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Silvio Pellico Poesie scelte IntraText CT - Lettura del testo |
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EBELINO
CANTICA.
L'idea di questa cantica non è tutta mia. Il tema vennemi fornito da un romanzo storico tedesco, ch'io lessi già tempo, e di cui ignoro l'autore. Il merito letterario di quel libro mi pareva debole, ma il personaggio d'Ebelino vi spiccava con tratti forti, e mi rimase vivamente impresso nella fantasia, come nobile modello di pazienza ne' dolori. Ivi narravasi d'Ebelino, non so con qual fondamento, ch'ei fosse un povero cavaliero scacciato nell'adolescenza con atroci minaccie di morte da sette disumani fratelli, e divenuto uno de' liberatori della regina Adelaide. Questo giovane prode passato in Germania coll'illustre vedova di Lotario, allorch'ella sposò in seconde nozze Ottone I, dipingevasi dal mio autore quale un nuovo Giuseppe alla corte d'Egitto, potentissimo e sapientissimo; e a fine di meglio somigliare al vicerè di Faraone, Ebelino scopriva anche i suoi fratelli, venuti d'Italia a Bamberga senza che immaginassero chi egli fosse, e perdonava loro. Conservata alcun tempo la sua alta fortuna sotto Ottone II, cadeva poscia vittima d'un traditore collegato a molti invidi rivali; ma il traditore stesso, agitato da visioni spaventevoli, confessava indi a poco l'innocenza dell'immolato Ebelino.
EBELINO.
Si bona suscepimus de manu Dei, mala quare non suscipiamus!
Job. 2, 10.
Inno d'amore e di compianto al giusto, Al giusto denigrato! Ebelin, fido Campion del magno Ottone e consigliero, Colui che al generoso Imperadore Verità generose favellava, E i biasimati torti indi con mente Pronta e amorevol correggea e sagace; Colui, che, senza ambizïon nè orgoglio, Spesso invece del sir ponea la destra Al timon dell'impero, e lo volgea Del sir con tanta gloria e securanza, Che questi, anco in cimento arduo serrando Le auguste ciglia al sonno, a lui dicea: «Vigila or tu, che il signor tuo riposa;» Quell'Ebelin, che, lagrimato il sacro Cener del magno Otton, d'Otton novello Fu parimente lunghi anni sostegno Di giustizia nel calle, e guida e sprone; Sì che a nessun parea che dilettoso Ne' poveri tuguri e nelle sale Fervesse crocchio, ove lodato il nome Non fosse d'Ebelin, - quell'Ebelino Morì esecrato, ed era giusto! Amore E compianto agli oppressi! Un dì l'Eterno, Come a' giorni di Giobbe, al suo cospetto Avea tutti gli spirti, e a Sàtan disse: - Onde vieni? E il maligno: - Ho circuita Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo. Ed il Signore: - O di calunnie padre, Non vedestù l'amico mio Ebelino, Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo Tanta in prosperi dì serba innocenza? E l'angiol di menzogna ambe le labbra Si morse, e crollò il capo, e disdegnoso Disse: - Ebelin? Dov'è il suo pregio? Ei t'ama Perché di beni è colmo. Il braccio or alza, Percuotilo, e vedrai s'ei non t'imprechi. Ed il Signor: - Giorni di prova a' retti Forse non io so stabilir? Va; pongo Entro a tue mani dispietate or quanto Agli occhi della terra Ebelin porta, Fuorchè la vita. L'avversario allora Avventossi precipite dal grembo Della nembosa nube, onde i mortali Atterria lampeggiando; ed in un punto Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante Si soffermò, e da questo lato i campi Della lieta penisola mirando, E dall'altro le selve popolose De' boreali, l'una all'altra palma Battè plaudendo al sovrastante lutto D'entrambo i regni, ed esclamò: - Vittoria! La più squisita voluttà del male Pensò un momento qual si fosse, e al giusto Fermò ignominia cagionar per mano... Di chi? - D'amico traditore! Il colpo Più doloroso e a dementar più adatto Chi molto amando irreprensibil visse! - Un Giuda voglio! Il dèmone ruggia Giù dall'alpe scagliandosi e correndo Pe' teutonici boschi, e visitando Con infernal, veloce accorgimento Città e castella. Iva ei cercando l'uomo, In cui scernesse il dolce volto, e i dolci Atti, e l'irrequïeto occhio geloso Del venditor di Cristo; e non volgare Mente si fosse, ma gentil, ma calda Di lodevoli brame, ed inscia quasi Di sè si pervertisse, e vaneggiasse D'amor per tutte le virtù, e seguirle Tutte paresse, e infedel fosse a tutte. Tale, od un vero giusto esser dovea Chi affascinasse d'Ebelino il core; E Sàtan nol trovava, e con dispregio Maledicea la lealtà nativa De' figli del Trïon, popol rapace Nelle battaglie, e in sue pareti onesto. Ma quando già il crudel quasi dispera, Ecco s'incontra in uomo onde il sembiante Tosto il colpisce; e fra sè dice: - «È desso!» Ed esulta, e più guata, e vieppiù esulta. Quel benedetto dall'orribil genio Era un prode straniero, e fama tace Di qual progenie, e nome avea