Piccole virtù a spasso
Dopo tre
settimane di pioggia assidua un bel sole si riversava con folleggiante letizia
sulle aiuole ancora acerbe di piazza del Duomo, accolto con un largo respiro di
sollievo dalla folla domenicale il cui andare lento e compassato riempiva i
portici di masse brune. Candido e fresco sotto i raggi che lo prosciugavano dai
recenti lavacri il Duomo presentava alla luce intensa il suo fianco meridionale
specialmente ammirato dai forestieri, restando il fianco opposto, più scuro,
più suggestivo, più misterioso, il preferito richiamo dell'osservatore
sentimentale che vi smarrisce lo sguardo come in una foresta di sogno.
Ma chi non si
occupava affatto del Duomo nè di ciò che potesse significare era il gruppo di
ragazze che intorno al monumento di Vittorio Emanuele abbandonavasi con libere
espansioni di gioia al piacere del ritrovarsi insieme, agitando nell'aria le
sciarpe variopinte con accompagnamento di gesti, di grida, di rincorse, di
giravolte e di qualche amichevole pugno nella schiena delle compagne. Non vi è
nessuno a Milano che non le abbia viste, raccolte tutte le domeniche, chi sa
perchè, sotto alla statua equestre del primo Re d'Italia queste ragazze venute
quasi tutte dall'Emilia o dagli antichi ducati a cercare servizio in città.
Sentendo
forse nell'aria benchè lontanetta ancora la primavera, le ragazze erano nella
domenica che io dico più turbolente del solito. Non mancavano fra di esse le
nuove arrivate tuttavia un po' timide nelle loro goffe sottane alla moda del
paese; qualcuna scesa dalle capanne dell'Appennino odorava franco di quel selvatico
che si appiccica a coloro che vivono nelle stalle fra le capre e i buoi;
qualche altra invece già raffinata faceva pompa dell'acqua di chinina a poco
prezzo che si era versata sui capelli. «Fiuta come sa di buono». Ma le capoccie
erano quelle che si trovavano già a Milano da un anno o due.
Scarpe
gialle, calze nere, camicetta chiara, pettinatura a rigonfi, vita serrata,
petto sporgente, esse passeggiavano in su e in giù con un, certo ritegno di
persona superiore, oppure stavano ritte in mezzo a un capannello di novizie a
predicare il verbo novo, ad impartire insegnamenti che le altre ascoltavano con
avidità senza interrompere l'occupazione secondaria di sbucciare arancie o
castagne, scoppiando a ridere tratto tratto colle mani sul ventre, o annaspando
l'aria colle braccia tese nell'istintivo bisogno di prendersela con qualche
cosa.
Mezza dozzina
di giovinotti, cugini, compari, compaesani almeno, arrivano essi pure a
braccetto, qualcuno vestito del cappotto militare. E i discorsi si allargavano,
mutavansi i gruppi, dardeggiavano le occhiate. Le sciarpe bianche, le sciarpe
rosa, le sciarpe celesti andavano su e giù dal collo alle spalle, dalle spalle
sopra la testa, dalla testa lanciate improvvisamente con braccio teso a
descrivere un mulinello nell'aria.
Tutto quel
piccolo mondo venuto da lontane borgate, da ignoti casolari, si agitava nel bel
centro di Milano, dinanzi alla grande basilica, intorno al monumento
patriottico senza occuparsi menomamente delle cose circostanti, volgendo le
spalle alla folla, chiuso in sè, stretto nel cerchio dei propri interessi,
avendo in comune le memorie del passato e le speranze dell'avvenire. Per essi
Milano non rappresentava altro che un gigantesco albero di cuccagna dalla preda
ghiotta ed appetitosa lungamente vagheggiata nelle veglie fumose sotto il
lumino ad olio, accanto al bestiame che fungeva da stufa, lo stomaco piuttosto
vuoto; lavoro di immaginazione alimentato e ingrandito dai racconti di chi vi
era già stato e ne pativa la nostalgia, di chi ne narrava i grandi guadagni, il
lusso, i divertimenti, le abitazioni comode, il lauto mangiare.
- Tu che
mensile prendi?
- E tu?
- E tu?
- Venti lire?
Sei pazza. A meno di trenta si rifiuta.
- Io ne
prendo trentacinque e il vino pagato a parte.
- Perchè a
parte?
- Che sciocca!
Lo bevo lo stesso e guadagno cinque franchi di più; anzi, ora che è rincarato,
me ne voglio far dare sei.
- E se non te
le dànno?
