L'avventura di tre furbi
Sdraiati in
un campo di ravettone i cui fiori gialleggiavano nella maturanza precoce di un giugno
ardente i due figliuoli della Menica riposavano, avendo terminato per quel
giorno i loro lavori di campagna, aspettando lo zio Titta che doveva passare di
lì col vitellino nuovo.
Vissuti
sempre insieme di una vita semplice e monotona i due fratelli non avevano
grandi cose da raccontarsi, così quando ebbero fatto qualche pronostico sul
tempo e convenuto insieme che il ravettone quell'anno prometteva bene Paolo
trasse di tasca un mozzicone di sigaro raccolto per via, lo succhiò un poco e
lo passò a Pietro, da buoni fratelli abituati a non avere nè tuo nè mio.
- Quel
maledetto dente mi duole ancora, - disse Pietro a un certo momento.
- Converrà
farlo levare, - soggiunse Paolo.
- Già.
E ricaddero
nel silenzio.
Quante
fossero precisamente le ore non sapevano. Lo zio Titta doveva passare di lì,
essi lo aspettavano; niente altro. Pietro aveva in mano una verghetta e si
batteva con essa la coscia, Paolo seguiva cogli occhi il volo di un falchetto.
Il sole declinava.
Forse, molto
lontanamente, il sospetto che fosse tardi attraversò alla fin fine il cervello
di Pietro mettendogli innanzi questa domanda:
- Il diretto
è già passato?
- No, non
ancora.
- Sei sicuro?
- Sono
sicuro. Guarda, è quello che viene adesso.
Entrambi i
fratelli aguzzarono le pupille lungo il binario che attraversava i campi a
pochi passi dal luogo dove si trovavano. Il piccolo punto indicato da Paolo
cresceva a vista d'occhio delineandosi ferreo e nero sulla falda rosata
dell'orizzonte seguito dal solito pennacchietto di fumo. Ben presto la locomotiva,
i carrozzoni, il bagagliaio sfilarono sotto lo sguardo placido dei due
contadini sdraiati nel campo di ravettone, ma - proprio all'istante in cui il
treno svoltava tracciando una rapida curva - un oggetto lanciato con violenza
da un finestrino venne a cadere non molto lungi da essi.
Pietro voltò
appena la testa. Paolo disse:
- Che sarà?
- Un
cartoccio vuoto, che vuoi che sia?
- Mi sembra
una scatola.
- Una scatola
di sardine allora, vuota si intende. La roba che i viaggiatori buttano sulla
strada non è mai altro.
- Sicuro.
Vorresti che buttassero i portamonete coi biglietti da mille?
I due
fratelli risero. Paolo fece una capriola nell'erba.
- Olà, olà, -
gridò alle loro spalle la voce dello zio Titta, - perchè non vi muovete?
Qualche cosa è caduto dal treno. Bisogna andare a vedere.
- E se è un
cartoccio vuoto?
- Vedere
bisogna sempre.
Fu Paolo che
saltò in piedi per il primo e lo zio Titta dietro, mentre Pietro nicchiava
incredulo e neghittoso. Quando però potè scorgere distintamente l'oggetto che il
fratello aveva raccolto non fece che un salto balzandogli addosso con sùbito
ardore. Paolo era diventato pallido stringendo il pugno contro il petto.
- Vedere,
vedere! - gridò Pietro.
- Ih! che furia!
È adesso che ti scaldi? - rispose Paolo tenendo sempre il pugno stretto.
Lo zio Titta
non parlava. Battista, detto Titta, detto il «Bisogna», era in fama di uomo
accorto. Il sopranome di Bisogna glielo avevano dato per una sua abitudine di
cacciare questa parola in quasi tutti i discorsi, specialmente nella frase che
ripeteva più di ogni altra quando era il caso di ammonire i suoi nipoti o
magari sua cognata Menica che essendo rimasta vedova cadeva naturalmente sotto
la sua protezione e direzione. La frase dunque era questa: Bisogna essere
furbi! È d'uopo dire che l'esempio seguiva dappresso la predicazione e che per
le trovate sempre abili dello zio Titta (abile non è precisamente sinonimo di
corretto ma - diceva ancora lo zio Titta - non bisogna guardar troppo per il
sottile se si vuole conservare la vista) la verità è che gli affari andavano
abbastanza bene nella famigliuola di cui lo zio Titta era il capo riconosciuto.
