L'uomo dei palloni
Col suo
leggero bagaglio appeso ad un filo, trascinando un paio di scarpe non sue (da
tempo immemorabile egli non si era pagato il lusso di scarpe nuove) l'uomo dei
palloni veniva ogni giorno dalle due alle quattro a collocarsi in piazza Cavour
presso il cancello dei Giardini Pubblici. Tutte le mammine, le bambinaie, le
nutrici che affollano in quell'ora gli ombrosi sentieri lo conoscevano; lo
conoscevano soprattutto i bimbetti, i quali, appena riuscivano a scorgerlo
sotto la massa ondulante delle vesciche multicolori, si aggrappavano alle gonne
delle loro custodi gridando con uno scoppiettìo di gioia: «L'uomo dei palloni!
L'uomo dei palloni!»
E l'uomo dei
palloni, assicurata alle lancie del cancello la sua volubile merce, attendeva
di piè fermo l'allegro sciame dei bimbi con un segreto e indistinto ma pure
dolce compiacimento di tutta quella ressa che gli facevano intorno, sentendo
che per due ore al giorno, dalle due alle quattro, egli assumeva l'importanza
di una persona desiderata. Quegli occhioni lucenti di cupidigia, quelle manine
tese, quelle vocette instancabili nel loro ritornello: «Comperami un pallone»,
anche se non sempre riuscivano a fargli vendere la sua mercanzia, lo
circondavano di letizia e di vivacità. Alla soglia di quei bei giardini, sotto
il sole di primavera, le vesticciuole bianche dei bimbi svolazzavano con
agilità di farfalle; e i colori sgargianti che le nutrici portavano in giro
pomposamente, le balze rosse dei loro abiti, i lunghi nastri, l'oro degli
spilloni, insieme all'andatura lenta e molle, ai placidi sorrisi, alle ciarle,
ai giuochi, lo mettevano in uno stato di dolce stupore come davanti a certi
panorami giranti dove la coscienza della realtà svanisce nel barbaglio del
sogno.
Aveva nel suo
piccolo mondo diverse categorie di avventori. C'era il bimbo che otteneva un
pallone subito appena chiesto; c'era invece la mamma o la bambinaia riottosa
che si faceva tirare a lungo per la gonnella e non era che dopo una lunga
scherma di domande e di ripulse, non senza qualche tentativo di protesta
volgarmente chiamata capriccio, che si decideva ad acquistare il pallone; c'era
eziandio la mamma e la bambinaia che fin dal principio emettevano un «no» così
risoluto da non lasciare adito alla speranza; qualcuna ammorbidiva il rifiuto
con lontana promessa: «Un'altra volta se sarai buono…. se non ficcherai più le
dita sul naso», e finalmente qualche donna sbigottita e frettolosa trascinava
rapidamente il bimbo dalla parte opposta borbottando: «Sei pazzo?… Costano
troppo. E i denari dove li piglio?» Filosofo, l'uomo dei palloni non
interveniva mai. Colle spalle appoggiate al cancello, si accontentava di biascicare
di tanto in tanto: «Palloni, palloni, il più bel divertimento per ragazzi!»
La scabbiosa
era tutta fiorita sul bell'albero del viale a sinistra; la fontana lanciava
alto il suo getto in mezzo alle aiuole di tulipani e di primule; sul bacino
della fontana una flottiglia di carta si avanzava con tutte le vele spiegate,
provocando trilli di gioia fra la turba delle reclute marinaresche che
arrivavano col naso all'orlo della vasca, ma al di sopra di quei nasi quanti
raggi nelle pupille!… Le mammine lavoravano sulle panchine intorno, le nutrici
oziavano, le bambinaie ciarlavano. Era nell'aria una mitezza particolare, nel
cielo un particolare splendore. I bimbi che non si divertivano alla fontana
correvano su e giù cercando le pratelline nell'erba, bevendo il sole, ebbri di
luce. Quel giorno l'uomo dei palloni fece magri affari. Già erano passati i
clienti migliori senza comperargli nulla; egli attese ancora un poco guardando
l'omnibus dell'albergo Cavour che arrivava carico di valigie e di forestieri,
guardando i tram, le carrozze, i viandanti; gridò una o due volte: «Palloni!
