In qual modo Pinotto divenne uomo libero
Coloro che
conoscono Giacomo Gondi conoscono anche Pinotto. È impossibile che non
rammentino la sua figura tozzotta, bassotta eppure svelta, i suoi capelli duri
e ritti pari alle setole di una spazzola, i suoi occhi grigi e leali, buoni ed
anche un cotal poco spiritati come se un folletto di dentro vi si affacciasse
tratto tratto ad accendervi un pizzico di pece greca.
Fino a poco
tempo fa gli amici di Giacomo Gondi quando andavano a trovarlo pregustavano
fuori dalla soglia l'onesto compiacimento di vedere la faccia sorridente di
Pinotto mentre diceva con una frase quasi invariabile:
- Resti
servito, il mio padrone scrive ma la vedrà volontieri.
Era un'idea
fissa di Pinotto quella di credere che il suo padrone scrivesse sempre. Secondo
lui, per riempire tante colonne di gazzette, tante pagine di volumi, occorreva
scrivere senza respiro. E se introduceva con gentile premura i visitatori c'era
forse in fondo alla sua cortesia un retropensiero, sia pure vago ed incerto, di
portare un po' di sollievo a quel terribile scribacchiatore; perchè Pinotto
aveva buon cuore, bisogna convenirne; anche se altre facoltà scarseggiavano in
lui, sarebbe a dire criterio, prudenza, senno, il suo cuore era buono, il suo cuore
era largo, tanto largo che da vero ingordo ingoiava tutto.
È noto il
simpatico accordo che da parecchi anni univa queste due creature rendendole
vicendevolmente felici. Se Pinotto risparmiava al suo padrone la briga di
occuparsi delle piccole faccende del suo appartamentino da scapolo servendolo
con intelligenza e con onestà, è pur vero che Giacomo Gondi chiudeva facilmente
un occhio sugli stivali mal lucidati o sul caffè troppo lungo, e se pure gli
accadeva di dover riprendere Pinotto, lo faceva con perfetta carità di simile,
ricordando a tale proposito il motto di Sterne: «Basta che nella faccia di un
povero diavolo io legga questa espressione dolente: eccomi, sono tuo servo, per
sentirmi subito disarmato».
Giacomo
Gondi, per quanto fosse di professione letterato, aveva ottimo stomaco e non
era punto fegatoso. Non soffriva nè di dispepsia nè d'invidia e sapeva
sorridere persino nel momento tragico in cui due direttori di giornali gli
scaraventavano addosso contemporaneamente questi due quesiti: «Credete voi
all'immortalità dell'anima?» - «Quale è la vostra opinione sui cappelli delle
signore a teatro?» Evidentemente non si trova in tutta la repubblica letteraria
un carattere migliore di quello di Giacomo Gondi. Pinotto era il primo a
riconoscerlo.
Quanto a
Giacomo Gondi, inveterato ottimista, si era a poco a poco persuaso di avere
risolto in piccolo uno dei più gravi problemi che tormentano l'umanità. Egli
pensava: io ho bisogno di Pinotto e Pinotto ha bisogno di me; egli mi serve con
amore ed io lo tratto con amore; i nostri interessi sono così vicini che ne
formano uno solo. Quello di noi due che sopravviverà all'altro gli chiuderà gli
occhi in pace e il morto potrà essere sicuro che almeno una lagrima sincera
sarà caduta sulla sua fossa. Pensando tali cose Giacomo Gondi si commoveva
davvero.
Ma, non so se
qualcuno se ne sia accorto, da qualche tempo Pinotto era cambiato. Quando
apriva l'uscio agli amici del suo padrone non lo faceva più con quel garbo
simpatico e sincero che gli accaparrava tutti gli animi: sorrideva meno;
interpellato, rispondeva con una bruscheria e un disdegno affatto insoliti.
Invece della frase sacramentale: - Resti servito, il mio padrone scrive ma la
vedrà volontieri, - il più delle volte non parlava accontentandosi di accennare
colla mano tesa l'uscio dello studio.
Anche in
casa, col suo padrone, si era fatto torvo e concentrato.
- Pinotto,
cos'hai? - gli chiese un giorno Giacomo Gondi mettendogli una mano sulla
spalla.
- Oh! mi
lasci stare, ognuno ha i propri pensieri, - rispose Pinotto con una scrollata
che lo liberò dalla mano amichevole.