Guelardo. Sul suo destrier peregrinava, e ladri Or assaliva, degli oppressi a scampo, Or dispogliava ei stesso i passeggeri, Se mercadanti, e più se ebrei. Nè spoglio Pur quelli avrìa, se a povertà costretto Non l'avesse un fratel, che del paterno Retaggio spossessollo. A che di bosco In bosco errasse, ei non sapea. Sperava Dal caso alte venture, e perchè tarde Erano al suo desìo, volgea frequente Il pensier di distruggersi; e più volte Dall'altissime balze misurava Coll'occhio i precipizi, e mestamente Rideagli il core, e si sarìa slanciato Nelle cupe voragini, se voce, O aspetto di mortali, o speranze altre Non l'avesser ritratto. - O cavaliere, Salve. - Scòstati, scòstati, o romito; Oro non tengo. - Ed oro a te non chieggo; Ben d'acquistarne santa via t'accenno. Vile è il mestier cui t'adducea sciagura, Ma nobile è il tuo spirto. A me tue sorti Occulta sapienza ha rivelate: Vanne a Bamberga; ad Ebelin ti mostra: Grazia agli occhi di lui, grazia otterrai A' clementi occhi del regnante istesso. Così Satan, e sparve. Incerto è quegli Se fu delirio o visïone. Al cielo Volge supplice il viso: in cor gl'irrompe De' suoi misfatti alta vergogna; aspira A cancellarli, e quindi in poi di tutte Virtù di cavaliere andare ornato. In quel fervor del pentimento, incontra Un mendico, e su lui getta il mantello, E sen compiace, e dice: - Uom non m'avanza In carità e giustizia. E Sàtan rise, E non veduto gli baciò la fronte. Alla real Bamberga andò Guelardo, Mosse alle auguste soglie, ad Ebelino Supplice presentossi, e pïamente Da quella bella e grande alma si vide Ascoltato, compianto, e di non tarda Aïta lieto. Un fascino infernale Sovra la fronte di Guelardo imposto Ha del demone il bacio. Allo straniero Conglutinossi d'Ebelino il core In breve tempo; e nella reggia e in campo Quei Gionata parea, questi Davidde. Mirabile brillava ad ogni ciglio Quella forte amistà: Saran fremeva Ch'ella durasse, e il volgersi degli anni Affrettar non potea. Nè ratto varco Sperabil era tra i pensieri onesti Che Guelardo nodriva e la sua infamia, Tra l'amor suo per Ebelin, tra il dolce Nella virtù emularlo, e il desiderio Scellerato di spegnerlo. Ma il tristo Angiol si confortava misurando L'immortal suo avvenire. Appo sì lunghi Secoli, breve istante eran poch'anni. Ed intanto ci godeva, a quell'imago Che tigre, sebben avida di sangue, Mira la preda, e ascosa sta, e sollazzo Tragge di quella contemplando i moti E l'amabil fidanza, ed assapora Più lentamente la decreta strage. Dopo tanto aspettar, s'appressa il giorno Sospirato dall'invido. Al novello Otton contrarie qua e là in Italia Eran le menti di non pochi, e speme Vivea secreta ch'italo Ebelino Secretamente lor plaudesse. Il core Di molti era per esso, e nelle ardite Congrèghe entro a' castelli, ed appo il volgo Susurravan, più splendido rinomo Non avervi del suo; null'uom più voti A suo pro riunir; doversi acciaro Dittatorio offerirgli, o regio scettro. L'augusto sir dalla germana sede Contezza ebbe di fremiti e lamenti Nell'alme de' Lombardi esasperate, Ed a sedarle con prudenza invìa Ebelino e Guelardo. Alla venuta Di questi sommi giù dall'alpe, e al grido Che fama addoppia de' lor alti pregi, E più de' pregi di colui, che sembra D'onnipotenza quasi insignorito, Ferve ognor più l'insana speme, e tutta In congressi pacifici prorompe, Ove i duo messi imperïali invano Senno indiceano e obbedïenza. - O prodi! Così Ebelin risponde al temerario De' corrucciosi invito; io condottiero Mai contr'Otton non moverò, chè avvinto Gli son da conoscente animo e onore, E il portai fra mie braccia. E quando insieme Del moribondo padre suo le coltri Inondavam di pianto, il sacro vecchio Nostre mani congiunse, e disse: - Un figlio, O Ebelino, ti lascio; - ed a te lascio, O figlio, un padre in Ebelino! - Ed era In tai detti spirato. Allora il figlio Gettommi al collo ambe le braccia, e molto Pianse, e chiamommi padre suo,e lo strinsi, E il chiamai figlio. Ove pur reo di patti Violati con voi fosse il mio sire, Biasmo sincer da mie labbra paterne Avriane, sì; retti n'avrìa consigli, Ma non odio, non guerra, non perfidia! - Deh! taccïano, Ebelin, privati affetti, Ov'è causa di popoli. Ed ignota Mal tu presumi essere a noi l'ingrata Alma d'Ottone anco ver te, che dritti Tanti acquistasti a guiderdone e lode. Ombra a lui fa la tua virtù: onorarti Finge, ma stolta è finzione omai Ond'ogni cor magnanimo s'adira. Possente sei, ma più non sei quel desso Che ne' duo regni un dì tutto volvea. Tëofanìa il governa, e da Bisanzio Sul germanico seggio ov'ei l'assunse Recò le greche astuzie, e lo circonda Di greci consiglieri. Essi con lei Van macchinando contro te ogni giorno; Che se finor cadute anco non sono Le