Zitto, fermo,
tenendo con una mano la fune a cui era attaccato il vitello, appoggiata l'altra
sul fianco, tutta l'anima del vecchio furbo sembrava concentrata nel naso il
quale, lungo, ricurvo, tagliente come un rostro, avido e frugatore come un
becco, vigile come un faro, nella tensione palpitante di una sentinella
avanzata, quasi fosse munito di una pupilla magica all'estremità, trapassava il
pugno di Paolo, trapassava l'astuccio, vedeva! Così quando l'astuccio venne
aperto il meno meravigliato fu lui.
Appena Paolo
fece scattare la molla due orecchini di brillanti scintillarono morbidamente
abbracciati da un cuscinetto di velluto celeste.
-
Sacr….estia! - esclamò Pietro.
- Questa
volta almeno le sardine ci sono, - soggiunse Paolo tutto allegro.
- Purchè
sieno buoni, - insinuò Titta allungando la mano agli orecchini che prese e
contemplò minuziosamente.
- Non vedi
come brillano?
- Eh!
brillare non vuol dir nulla. Bisogna essere furbi a questo mondo e sapere le
cose come stanno. Si fanno in giornata dei brillanti che rubano gli occhi e che
non sono niente affatto brillanti. Questi però se sono falsi convien dire che
li hanno falsificati bene.
- Io dico che
sono buoni.
- Per dirlo
lo dico anch'io. Tutto sta ad essere sicuri.
- Ci vorrebbe
uno che se ne intenda, - osservò Pietro.
- Un orefice,
- soggiunse Paolo.
Ma
l'istintiva diffidenza del contadino fece esclamare allo zio Titta:
- Adagio,
adagio. Non andiamo adesso a propalare a tutti i nostri interessi. Bisogna
riflettere prima di agire.
Così dicendo
si pose in tasca l'astuccio.
- Ehi! dico,
zio, - saltò su Paolo, - o veri o falsi questi gingilli sono miei.
- Perchè? -
fece il «Bisogna» tranquillamente tirando la fune del vitello.
- Oh! bella,
non li ho forse raccolti io?
- Tu?… Tu non
ti muovevi neppure, nè tu nè tuo fratello, se non fossi stato io a mettervi
sull'attenti.
- Però -
interloquì Pietro - noi siamo stati i primi a vedere.
- Neanche
questo lo puoi provare. Ho forse visto prima io, ma ero più lontano e non
potevo correre.
- Ad ogni
modo - borbottò Paolo in tono minaccioso - l'astuccio mi appartiene. Sono
pronto a andare in giudizio se occorre.
- Non stiamo
a litigare - concluse Titta - prima di sapere se si tratta di brillanti o di
cocci di vetro. Del resto fidatevi a me; il fratello di vostro padre non vi
vuol tradire.
La frase era
bella ma fece poco effetto sui due giovinotti che avrebbero preferito aver loro
in tasca l'astuccio. Mogi mogi seguivano lo zio sul cammino della loro casa,
tenendogli gli occhi addosso come se potesse volar via; quando furono quasi
alla soglia Titta si pose un dito sulle labbra raccomandando:
- E silenzio
per ora! Non dite nulla a vostra madre che lo saprebbe tutto il paese.
Oh! questo
poi no! protestarono insieme i due fratelli. Che il vecchio sornione si sia
messo in tasca l'astuccio e pretenda avervi dei diritti è una cosa che si potrà
discutere, ma impedirci di parlarne a nostra madre è troppo.
Infatti non
avevano ancor finito di mangiare la zuppa che Paolo schiattò:
- Zio, mostra
un po' alla mamma quello che ho trovato oggi in un campo di ravettone.
Invano Titta si
pose a fare gli occhiacci ed a schermirsi fingendo di non comprendere. Premeva
troppo ai due fratelli di mettere in chiaro la faccenda, che di quel silenzio
non si fidavano affatto ed a prendersi per alleata la madre restavano in tre
contro uno. L'astuccio dunque, dopo alcuni tentativi di resistenza, uscì dalle
tasche del vecchio ed aperto provocò le più alte esclamazioni ammirative della
Menica la quale non finiva di voltare e rivoltare da ogni lato gli splendidi
orecchini sentendosi crescere la saliva sotto la lingua per la gran gola che le
facevano.
- Forse sono
falsi.