E un altro
giorno essendo stato fuori per una commissione un'ora buona oltre il
necessario, Giacomo Gondi osservò che già altre volte si era assentato così senza
apparente motivo lasciandolo inquieto e che lo pregava quando volesse andare a
spasso per suo conto di avvertirlo, almeno, per sua regola. Alle quali parole,
dette con accento conciliativo, Pinotto non si peritò di contrapporne altre
violente ed aggressive, soggiungendo che era un uomo libero, che il tempo delle
imposizioni era finito e che i padroni non hanno il diritto di controllare le
azioni dei domestici.
Io mi ricordo
che verso quel tempo appunto Giacomo Gondi si era mostrato con me impensierito
per il mutamento di Pinotto.
- Non vorrei
che covasse qualche malattia, - mi disse. - Fosse l'itterizia?
Poco dopo,
proprio quando si ebbe notizia dei primi sollevamenti russi contro lo Stato,
Pinotto, che non si era mai occupato di politica, saltò su a gridare:
- Benone!
Così va fatto!
Ero presente
alla improvvisa sortita e so che il folletto nascosto in fondo ai suoi occhi mi
fece quasi paura per la gran vampata che cacciò fuori.
Ma il peggio
fu quando Giacomo Gondi, colle braccia cascanti dell'uomo che ha ricevuto una
bastonata, mi confidò sospirando:
- Caro te, io
ho un gran timore che Pinotto impazzisca!
Gli aveva
parlato per tutta la sera di diritti conculcati, di sfruttatori, di succhioni,
di egoisti, con un ardore di novizio che sfodera in un colpo solo tutte le sue
armi, colla veemenza dell'allucinato in preda ai primi assalti dell'idea fissa.
Giacomo Gondi, che è timido come una fanciulla (una fanciulla dei tempi
andati), era rimasto ad ascoltarlo a bocca aperta. Gli promisi che lo avrei
tastato io così alla lontana per cercare di farmi un'idea precisa di quella
diavoleria che era entrata in corpo a Pinotto.
Giusto
appunto essendo capitato un giorno dal droghiere a comperarmi delle caramelle
di pomo per la tosse, trovai Pinotto in un gruppetto di quattro o cinque
scamiciati riuniti intorno ad un tavolino dove si beveva non so che liquore
brindando alla morte di tutti i padroni. Pinotto era anche lui col suo bravo
bicchierino alzato e non lo depose affatto vedendomi, ma rosso d'ira mi gettò
un'occhiata torva senza salutarmi.
- Ebbene,
Pinotto, - gli dissi avendolo aspettato sul canto della via, - da quando in qua
sei diventato un rivoluzionario?
- Da quando
apersi gli occhi, - rispose il pover'uomo con una cert'aria tracotante che
nelle sue intenzioni doveva rappresentare il coraggio. - Il mondo ha finito di
essere ignorante; ora anche quelli che non hanno studiato la sanno lunga e non
si lasciano più infinocchiare.
- Ma chi ha
infinocchiato te, povero Pinotto?
- Oh! non
parlo per me, non sono egoista io. Io sento vibrare (si diede un gran pugno sul
petto) l'anima collettiva del popolo che soffre.
Era proprio
Pinotto che parlava? Se non lo avessi avuto davanti in carne ed ossa, avrei
potuto credere che un fonografo accanto a me ripetesse la concione tribunizia
di uno dei tanti comizi che rallegrano le folle.
- Ma tu hai
brindato alla morte di tutti i padroni….
Non mi lasciò
finire. Sempre più eccitato nel fenomeno dell'autosuggestione e nella fanfara
delle proprie parole che lo inebbriavano come il più capzioso dei vini, egli
interruppe:
- I padroni
rappresentano la tirannia del capitale, bisogna abbatterli tutti affinchè
l'uomo sia libero. Guardi in Russia….
- Lascia
stare la Russia, Pinotto, che tanto non è roba per i tuoi denti ed è troppo
lontana perchè tu possa mai lusingarti di ficcarvi lo sguardo. Invece
dell'anima del popolo, che anche codesto è un osso duro da rosicchiare,
interroga la tua coscienza e dimmi che cosa puoi rimproverare al tuo padrone?
- Il mio
padrone non c'entra, - si affrettò a rispondere Pinotto, - non parlo per lui.
- Benissimo.
Ma se fra coloro che gridano morte ai padroni tre quarti, o la metà, od anche
un quarto solo dovesse fare la restrizione mentale che fai tu, qual valore di
sincerità e di verità vi sarebbe nel vostro plebiscito?
Qui Pinotto
parve comprendere poco perchè si grattò malamente un orecchio e soggiunse con
impazienza:
- Loro
padroni non comprendono nulla dei nostri bisogni e poichè tengono la penna in
mano quando non torna loro il conto a metter giù un nove lo capovolgono e ne
viene fuori un sei, così hanno sempre ragione.
