V.
Il «massimo ingegno sovrumano»
di colui che Galileo chiama «il mio maestro» e ch'egli scrive: «aver superato
tutti», rifulge in particolar modo nelle opere matematiche, le quali non sono,
come quelle di tanti altri geometri dell'antichità, compilazioni o raccolte:
egli è principalmente e sopratutto uno scropritore ed un inventore, ed i lavori
da lui lasciati contengono cose nuove, per la massima parte escogitate e
trovate esclusivamente da lui.
Gli scritti d'Archimede
pervenuti insino a noi nel testo originale greco sono stesi in dialetto dorico,
o, più esattamente, in dialetto siculo-dorico; ma come abbiamo già notato, ad
eccezione dell'Arenario, che men degli altri sofferse per alterazioni
posteriori, si sono infiltrate in essi aggiunte e variazioni per parte di un
interpolatore che apparisce perito nel dialetto dorico; un secondo
interpolatore, e precisamente dopo Eutocio, ha completamente rimaneggiata una
delle scritture, annullando quasi in essa le traccie del dialetto originale.
Questi particolari furono rivelati da accurati studii condotti in questi ultimi
tempi, poichè, come di tutte le opere dei matematici greci, così di quelle di
Archimede avvenne che all'epoca del rinascimento furono dai matematici tradotte
e commentate, ma in nessun conto tenute dai filologi puri, come quelle che
erano giudicate di troppo scarsa importanza per i comuni studii delle umane
lettere, e gli stretti legami della filologia classica con la storia delle
scienze sono un portato di questi nostri ultimi tempi.
L'ordine cronologico, dal quale
non si dovrebbe mai dipartirsi, porta a considerare gli scritti d'Archimede in
una successione alquanto diversa da quella nella quale ci vengono offerti dai
codici degni di maggior fede che ce li tramandarono, e poichè sull'Arenario
e sui Galleggianti noi ci siamo già intrattenuti, considereremo
brevissimamente gli altri nell'ordine seguìto dall'Heiberg nella sua, possiamo
ormai ben dire celebre edizione; cioè: due libri della sfera e del cilindro; la
misura del cerchio; dei conoidi e degli sferoidi; delle linee spirali; due
libri dell'equilibrio dei piani ossia dei loro centri di gravità, tra l'uno e
l'altro dei quali trova posto la quadratura della parabola; il libro dei lemmi,
e finalmente il cosiddetto problema bovino. E qui ci giova subito avvertire
che, ancora nel sesto secolo dopo Cristo, di Archimede non sembra fossero
generalmente noti altro che i libri della sfera e del cilindro, la misura del
cerchio ed i libri dell'equilibrio dei piani, intorno alle quali tre opere
Eutocio scrisse dei commentarii che sono giunti insino a noi. Ed in queste,
come nelle altre opere d'indole speculativa delle quali si è parlato, riponeva
Archimede la sua maggiore compiacenza, e tutto il rimanente, al dire di
Plutarco, considerava come giuochi ed accessorii della sua geometria, conforme
del resto all'opinione a que' tempi comune ai filosofi, che la mente umana si
contaminasse nell'attendere a cose terrestri e materiali.
Fra tutti i suoi lavori pare che
egli abbia tenuto in maggior pregio i due libri della sfera e del cilindro,
anche perchè il rapporto tra il cerchio, la sfera ed il cilindro, al quale in
essi pervenne, è sinteticamente rappresentato nella figura che, a quanto vien
riferito, volle scolpita sulla sua tomba e, come vedremo a suo luogo, servì a
riconoscerla dopo che se n'era perduta la traccia. Tra i postulati premessi è
quello famoso della retta più breve distanza tra due punti, il quale fu erroneamente
scambiato per una definizione, ed a cui in certo modo corrisponde quello
relativo al piano: altri si riferiscono alla concavità di linee e di superficie
e servono a confrontare respettivamente le lunghezze e le aree di linee e
superficie contermini, e finalmente vi si trova il celebre assioma che porta il
suo nome, benchè Eudosso se ne fosse già servito prima di lui.
