi segua Quel convoglio al castel.» Trema e rimonta Rosilde la sua mula, e a fianco a Otlusco Dinanzi agli altri avviasi, e da lontano Guarda con desiderio e con affanno Quelle mura ove chiuso è il suo diletto. Ma l'avaro ladron vede l'amore E la bellezza della dama, e volge Nell'astuto pensier nova perfidia. Arrivano al castel: spiegansi i doni, E Otlusco a sè venir fa il prigioniero. Oh emozion de' due teneri sposi Nel rivedersi! Udì Teodomiro Ciò che a salvarlo fea Rosilde, e gioja, Stupore e gratitudine è in lui tanta Che parole non trova. - Il sospettoso Unno quel muto giubilar mirando, «No» sclama «non è ver, queste non sono Vostre sole dovizie; in voi non fora Sì poco duol nel perderle: al riscatto Ben puon di te, o guerriero, esser bastanti, Ma pari a questi quattro volte un dono Vo' per la donna che prigion ritengo.» Piansero, supplicàr. Barbaramente Sono divisi, e dal castello a forza Dagli Ungari cacciato è il cavaliero. Che diverrà la misera? E ove mai Teodomir ritroverà tant'oro Qual dal perfido vuolsi? Il pio scudiere Gli rammenta i congiunti. «Ah, i miei congiunti Possenti son, ma antiche guerre e invidia A me feali inimici, e non che ajuto, Scherno n'attendo nella rea fortuna! Vendere il mio retaggio? E lenta è l'opra; Nè molto indi trarrei, poichè sì pingue Già ne diè somma chi toglieali in pegno.» Mentre varii nel cor volge pensieri, E un furibondo più dell'altro, e tutti Fausti a vendetta sì, inefficaci A liberar la cara sposa - e mentre Tenta indarno in agguato al masnadiero Toglier la vita - e mentre indarno ai prodi Frati guerrieri e all'armi piacentine Recasi e prega e stimola e, a gran rischio Di cagionar d'ogni prigion la strage, Pur li spinge a battaglia, e dieci volte (Con finti attacchi) in lontananza spera Trarre l'oste malvagia e della rocca Rapidamente impadronirsi, e sempre La vigile degli Unni arte il delude - A investir la città pensa in segreto Con audacia incredibile il ladrone. Oh scellerata notte! Un tradimento Forse ad Otlusco aprì le porte: il ferro E il foco cinque giorni orribilmente Scorre per ogni via, per ogni chiesa, Per ogni ostello, e disperato sembra Del popol vinto il più risorger mai. Nè per l'amor sol della preda esulta Di sue vittorie il barbaro: egli esulta Perocchè quanto più temuto e forte, Tanto più grande apparir crede al guardo Dell'altera Rosilde. Il ferreo core, Non si sa come, al pianto di Rosilde S'era commosso, e in guisa ch'ei sul punto Fu alcune volte d'asciugar quel ciglio, Libera rimandandola al marito: E se eseguia il magnanimo pensiero Non avrebbe sol lei, ma seco tutti I suoi tesori rimandati. Un giorno Alla stanza ei movea della dolente Col nobile proposto, ahi! ma rivide Quelle angeliche forme, intese il suono Di quella voce, e gli morì sul labbro La pensata parola, e generoso Esser più non potè. Parlò d'amore, E, ciò che mai sofferto ei non avea, I dispregi sofferse, e quei dispregi Eran pugnali all'alma del superbo, Eppur chi li avventava era a lui caro. Nè degli altri prigion pari alla sorte Di Rosilde è la sorte. A lei l'uscita Sol tolta è del castel, ma le si dona E visitar gli altri infelici e alquanto Alleviar lor pene e dalla croce Redimer chi dannato era e taluni Render senza riscatto a lor famiglie. Con benefico intento e varia speme Va serbando la vita, e all'esecrato Ladron si finge meno irata, e volta Tutta è a cercarsi occasïon di fuga. Ma maggior di lor possa è il breve sforzo Di gentilezza e di pudor nei vili; Parer grandi vorriano e oprar da grandi Incominciato appena avean - nel basso Sentiero ecco ricalcali natura, O abitudin d'infamia, o delirante De' sensi ebbrezza, o il giubilo del male. Prudenza e preghi e dignità e disdegno Più a Rosilde non val. Fra le volgari Delle coppe esultanze, il masnadiero Motti d'amor - ma temerarii - vibra, Ed orgogliosi (ah, il tuo bel nome, Amore, Non merta il foco de' profani!) «O stolta, A che ostinarti contra il fato? E credi Che, dacchè l'ha perduta, in vedovanza Perenne stiasi il tuo primier compagno? Ah, ch'ei ben già di tua mancanza in braccio D'amante altra consolasi! A cercarti Forse riedea? Ti vendica: le nozze D'Otlusco accetta. Splendida ben altra Che non Teodomir t'offro ventura: Invitte squadre io guido, un regno innalzo Cui le più ardite signorie curvarsi Dovran d'Italia: te possanza e pompa E adoramenti faran lieta, e madre Sarai di regi.» (E in così dir con guardo inverecondo alla pudica un braccio Osa afferrar.) «Deh, signor mio! Te irrito Se il passato rammento e i dì felici Che da te lunge io trassi: a sgombrar l'ire Dal ciglio tuo, quindi in silenzio io pongo Il prisco ond'arsi immenso amor: ti basti