Il convegno dei sette peccati
Nel palazzo
della Superbia, eretto sopra un'altura che dominava tutte le case circostanti,
un guardaportone in gran livrea introduceva gli invitati i quali dovevano genuflettersi
e fare atto di deferenza fin dalla soglia, poi attendere che Sua Maestà si
degnasse riceverli; e questa attesa trascorreva in una galleria mobiliata di
alti specchi destinati a riflettere, moltiplicandolo all'infinito, lo stemma di
famiglia, la cui origine risaliva nientemeno che a Lucifero, e che si adagiava
fra leoni rampanti ed aquile romane al di sopra di ogni specchio.
Prima ad
arrivare fu la Gola, dal viso rubicondo e dagli occhietti lustri. Ella chiese
subito se vi sarebbe stato trattamento e senza aspettare la risposta gonfiò le
narici per cogliere nell'aria qualche buon odore di cucina. Era vestita in modo
bizzarro ed appetitoso con una gonna succinta di un bel roseo tenero in
gradazione di carne di aragosta e le cingeva la vita senza serrarla un
corsaletto di velluto color tartufo bruno con guarnizione di piccoli gamberi di
corallo. Una gorgiera trasparente di una tinta indefinibile tra il petto di
tortora e il brodo di tartaruga le si allacciava intorno al collo rotondo,
tenuta ferma da un largo topazio somigliante ad una gelatina d'arancio. Penduli
da un braccialetto si cozzavano tra loro tre porcellini d'argento; le calze
aveva di seta finissima nella intonazione delicata delle squamme di trota e
sopra questa deliziosa piramide troneggiava un cappello a larghissime tese
cariche di ciliegie, d'uva, di ribes, con due penne di fagiano e una testa di
pappagallo. Sedette, e per non perder tempo trasse da una sacca che aveva
portata con sè «fondants», gianduiotti e «marrons glacés».
Venne seconda
una splendida donna che al solo apparire fece correre un fremito nella schiera
dei valletti ossequienti al suo passaggio. La sua entrata nella galleria degli
specchi parve un soffio del caldo vento di Oriente pregno dei succhi delle rose
di Teheran; la superficie dei cristalli si appannò riflettendo la sua bellezza
come una guancia di efebo che si copre di pudibondo rossore ai primi assalti
della voluttà.
- Buon giorno
Lussuria, - disse Gola andandole incontro, - ti sei fatta bella assai per il
convegno.
Sorrise
l'altra, senza rispondere, coi denti candidi fra le labbra sanguigne; e
trascinando in morbide onde il lunghissimo strascico dell'abito marezzato di un
verde smeraldo con fondi cupi di giaietto, raggiunse l'unico divano e vi si
adagiò in posa molle. Le ampie pieghe della stoffa si distesero intorno a lei
quasi sorreggendola in un amplesso; un profumo acuto corse per l'aria. La donna
chiuse un istante le palpebre nell'attitudine di assaporare una sua intima
ebbrezza e sollevando il seno con profondo respiro fece scintillare sulle carni
nude un bizzarro amuleto incastonato fra vividi rubini che parevano goccie di
sangue. (Ella aveva anche impressa sul dorso una maschera schifosa dalle
occhiaie purulenti, ma non si poteva vedere se non quando si voltava; per
questo non si voltava mai).
- Quanto sei
bella Lussuria! - ripetè Gola, sempliciotta e ciarliera.
Un gran colpo
intanto fece sbattere l'uscio e parve che una fiamma l'avvampasse. Ma non era che
una personcina vestita di rosso, agitata e sbuffante, coi capelli in disordine
e gli occhi di bragia.
- Come! -
esclamò, - non è ancora riunito il Consiglio? Non sono tutte pronte le sorelle?
Dovrò io aspettare a lungo? Superbia si prende forse giuoco di noi?