podestà che a te largì il monarca, Della tua rinomanza egli è prodigio, E nel tiranno è di pudor reliquia. Bada a' perigli, a tua salvezza bada: D'Otton l'iniquità rotto ha i legami D'ogni giusto con esso. Un de' maggiori Cosi parlò fra gli adunati audaci. Nè, sebbene oltrespinta, era appien falsa La parola di sdegno e di sospetto Circa l'imperadrice e i cortegiani Ch'ella a sue nozze addotti avea di Grecia. Ma la candida e ferma alma del pio Ebelin s'adirò. L'imperadrice E Otton con nobil gagliardìa difese, E de' Greci sorrise. Ei sì facondo Favellava, e amichevole e verace, Che i più irati l'udian con reverenza: Con tenerezza quasi, ancor che invitti Nel feroce astio e nell'ardente brama. Di Guelardo lo spirto a quel congresso Funestamente s'esaltò. Il diletto Ebelino ei vedea, nella commossa Fantasia, re, suscitator di gloria Ad un popol redento. Il vedea bello Giganteggiare in immortali istorie, Com'un di que' supremi, onde la terra Lunghi secoli è priva; e sè medesmo Socio vedea di quel supremo, e a lui Successor forse, e... Che non sogna audace Ambizïon, se raggio ha di speranza? Quand'ei fu sol con Ebelin, ridisse Le voci insieme intese, e commentolle Coll'insistenza del favore; e aggiunse Maligno esame de' pensier, degli atti D'Ottone, e della Greca in trono assisa, E degli astuti amici ond'ella è cinta. Quasi certezza accolse i più irritanti Dubbi e i minimi indizi di periglio, E gridò ingratitudine, e diritto Alla rivolta. E a grado a grado questa Ei necessaria osò chiamare, e il pio Ebelin concitarvi. Lo interruppe Finalmente Ebelin; duplice tela Come già svolto aveva agli adunati, Svolse di novo al tentatore amico: Qua la turpezza del tradir, là i vani Sforzi a potenza e gloria, ove bruttata È nazïon da lunghi odii fraterni. Negli aneliti suoi s'ostinò il core Di Guelardo in quel giorno, e seguì poscia A ridir con sofistica, inesausta Facondia per più dì l'empie sue brame; Sì che non poche volte il generoso Ebelino in resistergli, dal mite Considerare e dai soavi detti Passò a dogliosa maraviglia e sdegno. Turbossene colui, ma il turbamento Ascose e il disamore, e da quel tempo Crescente invidia in sen covò tremenda. Novi succedon fortunati eventi, Ch'ognuno attesta glorïosi al senno Dell'ottimo Ebelin; ma più Guelardo, Come negli anni primi, or della gloria Del suo benefattor non va giocondo. Ei con geloso sospettante ciglio Mira la sua grandezza, e superarla Vorria e non puote; e detestando, sogna Dall'amico esser detestate; e pargli, Laddove pria si belle in Ebelino Virtù vedea, più non veder che scaltra Ipocrisia. De' pervertiti è proprio Non credere a virtù; d'ogni più certo Generoso atto dubitar motivi Turpi, ed asseverarli: in ogni etade Così abborriti fur dal mondo i santi. Da quello stato di rancor, di mente Ognor proclive a gettar fango ascoso Sovra l'opre del giusto, è breve il passo Ad assoluto di giustizia scherno. In Lamagna Guelardo ad altri uffizi Di grande onor da Ottone è richiamato, Mentre Ebelin nell'itale contrade Resta moderator. L'ingrato amico Sospetta ch'Ebelino abbia con arte Tal partenza promosso, a fin di trarsi Uom dal cospetto che in secreto esècri. Del congedo gli amplessi ei rende a quello, Ma senza avvicendar come altre volte Palpiti dolci di desìo e di pena. Infinto ei crede ogni atto ed ogni accento Del più sincero degli umani, e parte Coi fremiti dell'odio, e maturando Di non avute offese alta vendetta. - Cieco tanto io sarò che vero estimi Suo rifiuto ai ribelli? Or che si vaste Son le congiure? Or che da lunghe e infauste Guerre è stanco l'impero? Or che d'illustre Nome a capitanarla, e di null'altro, La penisola ha d'uopo? Or che oltraggiata Dalla superba, greca, invida nuora È quell'antica d'Ebelin fautrice, La vantata Adelaide, che alle umìli Ombre de' chiostri dalla reggia mosse? Or che Tëofania palesemente Lacci a lui tende e sua rovina agogna? Il menzogner di me diffida: i vili Diffidan sempre! Allontanarmi volle Non senza mira ostil: me di qui toglie Per regnar sol, per non aver chi forse Sua sapïenza e sue prodezze oscuri. All'amico ei rinuncia; ei nelle schiere Del suo tradito Imperador mi brama, Nelle schiere d'Otton, contro a cui l'asta Scaglierà in breve; e tanto orgoglio è in lui, Che nè lo sdegno mio, né la sagacia Non teme, né il valor! Perfido! io mai Stato non fora a tua amicizia ingrato; Alla mia ingrato ardisci farti: trema! Valor non manca al vilipeso e senno Da smascherar tua ipocrisia. Ludibrio Ne fur bastantemente il sire, i grandi, Le sciocche turbe, e insiem con loro io stesso! Così nel suo vaneggiamento infame S'agita l'infelice, e non s'accorge Che il re d'abisso più e più il possede; Così travolve le apparenze ogn'uomo Che a livor