Palloni!» e poi attorcigliandosi intorno al dito la funicella che li riuniva
tutti piegò l'angolo di via Manin e mosse verso il bastione, agitando tratto
tratto i prigionieri al di sopra del suo cappello, tanto che qualche bimbo
attraverso gli alberi potè scorgerlo ancora e fargli ripetere il suo grido:
«Palloni! Palloni!» grido che andò a spegnersi man mano ed a morire finchè
anche l'uomo scomparve.
- E pazienza!
- disse egli mettendo la chiave nella toppa sgangherata di un usciaccio da
solaio dove teneva la sua cuccia, laggiù, laggiù verso porta Tenaglia. - Non
tutti i giorni possono essere fortunati.
Entrò, appese
i suoi palloni ad un chiodo, e cacciandosi le mani in tasca ne estrasse un
piccolo deposito di funicelle che serbava per le diverse occorrenze; se non che
all'atto di ritirare il groviglio delle funicelle uscì dalla sua tasca e cadde
al suolo un grosso portafoglio di pelle nera.
L'uomo fece
un passo indietro. Che diavolo poteva essere? Si chinò bel bello con quella
poca elasticità che gli concedevano i sessantacinque anni suonati e raccolse
delicatamente il misterioso oggetto. Era proprio un portafoglio in pelle ed
ossa.
- Pelle ed
ossa, - ripetè palpandolo e ridendo della propria spiritosaggine.
Pelle fina di
bestia rara, ossa robuste che lo inquadravano in un'ampia e magnifica
corporatura di portafoglio sano e ben nutrito.
- Che
diavolo, che diavolo! - disse ancora aprendolo con molta precauzione e con
moltissima curiosità.
Vi cacciò
dentro due dita, l'indice e il medio, così, per toccare, e sentì un grosso
plico di carte. Semplici carte?… Denari?… Rapidamente il pollice andò a
raggiungere le altre due dita e fra tutti e tre insieme estrassero, adagino,
adagino, un pacchetto di banconote che gli diedero lì per lì le traveggole.
Capì che la faccenda si faceva seria. Con un movimento secco afferrò l'unica
sedia che si trovava nello stambugio e vi sedette stringendo i ginocchi per
raccogliere con circospezione tutta quella grazia di Dio.
- Sono denari
davvero! - mormorò il pover'uomo che sentiva alcune stille di sudore
gocciolargli dalla fronte e un brusìo nelle orecchie, come se gli avessero dato
una mazzata.
Sì, il dubbio
non era possibile. Biglietti da cento, da cinquecento, da mille lire
sgusciavano fuori dalle pieghe del portafoglio. Egli non reggeva a sommarli,
abbacinato dal numero stragrande; ed anche non vi sarebbe riuscito perchè
alcuni di quei fogliolini erano scritti in una lingua straniera ed avevano
parole e motti a lui completamente sconosciuti. Forse non erano carta monetata,
ma qualunque fosse il loro nome, cambiali o altro, il loro aspetto intimo e il
loro odore era simile a quello dei biglietti di Banca. Tutte quelle carte
avevano un legame di parentela, una fisionomia di famiglia su cui non era
possibile prendere abbaglio. Mille lire più, mille lire meno, esse costituivano
un tesoro.
Mai in vita
sua l'uomo dei palloni aveva provato una commozione simile. Ma, singolare a
dirsi, la sua commozione era piena di turbamento. Di dove gli venivano quei
denari? Erano proprio suoi? Non trattavasi di uno scherzo o di un tranello? E
se erano suoi, chi glieli aveva messi in tasca a sua insaputa? E perchè poi a
sua insaputa? Non era più semplice consegnarglieli in mano? Anzi, perchè non
glieli avevano consegnati in mano? Trattavasi di un benefizio? Di una
scommessa? Di un parente segreto? Di un terno al lotto?… E perchè non di una
stregoneria? A questo pensiero della stregoneria il pover'uomo si metteva a
girare e rigirare i misteriosi biglietti aspettandosi da un momento all'altro
di vederli a pigliar fuoco; senonchè quelli, perfettamente immobili sui suoi
ginocchi, conservavano un aspetto così tranquillo di gente onesta che va per i
fatti suoi, che egli doveva pur convincersi dell'autenticità loro, per quanto
potesse sembrare inverosimile.