- Calmati
sorella Ira. Non sono giunte tutte ancora, è vero, e Superbia sta a dare
l'ultima mano alla sua toeletta. Ma c'è tempo.
- Io non ho
mai tempo. Io ardo, brucio, investo, distruggo. L'ozio e la calma mi sono
insopportabili. Io l'ho anche con te, Lussuria, che stai a poltrire fra i tuoi
profumi invece di correre per il mondo in cerca di lotta. Vuoi che ci battiamo
noi due intanto che si aspetta?
- Mille
grazie, - rispose Lussuria accarezzando la testa di un serpentello d'oro che le
formava cintura -; ben altre sono le mie battaglie.
- Sorelle,
per carità, - mormorò una voce chioccia dietro la portiera, - chi di voi mi può
prestare qualche lira per pagare il nolo della carrozza? Sono stata sorpresa
dalla pioggia in mezzo alla via ed io non ho mai denaro con me, lo sapete, sono
povera.
- Entra,
Avarizia, entra, pagheremo noi.
Si presentò
Avarizia, vecchia, sbilenca, vestita di nero, colle mani rugose senza guanti,
con un cappello di forma e di stoffa indecise per poter servire in tutte le
stagioni; aveva i chiodi sotto le scarpe e un randello sotto il braccio che le
serviva ad allontanare i mendicanti ed i cani.
Un'altra voce
dietro a lei implorò subito:
- Tienimi
sollevata la portiera, sorella, affinchè possa entrare anch'io. Sono
orribilmente stanca per la fatica di aver salito le scale.
- Vieni,
Accidia, - disse Lussuria accompagnando l'invito con un grazioso movimento del
braccio, - vieni amata sorella, ti farò un posticino su questo divano,
bertuccia mia, còccola mia, vieni!
- Ah! -
rispose Accidia lasciandosi andare sulla prima sedia accanto all'uscio, - sei
troppo distante. Le forze non mi reggono.
Avarizia si
accostò alla nuova venuta e palpandole colle dita adunche la stoffa dell'abito
disse:
- Cospetto,
che ricami! Devono esserti costati caro.
- Non lo so,
non mi ricordo.
- È argento
fino?
- Credo bene.
- Quando
smetti questo abito lo vuoi dare a me?… Eh? Ne farò qualche cosa.
Accidia
percorse con uno sguardo indifferente i ricami argentei del suo vestito che
rappresentavano leggiere e soffici ragnatele sulla stoffa di crespo bianco.
Elegantissimo vestito, a cui per altro cadeva qualche sbrendolo qua e là, ed
era insozzato sul lembo estremo da numerose pillacchere dovute alla nessuna
cura che si prendeva la sua proprietaria di sollevarlo quando attraversava un
posto sudicio.
- Ci siamo
tutte? Andiamo? - disse Ira la quale non aveva voluto sedersi e passeggiava
agitata in su e in giù.
- Manca….
Ma la frase
fu troncata da un domestico che annunciò:
- Sua Maestà
attende le loro signorie.
Rapida fu Ira
a balzare all'uscio, seguita da Lussuria che snodò ancora sul pavimento lo
strascico sinuoso della sua gonna marezzata di verde smeraldo con fondi cupi di
giaietto. Gola veniva appresso sorreggendo Accidia sotto le ascelle e Avarizia
se ne stava qualche passo indietro rovistando il suolo cogli occhi acuti e
colla punta del randello per vedere se qualcuna delle sorelle avesse lasciato
cadere una bazzecola qualsiasi.
Introdotte
nella gran sala d'onore rimasero quasi acciecate dallo sfolgorio del trono sul
quale stava rigida ed immobile Superbia, vestita con un magnifico abito di raso
giallo lucente come oro fuso, recinto il collo di perle che le scendevano fino
ai ginocchi, sparsa la persona di brillanti, di topazi, di rubini, di zaffiri,
di smeraldi, cariche le dita di ogni sorta di gemme e la fronte altera chiusa
in un diadema di stelle.
