III.
Fra tutte le invenzioni
d'Archimede dimostra, a parer di Vitruvio, maggior sottigliezza quella mediante
la quale scoperse al re Gerone l'inganno di un orefice che aveva posto
dell'argento in una corona che doveva essere tutta d'oro. Plutarco nel trattato
contro Epicuro e le sue massime accenna soltanto al fatto, ma Vitruvio lo
racconta per disteso, e questo seguiremo nel narrarlo alla nostra volta.
Il re Gerone pervenuto al trono,
e riconoscendo dalla benevolenza degli Dei i fausti eventi del suo regno, volle
dar loro un segno della sua gratitudine con un cospicuo dono; chiamato perciò a
sè un abile artefice gli consegnò un certo peso di oro perchè ne facesse una
corona. Trascorso il tempo assegnato, l'orefice portò al re la corona che gli
aveva commessa, fu riscontrato il peso corrispondere esattamente a quello
dell'oro che gli era stato consegnato, e l'opera essendo stata altamente
approvata fu appesa in un tempio in forma di ex-voto. Senonchè di lì a non
molto, non è detto se in seguito ad una denunzia o per qualche altro motivo, si
cominciò a sospettare che la corona non fosse proprio tutta d'oro e che
l'orefice, trattenuta per sè parte del più nobile metallo, altro ve ne avesse
mescolato fino a raggiungere il peso voluto, di che irritato il re, il quale
pur non voleva che l'egregio lavoro venisse danneggiato, e manomessa in
qualsiasi maniera una offerta già fatta agli Dei, invitò Archimede a scoprire
se o meno l'artefice avesse commessa la frode della quale era sospettato.
Preoccupato Archimede della
soluzione del grave problema, egli vi pensava di continuo, finchè un giorno
entrando nel bagno ed osservando che quanto più era del suo corpo dentro
all'acqua tanto maggiore quantità ne usciva dalla tinozza, parvegli che in ciò
appunto si contenessero gli elementi della soluzione che andava cercando, per
la qual cosa pieno d'allegrezza uscì dal bagno e così tutto nudo com'era corse
a casa gridando per le vie εὓρηκα,
εὓρηκα.
Fin qui la leggenda; veniamo ora
ai commenti di Vitruvio. Narra questo scrittore che Archimede «fece due masse,
una d'oro e l'altra d'argento, tutte due dello stesso peso di che era la
corona. E avendo così fatto, riempì d'acqua un gran vaso fino al sommo, e poi
vi pose dentro quella massa d'argento, di cui quanta grandezza fu immersa nel
vaso, tant'acqua del vaso uscì fuori. Cavata di poi dal vaso quella massa,
tanta acqua vi ripose dentro, quanta n'era uscita fuori per riempire quel vaso
insino al sommo, come prima. Così ritrovò sottilmente, quanta misura di acqua
rispondeva ad una certa misura d'argento avendo fatto di ciò sottil prova;
allora, posta l'altra massa dell'oro parimente nel vaso pieno, e trattala poi
fuori aggiungendovi l'acqua con la medesima misura e ragione, ritrovò
chiaramente come non era uscita sì gran somma d'acqua, ma tanto meno n'era
uscita, quanto minor corpo ingombra una massa d'oro, che una d'argento del
medesimo peso. Ripieno di poi quel vaso, e posta nell'acqua quell'istessa
corona, ritrovò che più acqua usciva fuor per conto della corona, che per la
massa d'oro di peso uguale. Onde discorrendo sopra quel che più usciva fuori,
ponendovi la corona, che ponendovi la massa, ritrovò il mescolamento
dell'argento con l'oro, e insieme il manifesto furto dell'orefice».
Il testo è dubbio quanto alla
semplice scoperta della frode, oppure alla determinazione dell'entità di essa,
ed i varii traduttori diversamente lo interpretarono, parendo non degno della
sottigliezza d'Archimede e dell'espediente da lui escogitato il contentarsi del
risultato per dir così qualitativo senza scendere al quantitativo; anzi Proclo
Licio afferma recisamente, essere stata da Archimede scoperta la quantità
dell'argento che l'orefice aveva fraudolentemente introdotto nella corona.