- Infine, -
concluse dopo un lungo almanaccare, - che ne faccio di questi valori? Sono
miei? Posso spenderli? Non verrà nessuno a chiederne la restituzione?
Gli passò a
un tratto per la mente l'idea di chiedere consiglio, ma a chi? I suoi vicini di
casa erano tutti straccioni come lui, e la vista di tanto denaro non avrebbe
fatto altro che scatenare sentimenti di invidia. E poi chi sa se gli avrebbero
creduto. Non forse sarebbe venuto a qualcuno di loro il dubbio che egli avesse
rubato?… Ci mancava altro!
Non avvezzo a
lavorare di cervello, tutte quelle ipotesi lo stancavano assai. Gli era passata
nel frattempo l'ora del desinare e vicino a tante ricchezze la scodella di
minestra che gli preparava tutti i giorni il polentaio dirimpetto gli parve,
per il momento, preferibile. Tornò a chiudere il tesoro nel portafoglio e se lo
ripose in tasca. Lo estrasse però subito ancora pensando se non era meglio
custodirlo in camera; ma nella camera non vi erano mobili e l'uscio stesso
chiudeva così male che non c'era da fidarsi. Meglio la tasca.
Discese le
scale tenendosi fermo il gabbano sul petto, stringendosi contro il muro se
incontrava qualcuno. Trasalì addirittura quando sull'ultimo pianerottolo sentì
posarsi una mano sulla spalla e una voce gridargli:
- Ohè,
galantuomo!
Era Antonio,
il lustrascarpe. Ma l'uomo dei palloni ne prese quasi paura e sgattaiolò
prontamente.
- Ih! che
fretta! Hai forse vinto un terno al lotto? - soggiunse Antonio, curvandosi
sulla rampa della scala.
- Tsu…. Tsu….
sono cose da dire? Tsu…. tsu…. Vado a prendere la mia minestra.
Toccò
l'ultimo gradino senza manco vederlo, attraversò la strada come una freccia e
piombando nella bottega del polentaio sporse senz'altro i suoi venticinque centesimi.
- In ritardo,
quest'oggi: si vede che è stata una buona giornata per i vostri palloni. A
furia di vendere vesciche scommetto che vi mettete da parte un capitaletto.
L'uomo dei
palloni fuggì. Quand'ebbe risalito le sue scale sbattè fortemente l'uscio,
rigirò la chiave e vi pose dinanzi la sedia. Auf! che avventura!
Aspettò che
la notte scendesse completamente, che tutta la casa fosse tranquilla, che i
vicini dormissero in santa pace, e stesse zitta anche la macchina della
cucitrice nella camera accanto alla sua. Allora tornò ad aprire il portafoglio
colla vaga speranza di trovare la chiave del mistero, una parola, una
spiegazione qualsiasi. Ma oltre ai valori, nel portafoglio non c'era altro; non
un nome, non una cifra che potesse aprire la strada alle indagini. I biglietti
di Banca stavano là muti, eppure straordinariamente espressivi nella loro
immagine di forza e di potere. Non parlavano, ma sembravano guardare il
pover'uomo con una sottile ironia.
- È inutile!
Non ci capirò mai nulla!
Su queste parole
pronunciate a fior di labbra, quasi per tema che qualcuno lo udisse, egli si
gettò vestito come era pesantemente sul letto, il quale non scricchiolò per la
ragione che consisteva in un semplice materasso steso sul pavimento, dormì
subito, russando, col naso per aria e i pugni stretti; dormì le sue solite otto
ore; ma nello svegliarsi ebbe subito l'impressione di un aculeo sulle coste.
Era il portafoglio.
Alcune
signore, entrando quel giorno ai Giardini del cancello di piazza Cavour, furono
molto sorprese nel vedere l'uomo dei palloni che mosse loro incontro domandando
se per caso non avessero perdute cento o duecento mila lire.
- Poveretto!
- dicevano le signore, - è diventato pazzo!
E siccome la
stessa domanda veniva rivolta imperturbabilmente anche alle nutrici ed alle
bambinaie, molte furono le risate che echeggiarono quel giorno fra piazza
Cavour e la fontana dei Giardini.