Titta non lo
credeva, ma buttò là ancora questo dubbio per studiarne l'effetto.
- Ohibò! -
fece subito la donna, - sono in tutto simili a quelli della nostra padrona. Io
li conosco bene.
- E quanto
credi che possano valere? - domandò Pietro a un tratto.
Quattro
respiri rallentarono per un istante il loro ritmo; l'attenzione era intensa
quando Menica in seguito a certo suo calcolo mentale disse:
- Ma, se sono
proprio fini come quelli della padrona, cinque o sei mila lire….
Lo zio Titta
saltò in piedi con tutte e due le braccia per aria:
- Sei matta!
Sei matta!
Pietro disse:
- È una bella
sommetta!
Paolo si pose
a ridere fregandosi le mani; ma lo zio Titta seguitava a gridare come un
ossesso.
- Non è vero,
non è vero. Siete matti!
Per quella
sera non si concluse nulla. Solo che avendo lo zio Titta allungato la mano per
rimettersi in tasca l'astuccio tutti furono d'accordo a protestare, così che
egli trovandosi ad essere la minoranza si scusò facendo un breve discorso sulla
sua qualità di capo della famiglia e sul suo affetto di zio.
- Del resto,
- soggiunse, - non siamo tutti uniti d'amore e d'accordo? Quello che è dell'uno
è pure dell'altro.
- Benissimo,
- concluse Paolo, - e per ciò daremo l'astuccio in custodia alla mamma che
stando in casa può meglio sorvegliarlo e che lo riporrà ben bene avvoltolato in
un paio di calze in fondo al canterano.
Lo zio Titta
si rassegnò; ma già subito all'indomani l'argomento fu ripreso e per tutti i
giorni dovette essere quello il perno intorno al quale si aggiravano pensieri,
parole, progetti, reticenze, piccole congiure occulte, piccole viltà. A nessuno
era ancora venuto in mente che l'astuccio si dovesse restituire, tuttavia un
vago timore che da un momento all'altro saltasse fuori il proprietario li
teneva zitti, in attesa.
Qualche
volta, lemme lemme, senza dare nell'occhio, Titta andava a zonzo per il paese a
raccogliere notizie sui fatti del giorno; si spinse fino alla stazione dove
pure s'avrebbe dovuto sapere qualche cosa, ma nulla mai trapelò dei gioielli
perduti al punto che Titta e i nipoti e la cognata li consideravano oramai come
gioielli di famiglia. E le dispute ricominciarono. Anzitutto, erano veri? erano
falsi? A chi appartenevano? che cosa dovevano farne? La Menica se li era
provati per ischerzo convinta immediatamente che non era roba per lei; e
neanche se Pietro o Paolo avessero condotta la sposa potevano offrirle un
oggetto così fuori della loro condizione. Venderli? Ma a chi per non essere imbrogliati?
Di punto in
bianco un bel giorno la Menica si aperse colla padrona la quale osservando i
brillanti da conoscitrice assicurò che erano buoni ma disse recisamente che in
coscienza non si potevano tenere e occorreva denunciarli subito altrimenti c'era
da incorrere nella prigione. Come mai non ci avevano pensato? Questa
dichiarazione fu una mazzata per il «Bisogna» e per tutta la sua famiglia
abituati come si erano già a ritenere i brillanti loro proprietà assoluta e chi
ne andò di mezzo fu la Menica accusata di avere guastato ogni cosa colla sua
smania di parlare. Che bisogno c'era di dirlo alla padrona? Bel risultato se ne
aveva.
La padrona
per calmare un po' tutte quelle cupidigie inasprite disse che quando avessero
trovato il proprietario dell'astuccio sarebbe pure toccata a loro una buona
ricompensa; ma non valse a nulla. Erano i brillanti che essi volevano e li
volevano con una cocciutaggine fatta di ignoranza e di avidità sulla quale
nessuna luce poteva gettare l'idea confusa che essi avevano del diritto.
Obbligati
tuttavia a denunciare l'oggetto trovato lo fecero così di mala voglia che ne
rimase ad ognuno l'amaro in bocca, e questo amaro si gettarono vicendevolmente
l'un l'altro con reciproche accuse per tutto il tempo di attesa prescritto dalla
legge. Caso singolarissimo! Per quanto annunciato e propalato dovunque il
mistero dell'astuccio lanciato dal carrozzone di un treno in corsa restò un
mistero. Furto? capriccio? vendetta? gelosia? Qualunque fosse stato il movente
non se ne seppe mai nulla. Colpevole o impotente la mano che aveva tracciato il
gesto audace non uscì dall'ombra. Nessuno venne mai a reclamare i brillanti.