- Ti
assicuro, Pinotto, che questa operazione aritmetica mi riesce affatto nuova e….
- Dovrebbero
- continuò colle fiamme negli occhi - venir loro a tirare il carro, a sudare
come bestie, a patire la fame, il freddo, i microbi….
Anche i
microbi!!… A tal punto rividi bene Pinotto nella linda cucinetta di Giacomo
Gondi, col suo bravo fuoco acceso sotto le appetitose vivande che cuocevano per
entrambi; o cantarellare intanto che spazzolava gli abiti: o fumare la sua pipa
accanto alla finestra aspettando il ritorno del padrone; o sfogliare i giornali
illustrati alla sera quando aveva sparecchiata la tavola; od aprire l'uscio ai
visitatori; o girare il rubinetto della luce elettrica; o portare una lettera
alla posta; o preparare il caffè e prenderne la sua parte; o schiacciare un
pisolino sulla poltrona di Giacomo Gondi quando Giacomo Gondi si attardava
fuori di casa; e tutte queste miti occupazioni fra le quali si era svolta per
tanti anni la vita serena di Pinotto facevano un tale contrasto colla sua
descrizione della miseria proletaria, che non mi riuscì di frenare un sorriso
ed allontanandomi lemme lemme mi veniva fatto di pensare: Possibile che vi sia
in certi uomini tanta voluttà di soffrire che anche quando stanno bene vogliono
persuadersi del contrario per non rinunciare al gusto di lagnarsi?
- Bada -
dissi all'amico mio - che Pinotto frequenta una cattiva compagnia.
- Lo so, - mi
rispose Giacomo Gondi, - e il mio dispiacere è di non potere fare nulla per
questo povero illuso. Io lo vedo avviarsi giorno per giorno alla sua rovina,
sento che mi sfugge, che si perde e che lo perdo e sono impotente ad
arrestarlo. Nel suo cervello semplice quell'idea che vi hanno gettata come una
noce in una scatola vuota gli fa intorno un frastuono indiavolato, lo
intontisce, lo ubbriaca. Va a ragionare se puoi con un uomo che non sta ritto
sulle gambe!
Francamente
devo dire che ignoro ciò che avrei fatto nei panni dell'amico mio, essendo più che
ogni altra cosa malagevole il sostituirsi al pensiero, al sentimento, alla
impressionabilità di un altro, ma Giacomo Gondi nella infinita dolcezza del suo
temperamento credette far bene raddoppiando verso il suo domestico di
affabilità e di condiscendenza. Fu peggio che andar di notte, perchè costui a
vedere quella remissione non pensò neppure un istante che fosse una nuova prova
della bontà di Giacomo Gondi e l'attribuì tutta alla paura delle sue minacce,
quanto dire alla superiorità inappellabile della sua causa, per cui si fece
sempre più insolente, infingardo e pieno di pretese. Giacomo Gondi ne soffriva
nelle più intime fibre della sua anima di timido, di sognatore, di ottimista e
- come succede agli individui del suo temperamento - si lasciava andare pel
verso della corrente, affidato ad una fluttuante speranza che le cose dovessero
da un momento all'altro cambiare.
Si era a
questo punto quando una delle scorse sere, un po' prima di mettere in tavola,
Giacomo Gondi che ritornava da una lunga corsa in mezzo alla nebbia tutto
rattrappito e freddoloso, pregò Pinotto di accendergli il caminetto nel suo
studiolo, ed avvenne che accendendolo Pinotto lasciasse cadere sul tappeto un
tizzo ardente.
- Bada, bada,
raccattalo presto! - gridò Giacomo Gondi, il quale aveva visto con terrore la
minaccia di una abbruciatura in quel tappeto a lui carissimo per lontane
memorie.
- Cosa crede,
che lo abbia fatto apposta? - fu pronto a rimbeccare Pinotto.
- Non dico
questo, ma spicciati; non vedi che ne hai lasciato cadere un altro pezzo? Oh!
povero me!
- Ih! quante
smanie per un cencio di stoffa da tener caldi i piedi alle loro signorie mentre
tanti poveri disgraziati muoiono di freddo nelle steppe….
- ….russe, -
completò Giacomo Gondi al corrente del tic russofilo del suo servitore.
Pinotto, che
stava accoccolato soffiando nella bragia, si alzò come un galletto in atto di
sfida:
- E non mi
canzoni sa? perchè il tempo di umiliare la povera gente è passato. So benissimo
che ella l'ha con me perchè le furono riferite delle cose che mi riguardano.