Per tre
giorni l'uomo dei palloni tenne il suo posto rigido e impettito. Era un po' più
pallido del solito, e aspettava. Ma ogni cosa intorno a lui appariva affatto
estranea alìa sua preoccupazione. I bimbi sfarfalleggiavano per i viali, i
nastri e gli spilloni d'oro delle nutrici luccicavano al sole, le mammine
sorridevano, l'omnibus dell'albergo scaricava regolarmente viaggiatori e bauli,
i tram correvano, i viandanti passavano.
- Orsù, -
pensò al quarto giorno l'uomo dei palloni, - questi denari sono miei. Dio me li
ha dati, è ora di spenderli.
Gli era
accaduto molte volte (a lui come a tanti altri), mentre se ne stava ad aspettare
gli avventori sulla soglia dei Giardini, di pensare quanto sarebbe stato
piacevole trovarsi nei panni di quei signori che vedeva sbucare da via Manzoni
con scarpette gialle e sigaro in bocca. Anche aveva pensato che farsi
scarrozzare per la città dovesse essere un bel gusto, così come mangiar bene e
bere delle buone bottiglie di vino vecchio. Per fare tutto ciò occorrevano
molti denari, ed ecco che egli li aveva, se pure non era un sogno. Ma no, non
era un sogno; e i denari egli non li aveva mica trovati in istrada, che allora
il suo dovere sarebbe stato di andare a consegnarli in Municipio. Essi erano
venuti a collocarsi di motuproprio nella sua tasca. Nulla dunque di più reale e
di più legittimo. Bisognava adesso fare onore alla propria fortuna per mostrarsene
degni.
Incominciò a
soddisfare un suo antichissimo desiderio, quello di comperarsi un paio di
stivali nuovi. Non gialli, no. Capiva che sarebbe stato ridicolo. Egli andò da
un calzolaio di porta Tenaglia a comperarsi un solido paio di stivali neri a
doppia suola, e pensò se non era il caso di provvedere anche un abito; ma gli
parve miglior giudizio procedere a gradi. Poichè la ricchezza gli era capitata
in un modo addirittura inverosimile, meglio valeva andar cauti. Conosceva il
mondo e le male lingue.
Un buon
pranzetto, invece della solita brodaglia, quello non se lo rifiutò. Con
risotto, stufato, un pezzo di stracchino di Gorgonzola e un litro di Barbera
vecchio, egli si credette pari in lautezza al re. Il guaio fu che, non
accontentandosi del primo litro, ne volle ordinare un secondo, e allora gli
avvenne di passare una notte così burrascosa da farlo tornare il giorno dopo
alla dieta del polentaio.
- Non si
impara da un giorno all'altro a fare il ricco, - concluse filosoficamente
l'uomo dei palloni.
In realtà,
mentre altre volte gli era sembrata facilissima cosa quando si hanno denari a
spenderli, trovavasi ora in cento imbrogli. L'età non gli consentiva più il
soddisfacimento di certi grilli; non aveva per altro l'istruzione e la
disinvoltura necessarie a gustare la maggior parte degli svaghi concecssi ai
signori. Tanto per dire di essersi offerto un divertimento, si fece condurre a
Monza in tram, prese un ponce al caffè di piazza, fece il giro del Parco, ma
trovò che i Giardini di Milano sono più allegri. Volle allora concedersi il
lusso di tornare al suo posto antico presso il cancello di piazza Cavour, non
già come merciaiuolo ambulante, ma come signore a spasso. Anche qui però doveva
toccargli una delusione, perchè nessuno dei bambini vedendolo senza palloni
volle accostarlo; e le nutrici stesse e le mammine, supponendolo fuggito dal
manicomio, giravano alla larga. La sua popolarità era svanita coi palloni, era
volata via come una vescica quando si rompe la fune. Privo di quei globi rossi
e azzurri che lo additavano da lungi al minuscolo popolo de' suoi avventori,
egli non aveva più alcuna importanza, spariva. La sua mortificazione fu grande
e incominciò a diventare malinconico.
I vicini che
lo vedevano salire le scale borbottando fra sè parole incomprensibili, poi
chiudersi nella sua stamberga e rinforzarne la porta con la poca mobilia di cui
poteva disporre, e a tutte le domande che gli facevano fuggir via con una
faccia spiritata, non sapevano più che cosa pensare. Per questo, quando una mattina
vennero le guardie e forzando l'uscio penetrarono nella stamberga, alcune donne
non mancarono di osservare che la doveva finire così.