Per tal modo trascorsi i due anni d'obbligo Titta coi suoi due nipoti rimasero
i legittimi padroni dell'astuccio.
Oramai si
sono accordati per una equa divisione del bottino, ma non potendosi dividere in
tre parti i brillanti che erano solamente due decisero di venderli. Più presto
detto che fatto però. La padrona si era offerta lei di rilevarli a prezzo di
stima, ma Pietro insinuò che se aveva fatta l'offerta ci stava dentro certo il
suo tornaconto. Diffidarono della padrona, diffidarono anche del curato che
aveva un fratello orefice e poteva occuparsi dell'affare. A vero dire
diffidavano di tutti; se avessero potuto seppellirli quei brillanti indiavolati
li avrebbero cacciati cinquanta metri sotto terra. Il guaio era che Paolo
voleva prender moglie e Pietro aprire un negozietto, e come si faceva senza
denari? La necessità di venderli era evidente ma volevano essere ben sicuri che
nessuno potesse specularvi sopra. Avevano pensato tanto alla somma possibile da
ricevere che essa era andata crescendo con giri iperbolici nella mente di
ognuno dei tre.
Pietro una
volta uscì a dire:
- Io so di
brillanti che furono pagati dieci mila lire!
La padrona
che lo udì e che ne rise gli diede l'indirizzo di un orefice a Bergamo
consigliandolo a andare da lui per togliersi ogni dubbio. Pietro andò, ma
andarono insieme Paolo e Titta. Non si è furbi per nulla. Con loro grande
stupore e dolore l'orefice bergamasco pose la stima dei brillanti a tremila e
duecento lire.
- Ci inganna!
- disse Pietro, - vuole derubarci.
- È forse
d'accordo colla padrona, - soggiunse Paolo.
Lo zio Titta propose
di sentirne un altro e l'altro fece il prezzo di tremila e cento ottanta.
Tornarono a
casa coll'attitudine dimessa di cani bastonati, nè per un pezzo si parlò più di
brillanti.
- Vi credete
furbi, - disse una volta la padrona, - ma in questa faccenda la fate proprio da
ignoranti. Invece di mettere a frutto il vostro capitaletto ve lo tenete
nascosto nelle calze della Menica. Chi lo gode così?
Il «Bisogna»
fu il primo ad afferrare la logica di tale ragionamento; forse perchè egli era
vecchio sentiva maggiormente la necessità di non perder tempo e propose ancora
la vendita.
- Per tremila
e duecento? - gridò Pietro indignato.
- Ma se non
valgono di più?
- Chi lo sa
se non valgono di più!
- Allora
facciamo una cosa. Andiamo a Milano. Là orefici ve ne sono in gran copia, la
città è ricca, tutti portano brillanti, vedremo se si può vender meglio che a
Bergamo.
Eccoli a
Milano tutti e tre, indivisibili e guardinghi, sorvegliandosi a vicenda.
- Sopratutto
- aveva detto lo zio Titta - stiamo attenti ai ladri. Bisogna avere l'occhio
sempre pronto in mezzo a tanta gente che non si conosee.
Pietro e
Paolo che vedevano Milano per la prima volta si lasciavano distrarre un poco
lanciando occhiate di qua e di là ad ognuna delle quali restava attaccato
l'uncino di un desiderio.
- Deve essere
bello a vivere a Milano, - osservò Paolo.
- Stai zitto,
che quando abbiamo preso la nostra parte dei brillanti verremo qui noi due per
una settimana senza dirlo allo zio Titta.
- Benone. E
staremo allegri!
Intanto
seguivano docilmente lo zio Titta che incominciò a fare il giro dei piccoli
orefici di porta Ticinese e di porta Garibaldi ricevendo in parecchi posti un
rifinto netto e tondo ad acquistare merce di ignota provenienza. Uno che
sembrava disposto a entrare in trattative offerse duemila e cinquecento lire
giurando su tutti i santi che non valevano di più.
- Ci vogliono
truffare, - disse serio serio lo zio Titta, - ma bisogna mostrar loro che non
siamo gonzi. Dovessimo fare il giro di tutti gli orefici che vi sono in Milano
non dobbiamo darci per vinti.