- Ti inganni,
Pinotto, io verso di te non mutai affatto, tu piuttosto….
- Ma sicuro!
(il neofita vedeva presentarsi l'occasione di affermare coraggiosamente il suo
credo, forse di divenire un eroe, un martire, uno di quei personaggi che
passano poi nei libri e dei quali si discorre per un pezzo; questo pensiero gli
infuse una audacia straordinaria). È suonata la diana! Tutte le viltà degli
sfruttatori ricadono sul loro capo; abbastanza essi abusarono del loro potere,
ma la nostra coscienza ora si è svegliata, sentiamo la nostra dignità di uomini
tutti eguali e soprusi non ne vogliamo soffrire più.
- Ma Pinotto,
che diavolo è mai entrato nella tua pelle, non ti riconosco! Vuoi dirmi almeno
che male io t'ho fatto?
- Lei, lei….
- non parlo per lei, - mormorò Pinotto con voce rabbonita; ma poi subito
pentito quasi si fosse sorpreso in delitto di fellonia, soggiunse: - Del resto,
anche lei come tutti gli altri. Se appariva buono, se mi trattava bene, non lo
faceva mica per amor mio, ma solo per il suo interesse.
- Pinotto….
- Sì, per il
suo interesse, perchè gli fa comodo a tenermi; e se mi nutre bene non è già per
buon cuore, oh! no, ma perchè abbia maggior salute e maggior forza da mettere
al suo servizio. I padroni non fanno nulla per buon cuore. Essi ci lascerebbero
crepare di fame se non avessero bisogno di chi pulisce le loro camere e i loro
abiti!
Giacomo Gondi
tremava di commozione, di sdegno, di pietà a vedere così trasformato il suo
compagno di otto anni, di quegli otto anni trascorsi con tanta soddisfazione
reciproca e (almeno aveva creduto) reciproco affetto.
- Senti, -
disse con accento pacato e grave, - tu non sei in stato normale, o hai la
febbre o sei pazzo. Va a coricarti.
- Non sono nè
malato nè pazzo. Ho tutto il mio senno.
- Allora c'è
qualcuno che ti ha scaldata la testa, va, va a riposare.
- A me
scaldare la testa? - esclamò Pinotto ridendo ironicamente, - non sono nè un
bambino nè uno stupido; dica piuttosto che è lei che vuole liberarsi di me. Ah!
ma se è questo (una vampata sinistra balenò ne' suoi occhi) il servizio glielo
faccio subito e me ne vado.
Non così
presto lo scatto di una rivoltella risponde alla pressione del dito quanto
l'azione seguì le parole di Pinotto. Gettò via la paletta che teneva ancora in
mano e corse all'uscio. Giacomo Gondi credette che si fosse riparato in cucina
a sfogare da solo il malumore e già si rassegnava colla solita filosofia a
posticipare il pranzo di qualche mezz'oretta, quando lo vide riapparire sulla
soglia col cappello in mano e un fardello sotto il braccio.
- O dove vai
ora?
- Vado che la
riverisco.
- Ma sei
matto?
- O matto o
no, non voglio sopportare più gli scherni e gli oltraggi di un padrone che dopo
di avermi succhiato il sangue, quando non fossi più buono a nulla mi caccerebbe
via come un cane.
- Veramente,
se c'è qualcuno che in questo momento possa dire di essere trattato come un
cane, Pinotto, non sei tu quello! Rifletti….
- Ho
riflettuto abbastanza. Un tozzo di pane duro ma colla dignità di uomo libero.
- La dignità,
Pinotto….
Un bel
discorso in proposito avrebbe forse pronunciato Giacomo Gondi che già se lo
sentiva salire tutto caldo e sincero su dal cuore, se quell'indemoniato gliene
avesse lasciato il tempo, ma che! Giacomo Gondi rincorrendolo lo vide precipitarsi
per le scale a guisa di valanga, infilare la porta, sparire laggiù, laggiù
verso la nebbia, dove era buio, freddo, solitudine.
- E pensare -
mi diceva ancora ieri Giacomo Gondi - che io avevo già provveduto all'avvenire
di quell'imbecille nominandolo nel mio testamento per una rendita vitalizia.
- Il bello
poi sarebbe - soggiunsi io - che tu da questo fatto bizzarro ne ricavassi una
novella. Allora sì Pinotto potrebbe chiamarti sfruttatore e succhione. Ti par
poco?…. Far denari sulla sua pelle!
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