s'abbandoni: Ecco Guelardo Giunto ai reali di Bamberga ostelli; Eccolo assaporante i nuovi onori, Ma com'egro che, misto ad ogni cibo, Sente l'amaro della propria bile. Più sovra il labbro di Guelardo il nome, Come già tempo, d'Ebelin non suona, O su quel labbro se talvolta suona, Laude non l'accompagna, e il favellante Impallidisce, e torvamente abbassa La pensosa pupilla irrequieta, E la rïalza sfavillando; e ognuno Scerne che di compressa ira sfavilla. Del mutamento avvedasi esultando Tëofania, s'avvedono i suoi fidi, E al convito di lei con gran decoro Visto sovente è quel Guelardo assiso, Ch'ella tanto agli scorsi anni abborria. Ordiscono essi alcuna trama insieme Contro al lontano giusto? o la perfidia Tutta covossi di Guelardo in petto? Un dì da quel convito esce il fellone, E quasi esterrefatto si presenta Agli occhi del monarca, e a lui si prostra, Ed esclama: - Ebelino è traditore! Le rivolte fomenta; alla corona D'Italia aspira: sciolta è l'amistade Che a lui mi strinse! Eternamente è sciolta! E false carte adduce in prova, e adduce Di vili già ribelli, or prigionieri, Menzogne tai, che faccia avean di vero. Ed il monarca trabalzò, fu vinto Dalle inique apparenze. Esitò ancora, Dubitar volle novamente; a novo Esame ripiegò la scrupolosa Afflitta anima sua; ma le apparenze Trionfaron più orrende e più secure. Indi egli irato invia turba di sgherri All'italo paese, onde sia tratto Carico di catene il formidato Duce a Bamberga. L'innocente duce Stanza a que' giorni avea in Milan. Posava Una notte, ed in sogno a lui s'affaccia Lo stuol de' cari, in varia guerra estinti, Fratelli suoi, col vecchio padre; e il padre «Fuggi, gridava, sei tradito!» E gli altri Con affanno e singhiozzi ad una voce Ripetean: «Fuggi, fuggi!» Ei si risveglia, E per quell'alme prega, e s'addormenta Un'altra volta. E in sogno ecco apparirgli Il magno Otton primiero ed Adelaide, Non cinta ancor di monacali bende, Ma il serto imperial sopra la fronte. Meste eran lor sembianze, ed a lui: «Fuggi Fuggi, dicean, del figlio nostro l'ira! Ira per te sarìa mortal!» Si desta Il nobil duce, e per quell'alme prega, E s'addormenta un'altra volta. E vede Il tempo antico e la città solenne Ove sorge il Calvario, e là pur vede Di Getsèmani l'orto, ed appressarsi Una frotta d'armati, e Iscarïote Dare il bacio alla vittima!... Ed oh vista! Iscarïote era Guelardo! Balza Spaventato destandosi Ebelino, E que' tre sogni avvertimento estima Dell'angiol suo. Fuggir vorrìa; ma dove? Ma perchè? Fugge l'innocente mai? Pochi istanti anelò fra que' pensieri Di stupor, di tristezza, e piena d'armi Fu ben tosto la soglia. Udì Ebelino Che dal suo Imperador venìan que' ferri, E il cenno di seguirli: ai manigoldi Cesse con muto fremito la spada, E porse ai ceppi gli onorati pugni. Quasi ladro il trascinano, e Milano E tutta Lombardia mira quel crollo Sì inopinato. Il prigioniero obbrobri Soffre inauditi; e non sarìagli pena Dagli sgherri soffrirli: itale voci Lo irridon per la via, maledicenti Al passato suo lustro. E quale esclama: - Va, di rivolte eccitator maligno! Va, scellerata causa, onde su noi Cesare versa il suo tremendo sdegno! - Qual: - Va, codardo degli Otton mancipio, Che d'Italia campion far ti negasti! Ben or ti sta de' tuoi servigi il premio! - Qual più schietto prorompe: - Erami noia Udir chiamarti il giusto; alfin delitti Potrem di te sapere ed abborrirti! Quant'è lunga la via sino a' confini Delle italiche valli, Ebelin tacque Degli spregi sofferti. Allor che in cima Dell'alpe fu, rivolse gli occhi, e alzando Le incatenate braccia, - Oh maledetta Troppo da' vizi tuoi, misera patria, Sclamò, non io ti maledico! Il cielo Figli ti dia che s'amino fra loro, Ed amin te com'io t'amava e t'amo, E più di me felici acquistin gloria Senza espïarla con dolori e insulti! - Maledicila! gridagli all'orecchio Una voce infernal. - Ti benedico L'ultima volta! ripres'egli. E pianse Siccome pio figliuol sulla ignominia D'una madre infelice; e gli sovvenne Quanto già quella madre avea prefulso In virtù fra le genti, e a depravarla Quante cagioni eran concorse! E grande Su lei di Dio misericordia chiese; E dal dolce aer suo, dalle ridenti Tutte illustri sue sponde, ei nè le amanti Ciglia diveller, nè il pensier poteva! Satan che indarno occultamente spinto Avealo ad imprecar la patria terra, Urlò di rabbia le sue preci udendo; E di Lamagna per alture e piani Corse con questo grido: - È alfin caduto L'italo malïardo, il seduttore De' nostri augusti, il protettor di quanti Di Lombardia traeano ad impinguarsi Sul germanico suol, genìa predace Onde la tanta povertà cresciuta In quest'anni da noi! Tutti Ebelino Nostri tesori al lido suo recava, E colà un trono alzar