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Silvio Pellico Poesie scelte IntraText CT - Lettura del testo |
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II.
Or da quel giorno d'ineffabil lutto Rivolgiamo la mente oltre a sei lune, E la mesta mia cantica, i solinghi Pianti dell'orbo vecchio e di sua figlia Commiserando, svolga altra vicenda. Era una sera: alle vetuste mura Del baron s'appresenta un fuggitivo, A cui ferite e febbril sete esausta Miseramente avean la voce. Aroldo Piena di vino gli mandò una coppa Con questi detti: Al focolar t'accosta Sin che apprestata sia la cena, e al sire Perdona del castel s'ei di sue stanze Non uscirà, dove cordoglio il tiene. Clara portò que' detti, e il fuggitivo Che al maestoso inceder cavaliero Parea e mendìco a' finti panni, il volto Pria si coverse, indi con pronti passi Balzar tentò fuor della soglia, a guisa Di mortal che, caduto in impensato Orribile periglio, aneli scampo. Ma nella mossa impetuosa a lui Manca il fievole spirto, e piomba a terra. Clara il soccorre, il mira, ed alla negra Ricciuta barba e al crine ella il ravvisa. Chi era? Chi!... Manfredo! il già possente Desolator della sua patria! il ladro Che alla corona del nepote osava Stender la man sacrilega, e sul capo Inverecondo imporsela, e i diritti Calpestar più sanciti, e di Saluzzo Dirsi benefattor, serva a stranieri Brandi facendo la natìa contrada! Fortuna alfin l'abbandonò: fuggiasco Da compiuta sconfitta è l'empio sire, E per sottrarsi agl'inseguenti ferri Ei s'è imboscato in varii lochi, e ignote Calcò deserte rupi. Indi pel sangue Nella pugna perduto e per la rabbia Gli s'era da brev'ora intorbidato Sì fattamente il lume del pensiero, Che mal sapea dov'ei movesse, e giunto Era ai campi d'Aroldo altra credendo Sponda toccar. Qui più dal dolce tempo D'adolescenza riportate mai Non avea l'orme, ed alberi e tugurii Mutato avean l'aspetto della terra. Sol quand'ei vide Clara, appien le soglie Raffigurò d'Aroldo, e se bastata A lui fosse la possa, ei rifuggìa. Manfredo! e senza guardie! e semivivo, Sotto il tetto dell'uom cui trucidato Non in battaglia, ma in supplizi ha il figlio! Clara il conosce, e mentre a lui gli spirti I famigli richiamano, ella corre Alle stanze del padre, e già già quasi A lui così sclamava: - Esci, un prodigio Ad ammirar del Dio delle vendette: Sull'ossa di tuo figlio a spirar viene Il suo assassin! Ma in quell'istante gli occhi Della donzella alzaronsi a parete, Onde pendea dell'Uomo-Dio morente Effigie veneranda, e a quella vista L'irrompente parola in cor rattenne. Religïoso fremito la invase Dinanzi a quell'effigie. - Oh mio Signore! Quai voci arcane alla tua ancella parli? Tu irreprensibil fosti e sì infelice! E a quei che l'uccidean pur perdonavi! Or chi sa? Forse il dolce mio fratello Pe' falli suoi fuor dell'eterna reggia, In carcer sotterraneo, o d'inquieti Elementi per l'alte aure ludibrio Sta ancor penando, e a liberarlo vane Fervon le preci, e in loco d'esse un atto Di virtù nostra è d'uopo! O fratel mio! Forse quest'atto or chiedi. Ah, virtù somma È il perdonar! Cert'è che in cielo entrando Tu perdonar, tu e noi, tutti dobbiamo Come a noi perdonato ha il Redentore! Ma padre è Aroldo: esser maggior potrìa Delle forze d'un padre il dare aïta D'un caro figlio all'uccisor. La lancia Ei no giammai non bagnerìa nel sangue D'uom che toccò la mensa sua... Ma pure Chi può segnar dove talor trascorra Nella foga dell'ira un core offeso? Chi mi consiglia? Ah tu; gran Dio, tu solo! Disse, e prona curvossi, e lungamente Con ambascia pregò. Temea d'orgoglio Esser tentata; innanzi a Dio temea Calunnïar la santa alma del padre. Ma nella mente repentino un raggio Di fidanza pienissima le splende, E ratta sorge e dice: - Ah sì, fratello! Questo è il momento in che del ciel la porta A tue brame si schiude: io di tua gioia Sento il