Nella lettera, se così può
chiamarsi, con la quale la scrittura è dall'autore indirizzata a Dositeo,
annuncia egli trattarsi della dimostrazione di queste tre nuove proposizioni,
cioè che la superficie della sfera è uguale al quadruplo del suo cerchio
massimo; che la superficie di qualsivoglia segmento sferico è uguale ad un
cerchio il cui raggio uguaglia la retta condotta dal vertice del segmento al
cerchio base d'esso; e che il cilindro avente per base il cerchio massimo della
sfera e per altezza il diametro di esso, o in altre parole il cilindro
circoscritto alla sfera, è una volta e mezza la sfera, e che le loro superficie
hanno la medesima proporzione. Non sono questi però i soli risultati ai quali
perviene nel primo libro, e le proposizioni con le quali li dimostra sono di
capitale importanza sia per gli artifizii usati nel dedurli, che per le
conseguenze delle deduzioni.
Delle questioni trattate nel
secondo libro, l'argomento del quale è strettamente connesso con quello del
primo, ci terremo ad accennare al problema di dividere una sfera con un piano
in due segmenti aventi fra loro un dato rapporto, problema la cui soluzione dipende
da una equazione del terzo grado; ma disgraziatamente egli la rimanda «in
fine», e questo non era noto nemmeno ai tempi di Diocle e di Dionisiodoro:
Eutocio credette d'averla trovata, ma ad ogni modo noi non sappiamo con tutta
sicurezza in qual modo Archimede risolvesse il problema, o quale fosse in
generale la soluzione da lui data ai problemi cubici.
Brevissima è la scrittura sulla misura
del cerchio che è una specie di supplemento alla precedente, tanto breve
anzi da far supporre che essa non rappresenti se non una parte del maggior
lavoro ricordato da Pappo col titolo: «sulla periferia del cerchio», nel quale
si suppone fosse trattato del rapporto di un arco qualsivoglia con la relativa
corda. Ciò che ad ogni modo di tale ricerca giunse insino a noi ha per fine la
determinazione del rapporto tra la lunghezza della circonferenza e quella del
respettivo diametro, le lunghezze di due linee qualisivogliano essendo
considerate da Archimede, come lo erano già state da Dinostrato, quali
grandezze omogenee. La trattazione è compiuta in tre proposizioni, le quali
veramente si riducono a due, poichè la seconda non è che un corollario della
terza. Dice la prima che ogni cerchio è uguale ad un triangolo rettangolo, uno
dei cateti del quale è uguale al raggio e l'altro alla circonferenza, e per
dimostrarla si appoggia alla considerazione di poligoni regolari inscritti e
circoscritti al cerchio, e fa vedere che questo non può essere nè maggiore nè
minore del triangolo, donde conchiude che dev'essere uguale. Le altre due
proposizioni del breve trattato si riferiscono in qualche modo al famoso
problema della quadratura del cerchio: nella seconda si dimostra che il cerchio
sta al quadrato costruito sul suo diametro come 10 a 14; nelle terza che la
circonferenza d'un cerchio qualsivoglia uguaglia il triplo del diametro più una
certa frazione di esso che è minore di 1/7 e maggiore di 10/71, alla quale egli
perviene inscrivendo e circoscrivendo al cerchio due poligoni di novantasei
lati ciascuno e calcolando le lunghezze tra le quali la circonferenza del
cerchio doveva necessariamente trovarsi. Disgraziatamente non pervennero insino
a noi i particolari del calcolo ch'egli dovette istituire per giungere al
risultato del quale, certamente per volontà propria, non spinse ulteriormente
l'approssimazione; e, se noi non andiamo errati, è questo il primo esempio di
un problema risoluto per approssimazione, esempio così utile e così di sovente
messo a profitto tanto nel calcolo algebrico come nelle costruzioni
geometriche.