- Buon
giorno, sorelle mie, prendete i vostri seggi. Scade oggi il mio turno di regno
e dobbiamo nominare quella di noi che regnerà l'anno prossimo.
Lussuria si
adagiò al posto d'onore, alla destra del trono, sorridendo coi denti candidi
fra le labbra sanguigne.
- Grande è la
nostra responsabilità, o sorelle, - continuò Superbia appoggiando la destra
gemmata sopra uno scettro d'oro sormontato da una bestia favolosa, metà drago
metà leone, cogli occhi di carbonchio -: noi assistiamo giornalmente alle
conquiste davvero meravigliose che il progresse compie in tutti i rami. Dalla
scienza alla legislatura, dall'arte alle più umili manifestazioni della vita
tutto avanza, si svolge, si arricchisce. Ogni giorno ci dà una conquista nuova,
ogni secolo ci presenta a gara invenzioni e scoperte, ed ogni invenzione ed
ogni scoperta nuova mentre da una parte ci inorgoglisce sta pure a dimostrare
da quanta imperfezione, da quanta insufficenza, da quanta manchevolezza siamo
usciti. Solo il peccato non ha cambiato mai. Pensate: il progresso non ha
saputo trovare un peccato di più! Ciò prova la nostra forza. Noi siamo al
completo. E poichè nessun peccato è stato tolto, nessuno aggiunto, a noi che
sempre fummo e sempre saremo, spetta di essere chiamate le Immortali.
Annuirono le
sorelle con un modulato sussurro che dimostrava la loro soddisfazione.
- È d'uopo
per altro riconoscere, - aggiunse Superbia girando intorno l'occhio sfavillante,
- che io sola ho saputo fino ad ora tener alto il prestigio della nostra
famiglia. Tu sei bella, Lussuria, ma io sono più bella di te e coloro che tengo
stretti non si accorgono neppure de' tuoi vezzi. Nè tu Gola, nè tu Accidia, nè
tu Avarizia potete illudervi di arrivare neppure a'miei calzari. Tu poi Ira mi
fai ridere colle tue furie irriflessive….; sta cheta, non agitarti, tanto non
mi spaventi. Ma vedo che sarà difficile trovare in mezzo a voi la persona degna
di succedermi.
Rizzandosi
sul busto morbido che si atteggiò in un movimento felino Lussuria prese la
parola con voce velata e bassa:
- Io faccio
dell'uomo quello che voglio; lo plasmo, lo trasformo, lo imbestialisco; oppure
lo maciullo come stelo di canapa in tutta la sua carne fino all'osso; oppure mi
attacco alla sua intelligenza che sotto il soffio delle mie labbra si spegne a
poco a poco; e lo dilanio, e lo struggo finchè ridotto vil cencio muore nella
morsa delle mie braccia. Nè basta, chè il veleno inoculato co' miei baci discende
nelle stirpi e le attossica alle sorgenti. Io sono la lonza dai fianchi agili e
dalla bocca crudele. Sono in una parola la Sterminatrice!
Un silenzio
appassionato accolse le dichiarazioni della bellissima donna. Ognuno sentiva
che lo scettro del potere sarebbe toccato a lei. Tuttavia facendosi innanzi con
discreta audacia Gola volle anch'essa pronunciare il suo discorso:
- Per essere
meno violenti di quelli di sorella Lussuria i miei mezzi di distruzione non
sono meno efficaci e più lunga è la mia opera sugli uomini giacchè li prendo
dalla culla e li posso dominare fino alla più tarda età. È ben vero che da
qualche tempo quella pettegola di Igiene non fa altro che mettermi dei bastoni
nelle ruote, ma io me ne rido, oh! se rido!…
La vecchia
Avarizia movendo verso il trono a brevi passi sospettosi prese a sua volta la
parola:
- Ecco, io
non aspiro all'alto onore di essere nominata regina dei peccati, molto più che
vi sarebbero certamente delle spese di rappresentanza e sono così povera così
povera che vi farei sfigurare tutte. Però se quella che sarà assunta al potere
vorrà gratificarmi di una modesta pensione, avuto riguardo alla mia età ed alle
mie disgrazie, non credo di esserne immeritevole. Quanto bene io impedisco nel
mondo! Senza strepito e senza scandali lascio marcire nella miseria
innumerevoli persone, intralcio opere, faccio abortire progetti grandiosi,
disprezzo l'arte e la poesia che soffocate dal soffio gelido della mia mano si
raggrinzano e cadono al pari di frutti bacati. Ben sta a sorella Lussuria il
paragone della lonza. Io sono il tarlo. Ciascuno fa quello che può.