Andavano,
andavano i tre villici pazienti e intontiti, urtando i passeggieri, col rischio
continuo di farsi prendere sotto le ruote dei tram, stanchi della stanchezza
speciale che provano gli abitatori della campagna quando si recano in una
grande città. Pietro non tardò molto ad accusare un forte mal di capo; Paolo
vedeva doppio; lo zio Titta non diceva verbo ma il naso gli si affilava di
minuto in minuto. La necessità di concludere si imponeva.
Oramai
avevano offerto dovunque i sciagurati brillanti e fra tutti la somma maggiore
era stata proposta loro in un negozio elegante del centro: tremila e cento
ottanta. Memore però dell'orefice bergamasco che li aveva valutati tremila e
duecento lo zia Titta non volle accettare subito. Solamente al calare del
giorno, scorati, stucchi, frolli, furono tutti e tre d'accordo di farla finita
e ritornarono nel negozio elegante.
- Veda -
disse il «Bisogna» piagnucolando - di darmi almeno tremila e cento
novantacinque. Sono cinque lire che ci rimetto come è vero Dio!
Sollevando
gli occhi al cielo per accompagnare degnamente l'invocazione, vide nella
traiettoria del suo sguardo qualcuno che gli sorrideva benevolmente; era un
signore che stava guardando i gioielli della vetrina, e parve al «Bisogna» che
con quel sorriso tacitamente lo incoraggiasse.
Lunga fu la
disputa, fermo l'orefice, cocciuti i villani; finalmente l'affare venne
concluso per tremila cento novanta lire, più un gran sospiro del «Bisogna» che
rimpiangeva le tremila e duecento offerte tanto tempo prima dall'orefice di
Bergamo.
- Via, -
dissero i due giovinotti ridiventati allegri alla vista dei bei bigliettoni, -
quel che è stato è stato. Dicci lire non ci fanno nè più ricchi nè più poveri.
Badate piuttosto a metter via bene il denaro.
Per questo lo
zio Titta non aveva bisogno di consigli. Cacciò la somma nelle ampie tasche di
un portafoglio che sembrava quello di un ministro, tolto l'unto e lo sdruscito
del lungo uso, ed allogato il portafoglio nelle profondità interne della
giacchetta lo andava ancora spianando colla mano per diminuire il troppo
appariscente volume.
Si presero
tutti e tre sotto braccio, lo zio Titta nel mezzo per salvaguardare il
gruzzolo, e s'avviarono alla stazione sperando di fare in tempo a prendere un
treno prima che sopraggiungesse la notte. Erano stanchi, avevano fame, ma al
pari dei cavalli affrettavano il passo fiutando di lontano l'odore della
stalla.
A un tratto
un gentile signore, vestito con eleganza e dai modi urbanissimi esclamò alle
loro spalle:
- Temevo di
non riuscire a raggiungerli, che gamba! Prego, prego, abbiano la compiacenza di
fermarsi un momento.
I tre
contadini rimasero dubbiosi, presi subito da diffidenza; ma l'altro continuò
con una amabilità che avrebbe sedotto una roccia:
- C'è stato
un piccolo sbaglio, scusino, le tremila e cento novanta….
Lo zio Titta
fece un salto da lepre:
- Che
sbaglio! che sbaglio! Chi è lei? Noi non la conosciamo, ci lasci in pace.
- Sicuro,
sicuro, - riprese il garbatissimo incognito, - lei ha pienamente ragione, ma anch'io
voglio mettermi in pace colla mia coscienza. L'onestà innanzi tutto. C'è
qualcuno che dice: bisogna essere furbi. Il mio motto è: bisogna essere onesti.
- Ma infine
che cosa vuole?
- Niente
altro che consegnarle queste cento lire, se permette.
Da una busta
rettangolare lo sconosciuto trasse un biglietto da cento e lo agitò nell'aria.
Lo zio Titta credette di avere le traveggole e si appoggiò sulle braccia di
Pietro e di Paolo non meno intontiti e rimminchioniti. Finalmente mormorò:
- Non capisco
nulla.
- Ecco, -
riprese il signore sorridendo colla sua inesauribile buona grazia, - io sono il
socio dell'orefice al quale ella ha venduto i brillanti. Non mi ha visto in
bottega? Non mi riconosce?…
Ah! sì. Quel
sorriso fu un lampo nella mente ottenebrata del «Bisogna». Egli riconobbe il
signore che ispezionava la vetrina e che gli aveva sorriso appunto così
amabilmente.