Ma anche il procedimento
generale, come vien narrato da Vitruvio, non fu giudicato essere stato proprio
quello seguito dal grande Siracusano, ed affatto diversa è la narrazione che si
legge in un poema per lungo tempo attribuito a Prisciano, la quale liberamente
tradotta dice che Archimede prese una libbra d'oro e una d'argento e le pose
nei piatti d'una bilancia, nei quali naturalmente si facevano equilibrio; li
immerse poi nell'acqua, ma siccome in questa per il traboccar dell'oro si
perdeva l'equilibrio, per ristabilirlo aggiunse un certo peso all'argento, per
esempio tre dramme, dal che rilevò che una libbra e tre dramme d'argento
corrispondevano ad una libbra d'oro nell'acqua. Ciò fatto, pesò la corona che
doveva esser tutta d'oro, e ritrovatala, per esempio, del peso di sei libbre,
prese poi altre sei libbre d'argento e queste con la corona avendo posto sui
piatti della bilancia, immerse nell'acqua. Se la corona fosse stata tutta
d'oro, sarebbero bastate diciotto dramme d'argento aggiunte alle sei libbre per
equilibrare i pesi, ma ogni dramma in meno delle dieciotto provava la presenza
nella corona d'un terzo di libbra d'argento.
Nemmeno Galileo si appagò della narrazione
di Vitruvio, giudicando quella maniera «molto grossa e lontana
dall'esquisitezza; e vie più parrà a quelli che le sottilissime invenzioni di
sì divino uomo tra le memorie di lui avranno lette ed intese, dalle quali pur
troppo chiaramente si comprende quanto tutti gli altri ingegni a quello di
Archimede siano inferiori, e quanta poca speranza possa restare a qualsisia di
mai poter ritrovare cose a quelle di esso somiglianti». Indi prosegue lo stesso
Galileo, che delle scritture del geometra Siracusano aveva fatto studio
profondo, e per così dire vital nutrimento: «Ben crederò io che spargendosi la
fama dell'aver Archimede ritrovato tal furto co 'l mezzo dell'acqua, fosse poi
da qualche scrittore di quei tempi lasciata memoria di tal fatto; e che il
medesimo, per aggiugner qualche cosa a quel poco che per fama aveva inteso,
dicesse Archimede essersi servito dell'acqua nel modo che poi è stato
dall'universal creduto. Ma il conoscer io che tal modo era in tutto fallace e
privo di quella esattezza che si richiede nelle cose matematiche mi ha fatto
più volte pensar in qual maniera co 'l mezzo dell'acqua si potesse
esquisitamente trovare la mistione di due metalli, e finalmente, dopo aver con
diligenza riveduto quello che Archimede dimostra nei suoi libri delle cose che
stanno nell'acqua, ed in quelli delle cose che pesano egualmente, mi è venuto
un modo che esquisitissimamente risolve il nostro quesito, il qual modo crederò
io esser l'istesso che usasse Archimede, atteso che, oltre all'esser
esattissimo, depende ancora da dimostrazioni trovate dall'istesso Archimede»; e
questo modo espone nel suo primo lavoro dettato in volgare e che troviamo anche
intitolato: «Discorso del sig. Galileo Galilei intorno all'arteficio che usò
Archimede nel scoprir il furto dell'oro nella corona di Hierone».
Si credette anche che dalla
soluzione del problema della corona Archimede fosse stato condotto
all'invenzione dell'areometro, e reputatissimi storici delle scienze sostennero
ch'egli aveva per lo meno fatto uso di uno di tali strumenti in metallo, munito
d'una scala graduata, ma studii più recenti ed accurati lo escludono in modo
assoluto.
Dei due trattati di Archimede
che vedemmo testè menzionati da Galileo, il primo da lui citato, quello cioè
intorno ai galleggianti, ha corso strane vicende.