- Li pianto
in asso. Anche questo è un guadagno perchè ogni volta che cambio padrone
aumento le pretese. Così bisogna fare. Quando mi presento la padrona domanda
invariabilmente «Che cosa prendevi prima?» ed io, se erano venticinque, dico
trenta, se trenta, trentadue o trentacinque. Allora la padrona è persuasa che
tutti pagano quel prezzo, che non se ne può fare a meno. Sbuffa, sospira, ma
paga anche lei.
Una risata
generale è il corollario dell'interessante insegnamento. Ma lo spirito di
emulazione si fa strada e suggerisce altre conquiste.
- Io mi
accontento di venticinque ma voglio la chiave della porta per andare alla sera
al cinematografo col Pinella perchè lui di giorno non può.
- Questa la
voglio anch'io: la chiave della porta!
- Sì, sì, la
chiave. Viva la libertà! Lo disse anche Garibaldi.
La storica
affermazione partiva naturalmente dal gruppo dei giovinotti ai quali sorrideva
la proposta della chiave.
Una delle più
evolute fra quelle ragazze, una che si era ingegnata di imitare nella
acconciatura del proprio capo un ritratto di madama di Sevigné visto in casa
della padrona, soggiunse con fare d'importanza:
- Io so di un
altro progetto che se riesce non avremo più bisogno di stare qui in piazza a
prenderci dei malanni.
- Malanni?
malanni? - gridò una ragazzina piroettando su sè stessa, - io prendo aria non
prendo malanni.
- Taci tu che
sei una ignorante.
Il gesto, il
sussiego che accompagnavano tali parole delinearono così nettamente la distanza
da creare subito una barriera fra le due servette: al di qua l'aristocrazia di
quella ben pettinata e che sapeva: al di là la plebe della zotica villana.
Curiosa e interessata la maggioranza si schierò subito dal lato
dell'aristocrazia che prometteva qualche cosa e chiese la spiegazione del
progetto.
- Si tratta
di fondare un Circolo per le persone di servizio dove esse possano riunirsi e
star comode, con giornali e libri per la loro istruzione, in un ambiente
riscaldato d'inverno, fresco all'estate.
- Ci vorrebbe
un giardino annesso.
- Benissimo;
ed anche un piano per fare un po' di musica.
- Chi la
farebbe la musica? È necessario un maestro.
- Si fa
venire il maestro.
- E allora si
potrebbe dare anche delle feste da ballo!
- Sì, sì, sì,
il ballo!
- Il ballo!
- Il ballo! E
invitare chi si vuole.
- Che
piacere! potrei mettere allora la mia camicetta scollata….
- Adagio, - disse
a un tratto un bersagliere, - è necessario far prima i conti. Alloggio,
mobilia, illuminazione, riscaldamento, giornali, libri, piano, maestro…. chi
paga tutto ciò?
Un soffio
gelato battè l'ali sopra le giovani teste in subbuglio; qualcuna si abbassava
mortificata, qualche altra stava ruminando se con un franco al mese si potesse
mettere insieme la somma occorrente. Ma prima che nessuno aprisse la bocca la
dittatrice del quarto d'ora sentenziò con una sobrietà degna di Tacito:
- I padroni.
- È vero. I
padroni perbacco! Giusto!
- È un loro
dovere infine poichè lavoriamo per essi.
- E si
intende che quando le veglie si prolungassero oltre mezzanotte il giorno
seguente non si presterebbe servizio.
- Naturale.
Poichè tutti
sentivano il bisogno di dire qualche cosa una giovane cameriera soggiunse di
suo:
- E se il
Circolo è lontano non sarebbero obbligati i padroni a pagarci la carrozza per
il ritorno?…
A questo
punto l'attenzione del gruppo fu distratta da due nuove figure apparse fra le
aiuole. Donne o ragazze che fossero non mostravano una età determinata;
giovanissime no, vecchie neppure, si avanzavano a passetti timidi sporgendo la
punta delle pianelle dalla gonna di rigatino con tale fare modesto che parvero
addirittura persone di altri tempi. Un breve scialle incrociato sul petto,
ricadente in sbieco fra i due omoplati, compiva il loro abbigliamento a fondo
campagnuolo ingentilito da una ingenua grazia primitiva che stava dentro di
esse inconsapevole. Vedendole un po' imbarazzate ed incerte la capoccia uscì
dal suo gruppo per squadrarle meglio e:
- Chi
cercate? - chiese alla fine.
Le due si
consultarono con una vicendevole scherma complimentosa perchè l'altra parlasse
finchè conclusero insieme:
- Cerchiamo
servizio.
- Di dove
venite?
Nominarono un
villaggio che nessuno dei presenti conosceva.
- Avete
relazioni qui?
- No, ma
siccome non abbiamo pretese….