- E tu
Accidia non dici nulla? - chiese la sedente in trono.
- Ah!
lasciatemi stare, parlare è una ben grave fatica. E poi è tutto così inutile!
L'ozio solo è bello.
- Eppure devi
contribuire anche tu al fasto del nostro nome. Non si può essere peccati se non
si fa qualche cosa.
- Scusa,
sorella, non hai forse mai approfondita la mia missione nel mondo. Colla mia
apparenza insignificante fo degno riscontro a sorella Avarizia; se ella è il
tarlo che rode io sono l'acqua cheta che mina e ti so dire che ben molti ponti
sotto i quali passarono trionfanti le fiumane dei secoli stanno per crollare in
grazia mia. Chi vivrà vedrà. Ho detto.
- Ed io! Io!
Io! Perchè non mi interroghi? - gridò Ira sollevando in ventate di rabbia il
suo abito fiammeggiante.
- Taci,
ragazza. I tuoi meriti come peccato sono considerati appena dai sacerdoti in
confessione. Nel mondo non fai male abbastanza. Ora procederemo alla nomina
della nuova regina. Ma che vedo, sorelle? Che è mai quella specie di fumo che
entra dalla fessura dell'uscio?
- È forse
nebbia.
- Pare un
velo.
- Pare un
cencio.
Una
indistinta massa cenerognola strisciando di sotto all'uscio si avanzava pian
piano, cresceva, ergendosi, e prendendo definitivamente forma e consistenza di
donna si pose ritta dinanzi al trono.
- Ah!
Invidia, povera Invidiuzza, ti avevamo dimenticata.
- Lo so, è
quello che fate sempre. Ognuna di voi pensa e agisce come se io non esistessi.
Amarissima
suonò la voce della nuova venuta, la quale chinandosi con ironica umiltà a
baciare la mano di Superbia trovò modo di sputare senza essere vista sullo
strascico di Lussuria. Ed era la più brutta delle sette sorelle, più brutta di
Avarizia, benchè più giovane. Piccola, sparuta, dalla magrezza rachitica e
viziosa, sulle sue guancie livide i desideri insoddisfatti e urlanti avevano
scavato quasi una fossa; la sua bocca pieghevole alle basse adulazioni temprava
nello stesso tempo la freccia avvelenata e i suoi occhi, dei quali uno era di
vetro, avevano il sinistro bagliore degli occhi dello sciacallo vagolante
intorno ai cadaveri. Sull'abito meschino di color bigio portava false perle e
gemme di vetro sfacciatamente luccicanti.
- Come mai, -
disse Gola grassa e senza malizia, - hai potuto passare nella fessura
dell'uscio?
- Io
striscio, raspo, gratto, lecco, mi schiaccio, mi assottiglio a piacer mio. È
uno dei miei mezzi per penetrare dove voglio. Sono arrivata tardi perchè ero in
giro d'affari.
- Dove?
- Nel mondo.
Così dicendo
scoperse una face che teneva nascosta sotto la gonna e l'agitò per l'aria.
- Questa è la
face della Discordia! - esclamarono insieme Superbia ed Ira.