- Chi lo
avrebbe detto! - soggiunse qualche anima pietosa, - sembrava un tanto onesto
uomo!
L'uomo dei
palloni intanto poichè i questurini gli avevano trovato indosso il famoso
portafoglio fu invitato sommariamente a seguirli davanti al Pretore. Egli disse
loro bensì che era innocente, ma senza frutto. Tuttavia, con grande stupore
delle donne che stavano a vedere, non si lasciò pregare troppo, anzi si fece a
ubbidirli docilmente.
- Alfine, -
pensava, - verrò a conoscere qualche cosa di questa diavoleria.
Davanti al
Pretore raccontò fedelmente per filo e per segno in qual modo otto giorni
prima, rincasando dalla sua solita passeggiata al cancello dei Giardini
Pubblici, egli si fosse trovato in tasca quell'affare del portafoglio; come
avesse sulle prime creduto ad uno scherzo o ad uno sbaglio e per tre giorni
consecutivi rimanesse al suo posto, finchè fatto persuaso che a Dio tutto è
possibile e avesse scelto quella via per metterlo alla prova, si era permesso
un pranzo, una gita a Monza e un paio di stivali. Tutto ciò raccontato
bonariamente fece sorridere il Pretore che si compiacque pur di rispondere:
- Il vostro
racconto brav'uomo corrisponde alla verità. Vorreste ora, raccapezzando meglio
le vostre idee, cercare di rammentarvi se quel giorno durante la vostra sosta
presso al cancello non avvertiste nulla di insolito intorno a voi?
L'uomo dei
palloni protestò di non avere avvertito nulla; ma il Pretore insistette:
- Non avete
accostato un tram?
- Oh! molti
tram. Se non è che questo….
- Voglio dire
un caso speciale: procurate di rammentarvi. Un tram dal quale era disceso un
uomo dandosi alla fuga…. gente agglomerata…. Pensateci, pensateci.
L'uomo dei
palloni si prese il mento fra le mani sforzando la sua memoria a tornare
indietro otto giorni.
- Forse sì, -
disse finalmente. - Avevo già abbandonato il cancello quando vidi molte persone
che circondavano un tram proveniente dalla Stazione. Non sono curioso per
temperamento, tuttavia stavo per domandare se fosse accaduta qualche disgrazia
quando un giovinotto mi passò vicino rapidamente dandomi uno spintone che mi
fece cozzare contro il muro e allora non ebbi più voglia di sapere altro.
- Proprio
così! - esclamò il Pretore soddisfatto, - era quello il ladro.
- Che ladro?
- Del
portafoglio.
- Senta
signor Pretore, intanto che ci siamo, vorrebbe farmi il piacere di spiegarla un
po' anche a me codesta faccenda del portafoglio? Mi pare di averne un certo
diritto.
- Ma come,
non avete ancora capito? Il giovinotto stando in tram aveva fatto sparire il
portafoglio dalla tasca di un signore che arrivava giusto allora a Milano per
eseguire un pagamento. Sceso poi troppo prontamente destò il sospetto, fu
inseguito e…. il resto lo sapete. Per salvarsi gettò il corpo del delitto
addosso a voi. È un vecchio stratagemma ma questa volta la giustizia non ne
avrebbe saputo nulla se il ladro stesso riparando all'estero non ci avesse
scritto denunciando il tiro.
L'uomo dei
palloni che intanto aveva continuato ad accarezzarsi la barbetta domandò
placidamente:
- Allora i
denari non sono miei?
- Ma vi pare?
Centocinquantamila lire? Anzi dovreste restituire diciannove lire e
quarantacinque centesimi che mancano alla somma se il proprietario non ve li
avesse già generosamente condonati. Andate, siete libero; ma se un'altra volta
vi trovate centocinquantamila lire in tasca siate ben persuaso che non vi sono
fioccate dal cielo.
La piccola
schiera dei bambini, le mamme, le nutrici avvezze a recarsi ai Giardini
Pubblici rividero la solita macchietta dell'uomo dei palloni appoggiata ai
cancelli di piazza Cavour. Essendosi diffusa l'avventura del portafoglio ognuno
gliela faceva raccontare ed egli vi si prestava di buon grado senza rimpianti e
senza querimonie, concludendo anzi con un sorriso soddisfatto:
- Gli stivali
almeno mi sono rimasti.
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