La capoccia
interruppe con violenza:
- Non avete
pretese? E allora che cosa venite a fare a Milano?
- A servire
per guadagnarci un pezzo di pane.
Tutte risero
con sì evidente espressione di dileggio che le nuove arrivate ne rimasero
confuse.
- Ho detto
male? - mormorò umilmente quella che sembrava la maggiore.
Le risa
ricominciarono più allegre che mai; ma la capoccia pensando che il divertimento
poteva continuare, interrogò:
- Come vi
chiamate?
- Io
Affezione.
- Io
Sottomissione.
- Che nomi
strambi! E chi è quel tànghero che sta alle vostre spalle?
Non lo si era
scorto prima perchè piccolo, magrolino, sparuto, quasi attaccato alle gonnelle
delle due donne.
- È nostro
fratello Disinteresse.
- Cerca
servizio anche lui?
- Cerca,
quantunque egli avrebbe preferito di restare al paese e venne per compiacenza,
per non lasciarci sole in questa grande città.
- Con quel
nome che gli hanno dato vuol proprio trovar fortuna!
- Oh! Egli,
al pari di noi, non cerca la fortuna. Gli basta di trovare una casa onesta dove
gli vogliano bene.
La
dichiarazione parve a tutti un tal colmo di stupidaggine che nel primo momento
non seppero che cosa dire. Affezione interpretando il silenzio a suo modo,
continuò:
- Non è vero
che se sappiamo guadagnarci la benevolenza dei nostri superiori ci troviamo in
casa loro come in casa nostra?
Un urlo la
interruppe:
- Non vi sono
nè superiori nè inferiori. Siamo tutti eguali, per questo dobbiamo far valere
le nostre ragioni e dei padroni noi ce ne infischiamo. Ve ne sono tanti! Se uno
non accomoda, se ne prende un altro.
- A questo
modo però si resta sempre stranieri.
- Meglio
stranieri che servi.
- Anche i
figli - si arrischiò a dire Sottomissione - ubbidiscono ai genitori, ai maestri
che ne sanno più di loro, che li proteggono, li difendono, non li abbandonano
mai nei loro bisogni. Ubbidire a chi ci ama non è gran fatica.
- Questa
gente esce da un baule! - pensò la capoccia, e disse forte: - Sapete che cosa
dovete fare? Tornatevene al vostro paese al più presto. Qui non è aria per voi.
- Pure ci
hanno detto che alcuni padroni vanno in cerca di servitori zelanti, devoti, di
serve fedeli e affezionate. Noi ci prestiamo per poco….
- Ci
mancherebbe altro! Via, via, via, spulezzate coi vostri discorsi di miseria.
Altre voci si
aggiunsero pronte:
- Ma sì,
mandiamoli via questi pianeti della cattiva fortuna che stanno qui a stregare
il tempo.
- Via, via!
- Al loro
paese!
- Vadano a
strigliare i loro padroni!
- A….
- A….
Facevano a
chi le spiattellava più grosse. E ridevano! E colle sciarpe, coi fazzoletti,
coi grembiali si posero a dare delle cenciate ai tre malcapitati che allocchiti
e pesti si allontanarono in silenzio giù per via Torino.
Imbruniva. Un
forte vento di tramontana aveva addensato nuvole e polvere sulla città e i
passeggeri affrettavano il passo verso le loro dimore spopolando le vie.
- Dove
anderemo mai a finire!? - esclamò Affezione con un certo orgasmo.
- Dio ci
proteggerà, - rispose Sottomissione.
Il piccolo e
gramo Disinteresse trascinando le gambuccie concluse con un accento che pareva
quasi ilare:
- Se riesco a
mettervi a posto voi due, per me non ci penso.
- E se ci
rivolgessimo direttamente ai signori? - propose Affezione.
Veniva alla lor
volta una dama vestita di velluto, con due immensi ciottoloni lucenti alle
orecchie che a vederli a quel posto bisognava chiamarli brillanti e che fecero
restare a bocca aperta i tre villici.
La dama si
accorse dell'impressione prodotta e sorrise; quel sorriso diede coraggio ad
Affezione:
- Signora,
non per comandarle, ma di grazia, vorrei dirle una parola.
Una mano
inguantata corse alla ricerca del borsellino.
- Signora,
signora, - continuò l'altra ansiosamente, - non le occorre una donna di
servizio? o due? o un servitorello?
- E che altro
ancora? - fece la dama squadrando con diffidenza gli sconosciuti, -
rappresentate forse un'agenzia di collocamento?
- Noi siamo
appena arrivati a Milano, non conosciamo nessuno e vorremmo entrare a servizio
in una buona casa.