Brevi parole crediamo ancora
dover adoperare circa il metodo usato in tale occasione, che non è altro se non
il cosiddetto metodo di esaustione, del quale, secondo quanto narra Simplicio,
avrebbe già fatto uso Antifonte nel secolo quinto avanti Cristo, e che fu sistematicamente
adoperato da Eudosso nel secolo successivo. Questo metodo di esaustione
consiste nel risguardare la grandezza data, p. e. l'area d'una curva, come il
limite a cui si avvicinano sempre maggiormente dei poligoni inscritti e
circoscritti, dei quali si moltiplica per via di bisezione il numero dei lati,
in modo che la differenza si esaurisca, si riduca cioè ad essere più
piccola di qualsiasi quantità data. Tale ravvicinamento continuo tra i poligoni
e la curva somministrava un'idea sempre più precisa di questa, e con la guida
della legge di continuità conduce alla conoscenza delle proprietà cercate,
salvo poi di dimostrare in seguito rigorosamente i risultati ottenuti con la
riduzione all'assurdo. Si è detto e ripetuto che gli antichi avevano considerate
le curve come poligoni infinitilateri; nulla di meno vero, perchè questo
principio non si riscontra mai nei loro scritti, e d'altronde non avrebbe
potuto contribuire al rigore delle loro dimostrazioni: i moderni bensì l'hanno
introdotto, semplificando tanto notevolmente le antiche dimostrazioni, e questa
felice idea costituì il passaggio dal metodo di esaustione al metodo
infinitesimale.
Un campo affatto nuovo si aperse
Archimede con le ricerche sui solidi di rotazione dei quali nessuno s'era prima
di lui occupato. Prese egli a considerare i solidi generati dalla rivoluzione
delle sezioni coniche intorno ai loro assi, che chiamò cumulativamente col nome
di conoidi e di sferoidi, e rispettivamente conoide parabolico ed
iperbolico quelli generati dalla rotazione di una parabola e di una iperbole
intorno al diametro immobile, e sferoide allungato ed appiattito quelli
generati dalla rotazione di una ellisse intorno agli assi maggiore e minore:
questi solidi, sia interi che segmentati, egli confrontò coi cilindri e coi
coni della stessa base e della stessa altezza. Nelle sue ricerche egli procede
dividendo i corpi di rivoluzione mediante piani secanti tra loro paralleli ed
equidistanti, ed ottenne con ciò come elementi fra due di quei piani un solido
che può considerarsi compreso tra due cilindri, uno inscritto e l'altro
circoscritto: la somma dei cilindri maggiori e quella dei minori costituiscono
due limiti tra i quali rimane compreso il volume del solido di rivoluzione e
che, ravvicinando tra loro le superficie di sezione, possono esser fatti
differire quanto poco si voglia tra loro. L'entrare in maggiori particolari
circa i molteplici risultati registrati in questo libro ci è vietato
dall'indole del presente scritto: ci basti il soggiungere che in esso è fornita
una luminosa prova della facoltà che Archimede possedeva in grado eminente di
modificare e di adattare il metodo di cui egli si serviva: i suoi procedimenti
son vere integrazioni e segnano i primi passi all'invenzione dell'analisi
infinitesimale della quale doveva poi gloriarsi il decimosettimo secolo.
L'ordine che ci siamo proposti
di seguire in questa nostra rapidissima rassegna ci porta a parlare di quel
libro di Archimede che vien giudicato il più notevole tra quelli di geometria
piana che ci vennero conservati, cioè le spirali. Il trattato è
indirizzato a Dositeo, e sono tra i teoremi in esso contenuti quelli dei quali,
come già per incidenza abbiano avvertito, la morte aveva impedito a Conone di
trovare la dimostrazione.
La spirale di Archimede è la
prima curva che comparisce nella geometria, generata contemporaneamente da una
doppia specie di movimenti e da elementi mossi. Galileo la dice «generata da un
punto che si muove uniformemente sopra una linea retta, mentre essa pur
uniformemente si gira intorno ad uno dei suoi estremi punti, fisso come centro
del suo rivolgimento»: meglio non potrebbero tradursi le parole stesse di
Archimede. Il quale non si tenne ad insegnare la costruzione della nuova curva,
ma ne trovò le tangenti e le aree comprese tra la posizione iniziale della
retta mobile e le varie spire. Delle molte proprietà da lui scoperte tuttavia
le dimostrazioni non apparvero di facile studio a parecchi insigni matematici:
il Vieta le giudicò paralogismi, il Bouillaud, anche dopo averle sviluppate,
temette di non averle ben comprese, e forse non trovarono un sicuro interprete
prima del Cavalieri, il quale per gli studii condotti intorno ad esse meritò
d'esser detto da Galileo: «emulo di Archimede».