Ancora nei primi anni della
seconda metà del secolo decimoterzo si conservava il testo greco di tutti i
trattati d'Archimede allora conosciuti, e nel 1269 esso pervenne nelle mani
d'uno studioso il quale al tempo dell'effimero impero latino di Costantinopoli
era stato lungamente a Tebe; tornato di là in Italia, e precisamente a Viterbo,
curò di quel testo una versione latina servilmente fedele non meno nella
sostanza che nella forma: dopo di che la scrittura originale sui galleggianti scomparve
e la memoria ne fu affidata alla traduzione che fu certamente nota a Leonardo
da Vinci, e che, pervenuta nelle mani del Tartaglia, fu da lui usata nella
pubblicazione che per il primo ne curò. Fortunatamente di quella medesima
versione latina venne a conoscenza uno studioso assai più perito nello studio
degli antichi autori, cioè il Commandino, il quale ne fece una trascrizione
chiara e corretta, sebbene abbia talvolta sostituito del proprio là dove gli
pareva d'incontrare lacune od oscurità. E questi testi, ove se ne tolga un
frammento greco edito dal Mai, ma che molto probabilmente è una ritraduzione
dal latino, servirono agli studii ed alle traduzioni posteriori, fino a quando
volle la fortuna che in questi ultimi anni s'incontrasse novamente quell'antica
versione latina, del 1269, nella quale apparve tanto fedelmente conservato il
carattere greco dell'originale che l'Heiberg, così famigliare con la lingua
usata da Archimede, si sentì tentato di darne la restituzione del primo libro
nell'idioma originale, e la diede. La scoperta in seguito da lui fatta del
testo greco quasi completo di tale scrittura lo avrà messo in grado di
apprezzare il valore della sua divinazione.
Due sole ipotesi pone Archimede
a fondamento del suo trattato, cioè che in ogni liquido la parte meno compressa
cede a quella che lo è maggiormente e che ogni parte è premuta dalle
circostanti; l'altra dice che la spinta verso l'alto ricevuta da un solido
immerso in un liquido ha come linea d'azione la verticale passante per il centro
di gravità del solido. Premette poi due proposizioni dalle quali risulta
dimostrato che la superficie di livello d'un liquido stagnante appartiene ad
una sfera concentrica alla terra, di dove risulta immediatamente il fatto
ingiustamente disconosciuto più tardi, e soltanto quasi ai nostri giorni
confermato, cioè che su tutti i punti della terra il livello del mare è lo
stesso, vale a dire dista ugualmente dal centro. Stabilite poi le condizioni
d'equilibrio d'un solido immerso in un liquido, in capo alle quali è formulata
in termini espliciti, e tali da non lasciare dubbio alcuno, la nozione del peso
specifico, del quale nessuno prima di lui aveva avuta la minima idea, Archimede
dimostra che se si immerge un solido in un liquido più pesante, esso tenderà ad
uscirne con uno slancio proporzionale alla differenza di densità dei due corpi,
ed arriva finalmente a quella proposizione nella quale consiste il cosiddetto
«principio d'Archimede», e che testualmente dice: «Un corpo più pesante del
liquido nel quale lo si immerge, discenderà al fondo, ed il suo peso, nel
liquido, diminuirà d'una quantità misurata da ciò che pesa un volume di liquido
uguale a quello del corpo».
Questa proposizione è dall'Heath
risguardata come decisiva della quistione circa il modo nel quale Archimede
determinò le proporzioni dell'oro e dell'argento contenute nella famosa corona:
sicchè, ammessa la leggenda del bagno, è credibile che, non tanto, come si
racconta, dall'osservare la quantità d'acqua che usciva dalla tinozza mano a
mano che egli vi entrava, quanto invece dal sentire la diminuzione del peso del
proprio corpo che si immergeva nell'acqua, abbia egli avuta idea della
soluzione del problema, la quale fece dire al re Gerone che ormai avrebbe
creduto qualunque cosa gli avesse detto Archimede.
Nelle due proposizioni che
compiono il primo libro, deduce che un segmento di sfera abbandonato in un
liquido si disporrà in equilibrio con la base orizzontale, tanto se è sommerso
quanto se emerge dal liquido.
Analoghi argomenti, ma d'ordine
più elevato, sono trattati nel secondo libro principalmente dedicato allo
studio delle condizioni dell'equilibrio d'un segmento retto di conoide
rettangolare immerso in un liquido, entrando in considerazioni le quali fanno
supporre lavori d'indole ancor superiore, ma che disgraziatamente andarono
perduti: a formarsi però un concetto della importanza degli studii condotti da
Archimede intorno a questo argomento e pervenuti insino a noi in questo
trattato, basti il giudizio del Lagrange, il quale scrisse che «esso è uno dei
più bei monumenti del genio di Archimede, e contiene una teoria della stabilità
dei corpi galleggianti, alla quale ben poco hanno potuto aggiungere i moderni»
e tra quelli che più vi aggiunsero è Galileo, il quale giudicò la dottrina di
Archimede sui galleggianti: «quanto di vero in effetto circa sì fatta materia
poteva darsi».
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