- Devo dire
anche che il proprietario del negozio sono io; il mio socio non vi mette che
l'opera. Io lo lascio fare ma lo sorveglio…. capisce? Fu a questo modo che mi
parve di accorgermi che egli si sbagliava nell'apprezzamento dei brillanti.
Naturalmente non volli mortificarlo in loro presenza…. mi piace essere
delicato; ma appena usciti loro abbiamo fatto insieme i conti e risultò precisamente
quello che avevo sospettato, cioè che il valore reale di quei gioielli è di
tremila trecento lire o poco meno. Da galantuomo mi affretto a portarle la
differenza.
La sorpresa,
il piacere, la commozione paralizzarono talmente ogni facoltà di quei contadini
avidi ed astuti, ma ignoranti, che balbettando a stento lo zio Titta riuscì a
mettere insieme qualche parola di gratitudine intanto che toglieva fuori dal
gabbano il voluminoso portafoglio per introdurvi il nuovo ospite tanto gradito
quanto inaspettato.
- Come! -
esclamò l'amabile signore, - ella tiene i denari in quell'enorme portafoglio
che le fa gobba sotto la giacca e lo addita da lontano ai borsaiuoli? Non sa
che Milano ne è piena?
- Ma noi
partiamo subito, - rispose lo zio Titta un po' confuso.
- Devono pure
attraversare tutta la città e quando bene siano giunti alla stazione è quello
il posto preferito dai cavalieri di industria. Non parliamo poi del viaggio in
ferrovia; le ferrovie sono diventate più malsicure di un bosco. Pochi giorni or
sono un mio cugino è stato derubato dell'orologio e del portamonete, così, in
un attimo, senza manco accorgersene. È un'imprudenza, caro mio, una grave
imprudenza!
Terrorizzato
il vecchio esclamò:
- Ma come
faccio allora?
- Se crede, -
insinuò dolcemente il socio dell'orefice, - posso mandarle il denaro per la
posta. È più sicuro.
Le tre teste
di Titta di Pietro e di Paolo come fossero una testa sola risposero
energicamente di no. L'idea di separarsi, fosse pure per un giorno, da quella
somma tanto agognata e faticosamente raggiunta irritava troppo la loro nativa
diffidenza.
- Bene, -
soggiunse l'altro colla sùbita remissione di chi non ha alcun interesse in
giuoco, - fàcciano come credono. Accetti però almeno questa busta, - così
dicendo lo sconosciuto si pose in modo da voltare le spalle ai due giovinotti
protendendosi verso il «Bisogna». - È di carta pergamenata, solidissima; io non
mi servo mai d'altro per trasportare i valori. La busta è molto più pratica del
portafoglio; sopratutto un portafoglio di quelle dimensioni!
Non vi era
nessuna ragione da opporre e poichè aveva già rifiutata la prima offerta il
vecchio si credette obbligato, almeno per cortesia, a non rifiutare anche la
seconda. Prese dunque la busta dalle mani del compiacente signore e tentò di
farvi entrare la valuta, ma siccome era un po' impacciato nei movimenti l'amico
con una mossa lesta e dicendo: - Lasci fare a me che sono pratico: - infilò le
tremila trecento lire nella busta, vi appose rapidamente la lingua, la chiuse e
la restituì con un inchino.
- Servo suo
signore e buon viaggio!
Il «Bisogna»
si voltò per ringraziare ancora una volta il servizievole sconosciuto ma non lo
vide più. Egli era già scomparso, nè a dire il vero si diede troppa premura di
farne ricerca poichè oramai tutti e tre non avevano che un solo ardente
desiderio: quello di trovarsi a casa.
La Menica che
li aspettava con impazienza avendo già fatto per suo conto una quantità non
indifferente di castelli in aria volle subito sapere a quale cifra era giunta
la vendita dei brillanti. Il cognato e i figliuoli ridendo sotto i baffi della
meraviglia che ella avrebbe provato dinanzi alla somma non mai vista apersero
con grande sussiego la busta pergamenata e…. la trovarono piena di biglietti
dell'amido Banfi. Uno solo, messo da parte, era il biglietto da cento offerto
dal generoso sconosciuto; ma quando vollero spenderlo si accorsero che era
falso.
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