voleasi, allora Che ad atterrar le ribellanti spade Inetto fosse per miseria Ottone? - Ebelin mora! Universal risposta Fu del tedesco volgo. Ed obblïato Da migliaia di cuori in un dì venne Quanto a lodarlo aveali invece astretti La sua mansüetudine, il modesto Non curar le ricchezze, il riversarle Sulle infelici plebi, il non mostrarsi, Benchè pio verso gl'Itali, men pio Ver gli stranieri. Quella dianzi nota Serie di virtù splendide cotanto, Un incantesimo vil parve ad un tratto, Una menzogna. Convenìa disdirla: Riconoscenza è grave pondo ai bassi. Esultan se pretesto a lor si porga Di rigettarla, e attaccaticci morbi Son odio, ingratitudine e calunnia. Conscio de' benefizi innumerati Ch'egli avea sparso, avea creduto ognora L'irreprensibil cavalier che stretti, A lui fosser d'amor cuori infiniti. Le ripetute indegne contumelie Lo sorpreser, ma tacque; e sovra tanta Pravità de' mortali meditando, Arrossì d'esser uomo, e innanzi a Dio Umilïossi. E vanamente ancora Stette Satan mirandolo e aspettando Il desìo di vendetta e le bestemmie. Chiama l'Onnipossente al suo cospetto Tutti i ministri spirti, e a Satan dice: - Onde vieni? E il maligno: - Ho circüita Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo. Ed il Signore: - O di calunnie padre, Non vedestù l'amico mio Ebelino, Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo, Tanta nel suo dolor serba innocenza? E l'angiol di menzogna ambe le labbra Si morse, e disse: - Ov'è il suo pregio? Ei t'ama, Perchè, in tuo amor fidando, ei palesata In breve spera sua innocenza. Il braccio Estendi, e più percuotilo, e vedrai Se non t'impreca. Ed il Signor: - Non forse Giorni di prova assegno a' retti? Vanne: Ebelino è in tua mano; anco sua vita, Anco la fama sua, perchè maggiore Torni suo vanto e tua immortal vergogna. L'avversario precipite avventossi Dal grembo della nube, onde i mortali Atterrìa lampeggiando, ed in un punto Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante Si soffermò, e da questo lato i campi Della lieta penisola mirando, E dall'altro le selve popolose De' boreali, l'una e l'altra palma Battè plaudendo al sovrastante lutto D'entrambo i regni, ed esclamò: - Vittoria! Di là scagliossi alla città del trono E de' cento felici incliti alberghi, E delle orrende mura ove trascina Sua catena Ebelin. Desta il demonio Ne' giudici, che Ottone a indagin chiama Dell'alta causa, aneliti vigliacchi. Temon, se reo non trovan l'accusato, L'ira d'Otton, l'ira d'Augusta, l'ira Di quel Guelardo che per essi or regna; E dove il trovin reo, speran più pingui Gli onorati salarii, e maggior lustro. Chi primiero è fra' giudici? Oh impudenza Guelardo stesso! Oh come il core all'empio Nondimen trema, udendo che s'appressa L'irreprensibil catenato! E questi Entra con umil, sì, ma non prostrato Animo, e reca sulla smorta fronte Quell'alterezza ch'a innocenza spetta. Cela Guelardo il suo tremore, e prende Così ad interrogar: - Qual è il tuo nome, O sciagurato reo? - Sono Ebelino Da Villanova, amico tuo. - Rigetto L'amistà d'un fello: giudice seggo. Che macchinasti co' Lombardi? In viso L'accusato guardollo, e non rispose. E Guelardo: - A lor trame eri secreto Eccitator; t'offrìan lo scettro, e pronta Stava tua destra ad accettarlo in giorno Ch'ansio esitavi a stabilire, in giorno Che, la mercè di Dio, non è spuntato. V'ha fra i complici tuoi chi tua perfidia Al tribunale attesta. E poichè muto Serbavasi Ebelin, vengon a un cenno Que' testimoni nella sala addotti. Eran duo di que' truci esclamatori Di libertà, di civiche vendette, Di patrio amor, che ne' consessi audaci Della rivolta più fervean, più scherno Scagliavan sui dubbianti e sovra i miti, E più capaci d'affrontar qualunque Parean supplizio, anzi che mai parola Di codardia pel proprio scampo sciorre. Questi eroi da macelli, questi atroci Ostentatori d'invicibil rabbia, Come fur tolti a lor gioconde cene, E gravato di ferri ebbero il pugno, E il patibolo vider, - tremebondi Quasi cinèdi, le arroganti grida Volsero in turpi lagrime e in più turpi Esibimenti di riscatto infame, Altre teste al carnefice segnando. Ad Ebelino in riveder coloro Isfuggì un atto di stupor: - Voi dunque? Voi?... Ma, qual maraviglia? Oh! ben a dritto Io sempre le feroci alme ho spregiato, E ben diceami il cor quali voi foste! Ed appunto perchè troppe vid'io Alme siffatte là nelle congrèghe Ove il mio plauso si cercava indarno, E pochi vidi eccelsi petti, avversi Ad insolenza e a stragi, io mestamente Presentii di mia patria obbrobri e pianto, S'ella sorda restava a' preghi miei, E alle minacce mie, quando insensata Io vostr'impresa nominava e iniqua. I testimoni balbettaro, e fisi Gli occhi loro in Guelardo, il concertato Calunnïar