- Ma sapete
servire?
I tre
rimasero interdetti. Sottomissione si arrischiò a soggiungere:
- Colla buona
volontà….
- Eh! la
buona volontà non basta. Sai stirare di fino? pettinare? allestire il bagno?
ricevere le visite?
Sottomissione
si smarriva a vista d'occhio.
- O sei
cuoca? Conosci il mercato? Tratti i piatti dolci? O fai di tutto? Lucidi i
«parquets»?
- Signora, io
non ho mai fatto nulla di questo ma se ha pazienza imparerò, la servirò con
zelo, con fedeltà, con amore….
- Inutili,
inutili tali cose, non saprei che farmene, Addio ragazze, buona fortuna.
- E nostro
fratello Disinteresse?…
- Quel
meschino! che figura farebbe dentro una livrea? No, no. (Si allontanò
mormorando: Domenico mi ruba a man salva ma almeno ha dei bei polpacci).
- Quella coppia
che si avanza a braccetto, - notò Affezione, - ha l'aria di essere più alla
mano. Voglio provare con loro.
Il signore
era un uomo posato, serio, di mezza età; la signora voleva ad ogni costo
sembrar giovane, con due larghe rose sul cappello e un abito in vita. Alla
richiesta di Affezione la signora rispose subito con volubilità:
- Non ci
occorre, andate.
- Un momento,
- prese a dire il signore, - non c'è tua sorella che cerca una donna?
- Ah! è vero
ma….
Gettò uno
sguardo sprezzante sui vestiti di rigatino:
- …. non sono
presentabili. E quelle pianelle? È possibile che nel giorno di ricevimento la
domestica apra l'uscio in pianelle?
- Oh! Dio,
queste mi sembrano considerazioni ben meschine, soprattutto per tua sorella che
ha tanti bambini e le occorrono in casa persone oneste, semplici, quali appunto
mi sembrano queste due donne.
- Le
informazioni nostre, - saltò su Affezione, - le possono avere dal signor
Sindaco e dal signor Curato.
- Sì, sì, - biascicò
la signora infastidita, - ma quel fare contadinesco nessuno ve lo toglie. Come
si fa ad allacciare un grembiule bianco ricamato su queste figure tozze? E il
dialetto?… ora che parlano tutti in italiano!
Il marito si
strinse nelle spalle. Disinteresse volle mettere anche lui la sua parolina
prima che l'affare cadesse del tutto.
- Le mie
sorelle non hanno grande apparenza, è vero, non sono eleganti e non parlano
italiano, ma lavorano coscienziosamente, si accontentano di un mensile modesto
e non pretendono di farselo crescere ad ogni po'.
- Senti? -
sussurrò il marito all'orecchio della moglie, - questa è ancora una virtù
antica.
Ma la signora
con una smorfia trascinando lungi il marito rispose:
- E che ce ne
importa? Quando i servi si fanno crescere il salario noi facciamo crescere i
prezzi agli avventori e tutto cammina come dianzi.
Questa volta
lo scoraggiamento si impadronì davvero dei tre infelici.
- A chi ci
rivolgeremo noi, - pensavano, - se tutti ci respingono, servi e padroni?
Le tenebre
scendevano rapidamente, il vento cresceva e col vento un freddo che tagliava la
faccia. Stretti insieme, raggricciati, sperduti per vie ignote, col sentimento
desolato della loro solitudine, arrischiarono un ultimo tentativo presso due
vecchiette che si avviavano pari pari rasente il muro, mansuete negli atti e
decorose nelle vesti brune di moda trascorsa.
- Oh! caro
Signore! - esclamarono esse tosto che i tre ebbero fatta l'esposizione dei loro
desideri, - quanto tempo che non udiamo parlare così! Ci sembra quasi di
riconoscervi. Nostra madre, nostra nonna avevano in casa buoni e fidati
domestici come voi. Una ci stette quarantadue anni, morì nelle nostre braccia….
La commozione
delle vecchiette fece crescere la speranza ai postulanti.
- Ci aiutino
buone signore, - disse il giovane Disinteresse, - almeno le mie sorelle, almeno
Affezione che è la maggiore.
Tra il chiaro
e il fosco il buon ragazzo vide alcune lagrimuccie farsi strada attraverso gli
occhi vizzi delle vecchie donne ed una di esse, con voce che appena si sentiva,
mormorò:
- Vi benedica
Iddio, poveretti! Noi non possiamo prendervi perchè quantunque nate nobili e
ricche ci troviamo ora in tali strettezze che i nostri servigi ce li facciamo
da noi….
Le due
desolazioni si separarono così.
|