- Appunto. Io
me la faccio prestare sempre quando mi reco nell'uno o nell'altro luogo; con
essa accendo le fantasie degli uomini dove già deposi il fermento infiammabile
dell'odio. Voi quante siete agite con mezzi limitati sopra una categoria di
individui ciascuna; il mio dominio invece è universale, perocchè io posseggo
una parte dell'anima di ogni essere vivente così che il superbo, il lussurioso,
l'avaro, il ghiottone, l'accidioso, l'iracondo mi appartengono a loro insaputa
e mentre ognuno di costoro avrà uno dei peccati che voi rappresentate il
peccato mio è in tutti.
- Oh! - fece
Superbia aggrottando le ciglia.
- Da questo
medesimo posto dove noi sorelle siamo riunite non ho che a scatenare il mio
dèmone per vedervi tutte l'una contro l'altra. Tu per la prima, Superbia,
invidii le belle forme e il sorriso incantatore di Lussuria.
La donna in
trono si morse le labbra per dispetto. Invidia che la guardava col suo occhio
unico torbido, mentre l'occhio di vetro riluceva sinistramente, continuò:
- Voi vi
saziate qualche volta, io mai. Io sono la lupa dal ventre concavo e dalle fauci
bramose che gira sempre in cerca di preda. Non udite i sordi rumori che salgono
da ogni parte del mondo? Io sollevo i popoli come voi sollevate una festuca.
Qualunque arma mi serve; perfino la Verità che so violentare e condurre a' miei
fini, perfino l'Innocenza che accieco e della quale mi faccio scudo. Chi rompe
le amicizie, chi disunisce le famiglie, chi mette in guerra i popoli, chi
insidia il trono dei re? Io. Vedete quelle case silenziose, quegli austeri
conventi dove nel nome di Cristo stanno riunite tante pie suore, tanti
religiosi fratelli? Essi hanno rinunciato alle tue pompe o Superbia, alle tue
tentazioni o Lussuria ed alle tue o Gola; essi dànno un pane a chi non ne ha e
la regola vieta loro di essere oziosi ed iracondi. Sono soli con Dio. Una
ferrea porta ingraticciata li divide dal resto degli uomini…. Ma io penetro,
io, il peccato universale!
Un brivido
corse nell'assemblea fatta muta e tremante.
- E coloro
che si chiamano figli delle Muse, questi esseri ideali che si pascono di poesia
e di fantasie leggiadre, grandissimi talvolta, talvolta assurgenti alle più
alte questioni che preoccupano l'umanità, aquile librate sopra le miserie
terrene, vedeteli, vedeteli questi superuomini, pallidi in volto del mio
pallore, denigrarsi a vicenda e colpirsi alle spalle con zanne di tigre. Quale
grandezza io rispetto? Quale sentimento mi arresta? Quale tradizione mi unisce
a' miei simili? Io rinnego tutto e tutti.
Le sei
sorelle si strinsero insieme intorno al trono con un movimento pauroso, tanto
era bieco l'occhio unico di Invidia e l'altro, l'occhio di vetro, mandava
riflessi gelidi di morte.
- Ah! voi vi
amate? - rauca e cavernosa era la voce di Invidia, scosse le membra da un
tremito febbrile, mentre soffiava in volto alle sorelle l'alito impuro. - Voi
credete ancora ai vincoli del sangue? Guardatemi, prostratevi dinanzi a me,
riconoscetemi per vostra regina. Io vi odio!
Tacita,
Superbia discese dal trono, si tolse il diadema di stelle e ne cinse il capo di
Invidia, allentò lo scettro e lo pose nella destra di lei, poi chinandosi al
baciamano di rito, mormorò fra il silenzio sbigottito delle sorelle:
- Cedo a te
le insegne del potere e ti riconosco regina dei peccati.
Rapidamente
Avarizia raccolse da terra le gemme false che Invidia, ascendendo in trono,
aveva lasciate cadere.
|