sostennero. Ebelino Più non degnolli di risposta, e chiese D'esser condotto anzi ad Ottone a cui Parlar volea. Respinge inutilmente Guelardo quest'inchiesta, e così forte La ripete Ebelin, ch'un de' seduti A giudicarlo generoso alzossi, Sclamando: - La tua brama, o il più infelice Fra gli accusati, porteranno al trono Le labbra mie. Null'uom potè di quella Anima schietta rattenere i passi: Move all'Imperador, franco gli parla, E il pio monarca inducesi al colloquio. Mentre dunque l'afflitto incoronato Nelle regali, splendide pareti Aspettava che a lui tratto venisse Il già caro Ebelin, nella memoria Gli ritornavan gli alti e numerosi Servigi di quel prode, e l'amicizia Che al magno Otton, suo padre, avealo stretto; E commoveasi ripensando quante Volte quell'Ebelin con tenerezza Lui prence fanciulletto infra le braccia Portato avea, quante paterne cure Prese per lui, quanti affrontati in guerra Per sua difesa ardui perigli, - e il core Gli si volgea a clemenza. Ode sonanti Nelle vicine sale i trascinati Ferri del prigioniero, e gli si gela Di pietà il sangue. E quand'entrare il vede Pallido, smunto, gli si gonfia il ciglio, E magnanimo pianto a stento cela. Ebelin pur commosso era, calcando Con vincolato piede oggi i tappeti, Che tante volte avea con dominante Passo calcati, e intorno a sè veggendo Tanti, che in altro tempo a lui dinanzi S'inchinavan temendo, ovver felici Andavan s'egli a lor stringea la destra, E ch'or s'atteggian contegnosi, e quali A sterile pietà, quali ad insulto. Giunto Ebelino alla presenza augusta, Piegasi reverente, e aspetta il cenno: - Favella, sciagurato: uom con più caldo Fervor non brama tue discolpe. - Sire, La mia innocenza esser dovriati scritta Ne' lunghi intemerati anni ch'io vissi Di tua casa al servizio e dell'onore. In inganno te volto han miei nemici, E me calunnia opprime. - A tue parole Aggiungi prova, e riputato il sommo De' tuoi servigi questo fia da Ottone. - Se a te prova non son gli atti che oprai Alla luce del sol, l'abborrimento Sperimentato mio contra ogni fraude, Contr'ogni ingiusta ambizïon; se nulla A te non dicon queste mie sembianze Imperturbate in così ria sventura, Preclusa è a me di scampo ogni fiducia; Anzi alle leggi mia supposta colpa È attestata abbastanza. Altro non posso Se non gli estremi del mio zelo sforzi In quest'istante consecrarti, o sire, Tai verità parlandoti, che forse Più non udresti, se da me non le odi. - T'ascolto, disse il rege. Ed Ebelino La propria causa obblïar parve, e diessi A svolgere di stato alti consigli, I bisogni quai fossero additando Delle schiere, del popol, dell'altare, De' tribunali, e della reggia stessa: Quali i provvedimenti unici, rotti Ed efficaci ad impedir l'ebbrezza Delle rivolte, a raffermar lo impero: Quali de' prischi imperadori, e quali Del magno Otton le più laudabili opre, E quai le insane; e come arduo ognor sia Seguir le prime e non errare; e come Gli egregi prenci a errar tragge talvolta Adulante caterva. Accennò alcuni Del sir lusingatori, accennò il vile Cangiarsi di Guelardo: e brevi furo Su lor suoi detti, e non degnò que' nomi D'anime basse proferir neppure. Ma que' rapidi detti eran gagliardi, Siccome piglio di paterno braccio, Che sovra l'orlo d'un dirupo afferra Perigliante figliuolo. Otton si scuote. Da verità sì energiche, da senno Sì giusto e luminoso ed esaltante Non era stato mai colpito. In altri Colloqui a' dì felici il buon ministro Parlava il ver, ma forse in più gradita Guisa, sparmiante del suo re l'orgoglio. Ora è il parlar solenne, il grido urgente D'uom, che vicino a morte anco un tributo Di fedeltà solve al monarca e al dritto, Tutto dicendo che giovar del pari Sembrigli al trono e alle regnate genti. Alla beltà del vero e del coraggio, E di quel dignitoso intenerirsi Che da alterezza vien compresso, e pure Nella voce si sente e ne' benigni Sguardi si vede, unìasi in Ebelino Da natura sortita un'armonìa Di nobili sembianze e di contegno, Talchè valor più prepotente dava A sua favella, ed escludea il supposto D'ogni viltà, d'ogni codarda astuzia, E facea forza a Otton. Perocchè Ottone Stranier non era a simpatia per cuori Di grandissima tempra. E fu vicino A cedere, a gettare ambe le braccia Del prigioniero al collo, al gridar: - Falsa Tengo ogni accusa contro al mio fedele! Ma Sàtan vide quell'istante, e spinse Tëofania d'Augusto in cerca. Bella Era la greca donna e di vivaci Grazie adorna, e scaltrissima e pungente Ne' suoi sarcasmi, ed irridea talvolta La bonaria alemanna indol con motti Quasi di spregio; e di quei motti spesso Arrossia Ottone. E perocch'egli amava, L'affascinante sposa, ambia piacerle E far pompa d'accorta alma inconcussa, E a tal cagion solea de' generosi