Questo silenzio. E se ostinata speme Nutrir pur vuoi ch'amor novel me accenda, Fa' che d'atti tirannici e scortesi Io mai capace non ti scorga, e al tempo Lascia il mutarsi del cor mio.» Tra umile E maestosa così parla: e tenta Allontanar pur quel terribil punto Cui già da lungo con preghiere e pianto S'è apparecchiata. - Mesi e mesi invano Sperò in Teodomir: più non ritorna. Nelle pugne sperò, ma invan: la palma Sempre è dell'Unno. Invan sperò d'aprirsi Qualche strada alla fuga: omai non resta Scampo ad infamia, altro che un sol - la morte. A timid'alma arduo dover, la morte. - Ma non feroci tutte fur le donne Di cui l'alto morir narran le istorie. A talune, o pittor, forse tra quelle E maschi tratti e gigantesca possa E spirito guerrier dar non dovevi: E mite cor portavano, e formate Eran solo ad amore, e d'una spada Inorridiano al lampo, eppure (oh grande, Oh ben più grande era virtù!) a dispetto Della dolce indol femminile, il seno, Anzi ch'a onore o amor farlo spergiuro, Colla tremante man si laceravano! - Ahi giunta è l'ora per Rosilde! Un varco Era all'audacia del fellon, quel varco Or più non è. Nè avvidesi ei che l'armi Appese alla parete ella adocchiasse: La parete adocchiava e già scagliata Col volo d'un baleno erasi a un ferro La generosa... allor che risonanti Di spaventose grida ode le sale. Due i momenti non furo: assaliti ode Rosilde gli Unni, e un rapido pensiero Non mai previsto or le risplende, e il ferro Che in sè volger dovea, vibra al tiranno. Cade - e su lei rovesciasi - e quel ferro Dal seno Otlusco a sè strappando il pianta Ed il ripianta dieci volte e in viso E nel fianco alla misera, e fra gli urli E i colpi e il duolo e le bestemmie ei spira. Tal nel castel la spaventevol scena Presentavasi agli Ungari, allorquando Prorompea l'oste. Impugnano le lance, A far fronte s'accingon, ma l'orrenda Morte del condottiero e la sorpresa Sì gli atterrìa che immemori son fatti Dell'antica lor possa e a vergognosa Fuga si dan per la campagna. - I prodi Esuli Piacentini al forte, fatto Duce Teodomiro, eransi spinti Perir giurando o vincere: e mai fermo Da moltitudin ciò non fu che tutti, Per quanto lunghi sien feri gli inciampi, Visti a crollar sotto ai suoi piè non li abbia. Ma come or sì poco ardua è la vittoria? Donde il terror de' barbari? Nè Otlusco Fu veduto pugnar. Parla un morente Ungaro e accenna del suo sir la sorte: «Femminea man lo trucidò!» Ai vincenti Raddoppiasi la gioja. - Ov'è la santa, La salvatrice della patria? - Schiuse Son le carceri: mischiasi col grido De' redentori il grido di cinquanta Liberati prigioni. «E tu, Rosilde, Che non accorri? Dove sei? Rosilde! Diletta sposa!» Ardea fosca una lampa Nella gran sala. Spaventato n'esce Il vecchio Ugger: nel suo signor s'incontra; Ritrarnel vuol. Ma già Teodomiro, Tra rovesciate mense e armi, scoverto Ha l'immane cadavere d'Otlusco: Con gioja gli s'appressa - oh vista! un altro Cadavere ei copria! Rosilde - E intanto Che il più infelice de' mortali esclama Miserandi lamenti (oh mescolanza Che drizzar fa le chiome!) urla di gaudio Metteano, ignari i suoi compagni ancora, E con festa il chiamavano: «A te dessi Questa lieta vittoria! A' fuggitivi Riposo non si dia! Guidane, o prode! La città si riacquisti!» - A poco a poco Cessa il giulivo dissonante strepito: Il luttuoso caso odono: muti Reverenti s'affollano alla sala: Tutti lor gioja oblian: l'egregia donna Mirano - e oh che pietà! quel cavaliere Dianzi sì dignitoso, or nella polve E nel sangue si rotola ululando, Nè più gli cal che forse altri il dispregi. «Ite, o felici: agevol cosa è omai Il ripigliar la città vostra. Otlusco Da costei fu atterrato... oh, ma vedete La generosa!» E il sen tutto squarciato Di Rosilde accennava e quelle care, Or deformi sembianze: ed oltraggiando Il fido Ugger che il contenea, una spada Afferrava, ma indarno, onde svenarsi. Riacquistò le sue mura il fortunato Popolo piacentino. Ebber perenne Del vedovo stranier cura i pietosi Ospiti, ed a Rosilde a eterna gloria In mezzo al foro alzaro un monumento; E allorquando, tra pochi anni recisa Fu dal dolor la vita di quel prode, Chiuse le sue infelici ossa nell'arca Venner dov'eran di Rosilde l'ossa. Ahi! quell'arca vedeasi a' tempi ancora Della mia fanciullezza, e il padre mio La visitò: ma quando pellegrino Adulto mossi tra i Lombardi, e volli A mia debol virtù porger conforto Quelle sacre onorando ossa d'eroi, Più non rinvenni che un'infranta pietra, E su quella sedea, laide canzoni Vil giullare cantando, e gli fea cerchio Con ghigni infami la plaudente plebe!
|
1 Giobbe. |
Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License |