Passando dal campo della
geometria a quello della meccanica, per formarsi un giusto concetto del
contributo recatovi da Archimede, oltre ai libri dell'equilibrio dei piani, ed
a quelli dei galleggianti, dei quali abbiamo già tenuto parola, converrebbe
conoscere anche quell'altro di cui si trova menzione sotto i titoli: dei
sostegni, delle leve, dell'equilibrio tra i pesi, ed anche dell'equilibrio
delle figure nelle quali sono impiegate delle leve, già perduto fino dai tempi
di Pappo, e nel quale assai verisimilmente era contenuta la definizione di
centro di gravità che Archimede stesso scrive in altro suo lavoro d'avere già
data, ma che non si trova in questi dell'equilibrio dei piani. In
essi sono veramente posti i fondamenti della statica con lo sforzo evidente ed
ammirabile di non enunciare alcuna nuova proposizione che non si deduca
rigorosissimamente da postulati chiari ed esplicitamente enunciati: così egli
arriva alle due proposizioni fondamentali dell'equilibrio fra due grandezze
commensurabili quando siano reciprocamente proporzionali alle distanze alle
quali sono sospese. I rimanenti teoremi del primo e del secondo libro hanno per
fine la determinazione dei centri di gravità del parallelogrammo, del
triangolo, del trapezio e del segmento parabolico, nella quale si hanno
integrazioni che forse in ordine di tempo sono le prime alle quali sia giunto
Archimede. E forse con questi libri hanno relazione quegli elementi di
meccanica dei quali si ha memoria soltanto per la citazione che ne fu rinvenuta
in un frammento delle scritture sulle galleggianti, da non molto scoperto.
Tra il primo ed il secondo libro
dell'equilibrio dei piani viene ad inserirsi, come abbiamo già avvertito, la quadratura
della parabola, questa pure indirizzata a Dositeo, e che vien considerata
come quella che mette in maggior luce la sagacia del grande Siracusano. E qui
non sarà fuori di luogo notare che già nel libro dei conoidi e sferoidi
Archimede aveva dimostrato la notevole proposizione concernente il rapporto tra
l'area dell'ellisse e quella del cerchio avente per diametro l'asse maggiore,
rapporto che è lo stesso di quello che passa tra l'asse minore ed il maggiore;
ma soggiungendo però subito che nel presente libro si porge il primo esempio di
quadratura di un'area limitata da linee non tutte rette nè tutte curve.
Premesse tre proprietà
elementari della parabola, che Archimede scrive essere state dimostrate ne'
trattati sulle coniche, senza dire se suoi o d'altri, procede alla esposizione
di due metodi diversi. Il primo, ch'egli chiama per via meccanica, e col quale
trova la superficie del segmento limitato da un arco di parabola e dalla sua
corda, appoggiandosi sui teoremi dei momenti statici e del centro di gravità
del triangolo già esposti nel primo libro dell'equilibrio dei piani. Nel
secondo, puramente geometrico, osservato che il triangolo inscritto nel
segmento parabolico (avente cioè per base la base del segmento e per vertice il
punto in cui la tangente è parallela alla base) è maggiore della metà di questo
segmento, ne conchiude che se si continua la formazione della figura poligonale
regolarmente inscritta, la superficie di questa potrà differire quanto poco si
voglia da quella del segmento. Egli impiega la somma di una progressione
geometrica decrescente: inscrive prima nella parabola un triangolo, poi un
altro ancora in ciascuno dei due segmenti rimanenti, ed analogamente nei
quattro, otto, sedici e così via che risultano da queste specie di continua
bisezione, e trova che la somma di tutti quei triangoli è i quattro terzi del
triangolo inscritto, risultato al quale era già pervenuto seguendo il metodo
meccanico.
Più brevemente ancora diremo dei
lemmi consistenti in una raccolta di eleganti proposizioni di geometria
piana, di certo però non stese da Archimede nella forma che ci fu conservata
dagli Arabi, e che verisimilmente sono tratte da altre scritture originali e
che non giunsero sino a noi. Notevoli fra le altre quelle relative alla
quadratura dell'arbelo e del salinon, figure analoghe alle celebri lunule
d'Ippocrate, e nella prima delle quali occorrono quasi per incidenza il teorema
delle tre altezze del triangolo che si tagliano in un punto e quello
concernente la trisezione dell'angolo.