Sensi in cor frenar gl'impeti al suo fianco. Salutata dall'armi, il passo inoltra Fra le colonne di que' regii lochi La incoronata, e stabilisce e freme In vedere Ebelino; e sovra Ottone Lancia quel guardo che dir sembra: - Stolto! Sedur ti lasci? Tanto, oimè, bastava A confondere il sire! Eccol a un tratto Con più severa maestà atteggiarsi Verso il captivo, e dir: - Riedi: a me il vero Tutto paleserassi; e tu, innocente, Gloria n'avrai; prevaricato, morte. Torna Ebelino al carcere, e già scerne Che inevitata è per lui morte. Oh come Lenti di nuovo i dì, lente le notti Volgon per lui! Quel sempre assomigliarsi D'una all'altr'ora, e la perpetua veglia, Ed il perpetuo tenebrore - e i cibi Immondi e scarsi - e l'aspreggiante voce Di questo o quello sgherro - e il frequent'urlo D'altri prigioni disperati, in cupe Vicine volte seppelliti - e il suono De' ceppi loro, e quel de' propri - e il canto Osceno del ladron che, bestemmiando, La forca aspetta - e i gemiti dell'egro Forse non reo che sulla paglia spira - E il sollecito passo delle guardie Che dicono: «È spirato!» - e questo detto Che l'echeggiante corridoio in guisa Ripete orrenda - e il pianto d'un amico Che, udendo il nome dell'estinto, grida Dal fondo d'un covile: «Ahi! gli sorvivo!» - E per dispregio di quel pianto il ghigno Od il sibilo infame di coloro Che trascinano il morto - e, con siffatta Serie d'inenarrabili vicende Di castel, che i perenni affigurava Dell'abisso tormenti, il ricordarsi De' dì sereni che svanìr, de' plausi, Delle liete speranze, e, più di tutto, De' dolci affetti - ah! quella è tale immensa Congerie di dolori e di spaventi, Che dissennar minaccia ogni più forte E sdegnoso intelletto! E se si ponno Da intelletto simil serbar talvolta Contro all'empia fortuna altero scherno, O pensieri di pace e di perdono, E di fede nel cielo, ahi! pur quell'ora Amarissima vien che ineluttata Mestizia il cor miseramente serra, E non v'è chi consoli! Ed altre pari A quell'ora succedono, e d'angoscia In angoscia si cade! Ed un'ardente Smania investe il cervello, ed impazzato Esser si teme o brama! E il generoso Petto chiuder non puossi all'irrüente Piena dell'odio che in lui versan mille Della viltà degli uomini memorie! E feroce si resta, e di sè stesso S'inorridisce e sclamasi: - «Son io, Benchè non conscio di mie colpe, un empio?» E chiedesi all'Eterno, e lungamente Chiedesi invan, d'amore una scintilla! Quelle angosce conobbe anco Ebelino, Ed allora invisibile al suo fianco Sàtan sedeva, e gli pingea coll'arte, Ch'è propria a lui, tutto che meglio ad ira E a disperazïon trarlo potesse. Ed Ebelin pur resistea, e pensava, In mezzo alle sue smanie, all'Uomo-Iddio, Che sublimò i dolori, e fu ludibrio D'ingrati e di crudeli: e quel pensiero, Che insensatezza all'occhio è de' felici, Insensatezza non pareagli, ed alta Storia pareagli che gli oppressi in tutti Lor martirii nobilita; e volgendo Quella storia ammiranda, a poco a poco Ammansava gli sdegni e perdonava. Ma la parte del cor, che più dolente Sanguinava, era quella ove scolpite Stavan due care fronti. Una è la fronte Della madre decrepita che in pace, All'ombra degli altar, da parecchi anni Viveasi in Quedlimburgo, e l'altra è quella Della madre d'Augusto. Ambe le antiche Serrava il chiostro istesso, e raramente Alla reggia venìan; che ad Adelaide Odïosa la reggia erasi fatta Per l'imperar della superba nuora. - Qual sarà stato di mia madre, e quale Dell'onoranda Imperadrice il core, Allorchè udir la mia sventura? Iniquo Esse, no, non mi tengono! Esse almeno, Mentre a tutti i mortali il nome mio In abbominio fia; caro l'avranno! Così geme Ebelino. Un dì, ottenuto La madre alfine ha di vederlo, e scende Alla prigion del figlio. Oh inenarrati Di quel colloquio i sacri detti e i sacri Abbracciamenti! Oh qual pietà! Una madre Che riscattar col sangue suo non puote Di sue viscere il frutto! ed il più amante Figlio che di sua madre, ahimè! in secreto Deplorar dee la lunga vita! Il giorno Che dalla inconsolabil genitrice Fu Ebelin visitato, oh da qual notte Seguito fu! L'espandersi de' cuori Nella sventura, è de' sollievi il sommo; Ma dopo tal sollievo, allor che mesto Il prigionier dalle pietose braccia Di persona carissima è staccato, E solingo riman, quanto più dura Gli è solitudin! Quanto più affannoso Il desiderio de' bei tempi in cui Fra gli amati vivea! Quanto più viva, Più lacerante la pietà ch'ei sente Di sè stesso e d'altrui! Me a tal dolore Stranier non volle il Cielo, e in ripensarti, O decennio del carcere, infiniti Strazi ricordo, ma il più acerbo è forse Quand'io, abbracciato il genitor, partirsi Da me il vedea; quand'io, calde le labbra, Del bacio suo, dicea: - Questo è