reflesso, e quella gioia è Dio! Un servo entrava: - Damigella, o carco D'inaudite peccata, o fuor di senno È lo stranier. Che far dobbiam? D'Iddio Parla tra sè com'uom cui prema occulto Di vendette terribili spavento, E di qui vuol fuggir. - Tosto bardata Per lui sia mia cavalla. Il servo parte Maravigliato, ed obbedisce. Intanto Antico armadio la fanciulla schiude, Ed indi tratto un de' paterni manti, Al leve suo tesor poscia s'affretta D'auree monete, e in una borsa il pone. Così ver l'agitato ospite mosse, E que' doni offerendogli - D'Aroldo Questa, gli disse, è la vendetta, o sire. Fremea la generosa in lui mirando L'uccisor di Ioffrido e il formidato Di Saluzzo oppressor, ma pïamente Frenò il ribrezzo, e dal balcon la corte Del castello accennando, a lui soggiunse: - Ecco a' tuoi cenni un corridor: se lena Ti basti, fuggi, e t'accompagni il cielo! Clara sparve, ciò detto. E l'infelice Tiranno - Angiol! gridò. - Poi diè dal core Uno scroscio di pianto. Ed allor forse Pentimento verace a lui fu strazio, Le proprie atroci colpe rammentando, E rammentando il giovine Ioffrido, E quel misero cieco che appoggiato Ad un alber credeasi, e gli grondava Sovra la testa, ahi, di suo figlio il sangue! Frettoloso Manfredo i doni tolse; L'inaudita pietà benedicendo, D'Aroldo cinse su le spalle il manto, E quindi a pochi tratti il vide Clara Dalla fenestra, che, al cortil venuto, Con sembiante commosso intorno intorno Iva gli occhi volgendo, e verso il cielo In atto di preghiera ergea le mani, Poi le briglie toccava ed era in sella. Fermato ivi un istante, ad alta voce Mise queste parole: - Aroldo! Aroldo! Tu sol Manfredo hai vinto. Io del perduto Seggio e de' vituperi onde vo sazio, Consolarmi potrò; non potrò mai Consolarmi d'aver tua nobil alma Col più truce rigore insanguinata. Udì il vecchio baron quel forte grido, E balzò dalla seggiola esclamando: - Figlia! il nemico nostro! il maledetto Uccisor di Ioffrido! E sul rugoso Pallido volto del canuto il foco S'accese del furore. A' piedi suoi Clara gettasi allora, e gli palesa Ciò che d'oprar le ispirò Iddio. - No, Iddio Questo non t'ispirò! prorompe Aroldo; Manfredo è un empio! ei di dominio sete Portò infernal su queste invase terre, Che al suo nepote, a lui sovrano, tolse! Infame della patria e del suo prence Manfredo è traditor. Per sollevarsi Sulla sede non sua, trasse alleati E Provenzali e Càlabri e venduti Guelfi di tutta Italia allo sterminio De' nostri feudi e delle nostre plebi, E incenerì Saluzzo!... e il figlio mio, Il figlio mio su scellerata croce A' carnefici suoi diede bersaglio! Lunga e tremenda di rammarco e d'ira Fu l'eloquenza dell'antico. A lui Clara abbracciava le ginocchia, e santi Detti porgea con supplice dolcezza: - Le iniquità punir sol puote Iddio; Noi non possiam sul misero fuggiasco Punirle coll'acciar: solo a punirle Una guisa n'è data, ed è il perdono. Càlmati, o genitor; pensa che o degno Per penitenza diverrà Manfredo, O, rimanendo iniquo, a lui carboni Saranno inestinguibili sul core, Giusta il dir dell'Apostolo, i rimorsi E fra l'alme perverse il danno eterno. A Dio il giudicio! a noi l'umil dolore, E il benefico palpito e l'eccesso Della pietà non sol sugl'innocenti, Ma pur sui rei, perocchè tutti d'uopo Del perdono di Dio morendo avremo! - Oh mia figliuola! sclama alfine Aroldo, Ti benedico; santamente oprasti! L'alza, al petto la stringe, e lagrimando Mercè le rende che alla prova il senno D'esacerbato padre ella non mise. Un dì alle torri del baron fu visto Giungere di Manfredo un messaggero Da lontana contrada, e apportatore Venìa di ricchi doni. Eran tre lune Che pace avean l'ossa d'Aroldo, e muto Era il castello, ed in vicino chiostro Cinta di sacre lane, i dolci salmi L'orfana, per la cara alma del padre E del fratel, tutte le notti ergea.
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