l'estremo! Non un decennio, ma più lune ancora Durar gli allarmi d'Ebelino. Ei forse Nel giudizio di Dio gli accusatori Sperava iniqui col possente acciaro Düellando atterrar. Chi d'Ebelino Avea la forza e la destrezza? E quanta Forza o destrezza in düellar non dona Senso d'intemerata anima offesa! Ma tai giudizi Iddio forse abborrendo, Non volle che sancito il reo costume Per Ebelin venisse; o del demonio Opra fu l'impedirlo. Il pestilente Aere del carcer nell'oppresso infonde Maligni influssi, ed eccolo abbattuto Da insanabili febbri. Il derelitto Pur talvolta illudeasi, immaginando Che alcun de' tanti, su cui sparsi avea Suoi benefizi, or con repente mossa D'onore e gratitudin s'offerisse A combatter per esso: - attese indarno. Spunta il dì della morte, ed Ebelino Vien tratto innanzi a' giudici; e Guelardo La sentenza gli legge! Il condannato Udì, chinò la fronte, e rese grazie Tacitamente a Dio che al sacrificio Termine alfin ponesse; e bramò ancora Una volta veder la genitrice. Venne l'antica, e insiem si consolaro Con nobil forza alterna, e con alterne Religïose cure. Ella ed un pio Ministro del Signor soli eran consci Dell'innocenza d'Ebelin. Veloce Scorre quel sacro tempo, e omai gl'istanti Sovrastan del patibolo. Umilmente Prostrasi ancora innanzi al sacerdote Il giusto cavalier; quindi si prostra Anzi alla madre, ed ella il benedice, E si dividon sorridendo, e in cielo Riabbracciarsi in breve speran. Move Per le vie tra i carnefici, agguagliato Al più vil masnadiero, e contro a lui Insane urla di scherno alzan le turbe. Di quegl'inverecondi ultimi segni Dell'odio altrui stupìa, ma per le turbe Egli pregava. Ed arrivato al palco, Con fermo passo ascese, e parlar volle; Ma sue parole non s'udir, sì orrendi Vituperi sonavano. Ed allora Accennò egli medesimo al percussore, E siede sullo scanno, e tosto il collo Mise sul ceppo - e la mannaia cadde! L'angiol della calunnia, abbenchè indurre Non avesse potuto alla bestemmia Il retto cavaliere, e or si rodesse Invido i pugni, l'alta anima a Dio Salir veggendo - audacemente «Ho vinto!» Volea sclamar. Ma pria che la menzogna Intera uscisse dell'infame petto, Piovver dal cielo i fulmini, e il bugiardo Spirto ravvolser negli eterni abissi. Ov'è il Giuda novel? - Perchè perduto Delle guance ha il vermiglio, e la baldanza Della voce e del guardo? - E perchè al riso Che da Tëofania volto gli è spesso Non ride, e gli occhi abbassa, o spaventato Mira a destra e sinistra? - E perchè a sera, Se in luoghi oscuri passa, affretta il piede A illuminata parte, e ansante giunge Quasi inseguito fosse? - E perchè cerca Talor per via i mendici, e su lor versa A piene mani l'oro, e di lor preci L'aiuto invoca, e inefficaci poscia Di quei le preci ei furibondo chiama? - E perchè ne' festini alcune volte Cionca e sghignazza, e intrepido si vanta Contro a tutte paure, e quando a letto Va nell'ebbrezza, trema ed urla, e al fido Servo chiede il cilicio e se lo cinge? Pentimento ei bramava, e scellerata L'alma era fredda, e a pentimento chiusa. Un dì, colui con altri sommi duci Passò a fianco d'Otton sovra la piazza, Ove ancor d'Ebelino ad alto palo Vedeasi infisso il teschio. Il traditore Volea finger letizia, e le pupille Miseramente stralunava, e insieme Forte i denti batteangli. Ottone il guarda, E vacillar sovra l'arcione il vede, E a sostenerlo accorre. - Oh! che ti turba? Oh! che ti turba? Gli ripete. - È desso! Sclama Guelardo, il mio tradito amico! Chi dal giusto immolato mi sottragge? E prepotenza di rimorso invitta, Ma non pia, lo costringe. Ei maledice E terra e ciel, ma l'alto arcano svela. Folto drappello d'ottimati, e folta Moltitudin di volgo al confessante Fa cerchio, e inorridisce a sue parole, Tutta imparando la esecrata istoria. Da tanti petti universal s'innalza Un lamento: - Oh sventura! oh atroce colpa! Il caduto Ebelino era innocente! Ed Otton più che gli altri inconsolato Raccapricciando grida: - Oh me infelice! Era innocente, e trarre a morte il feci! Il traditor nel suo sangue stramazza. Qual mano il colpo diè primier? Mal puote Fama saperlo. I più disser che ratto Un ferro in cor si configgesse il tristo, Altri che Otton percosselo. Il tumulto Ferve con rabbia orrenda. In cento brani Ecco lacero, pesto, annichilato Il cadavere infame. E s'inchinaro D'Ebelino anzi il teschio e imperadore Ed ottimati e popolo, e nel tempio Dato fu loco alla reliquia santa. Alto clamor di giubilo e di rabbia Rimbombò nell'inferno, al piombar quivi Il traditor, ma sol menonne festa L'abbietta e sciocca de' demonii plebe: Il lor superbo re, poste con ira Su Guelardo le luci e le calcagna, Urlò: - Che gloria alma sì vil mi reca!
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