Ma non vogliamo compiere la
rivista dei lavori geometrici di Archimede senza accennare almeno ad un altro
ordine di indagini da lui compiute e delle quali la memoria ci fu conservata da
Pappo: questi infatti, per dimostrare che la sfera è tra i corpi quello che a
parità di superficie racchiude il massimo volume, la paragona ad altre figure
ad essa inscritte e sceglie, oltre i cinque regolari, altri solidi solo
parzialmente regolari, cioè limitati da faccie equilatere ed equiangole, ma non
tutte simili, aggiungendo che sono in numero di tredici e furono scoperte da
Archimede, senza dire però nè a qual fine nè con quali mezzi avesse proceduto
nelle indagini relative, che certamente ci sarebbero state rivelate se fosse a
noi pervenuto quel libro sui poliedri che gli viene attribuito, ma che andò
perduto.
E del pari, se pur di Archimede,
non è nella sua forma originale il cosiddetto problema bovino, fatto per
la prima volta conoscere dal Lessing, ed intorno alla autenticità del quale
lungamente si discusse in Germania ed in Francia: anche il Gauss sembra
essersene occupato, benchè nulla a questo proposito abbia dato alla luce. Nella
sua forma attuale (è steso in dialetto ionico, usato sempre dai Greci nei poemi
epici ed elegiaci) esso è con tutta verisimiglianza posteriore ad Archimede, ma
quanto al problema in sè stesso, è non solo possibile ma anche probabile che
sia a lui dovuto.
Tale problema, che figura
indirizzato ad Eratostene, consiste nel determinare il numero dei buoi del
sole, che pascevano un tempo sulle pianure della Sicilia, distinti in quattro
mandre di diverso colore: ne fanno parte tori e giovenche distribuiti in gruppi
nei quali entrano in proporzioni diverse che vengono specificate. Il problema è
di analisi indeterminata, e basti il dire che la soluzione minima darebbe un
numero di buoi rappresentato da una cifra seguita da oltre duecentomila zeri,
tale in somma che non solo tutta la Sicilia, ma nemmeno la superficie tutta
della terra basterebbe a contenerli. E del resto non sarebbe stato questo il
primo caso di problemi intricatissimi ed anche falsi lanciati da Archimede per
mettere in imbarazzo e convincere di menzogna i geometri del suo tempo; e lo
dice espressamente nell'introduzione alle spirali.
Non deve poi recar meraviglia
se, attesa la fama grandissima di Archimede e le leggende che andarono formandosi
intorno a lui, gli siano stati attribuiti scritti ed invenzioni ch'egli non
sognò mai: anzi delle invenzioni è detto che furono quaranta e più, e degli
scritti geometrici vuolsi ne abbia lasciati ancora sull'eptangolo nel cerchio,
sui cerchi tangenti, sulle parallele, sui triangoli, sulle proprietà dei
triangoli rettangoli, sui dati e sulle definizioni, ed or non ha molto fu edita
una lettera ch'egli avrebbe indirizzata a Gelone, ma che fu riconosciuta
apocrifa.
Ai lavori di meno dubbia
autenticità ed ai quali, e per le affermazioni di lui stesso o di altri degni
di fede, possiamo credere abbia Archimede effettivamente atteso, si è già per
incidenza accennato più sopra ogni qualvolta se ne offerse l'occasione,
toccando di argomenti aventi con essi una qualche analogia: ad eccezione però
di uno del quale ci siamo riservati di trattare qui in sulla fine.
È questo l'ephodion
menzionato da Suida ed al quale Teodosio da Tripoli avrebbe scritto un
commentario: il Rivault opinò che Archimede vi avesse descritto il suo viaggio
in Egitto; il Tannery che vi si trattasse delle corde del cerchio, lo Schmidt
che tale fosse il vero titolo della quadratura della parabola, e poichè la
greca parola significa «avviamento» e fu adoperata nel senso di «metodo» dopo Aristotele,
che vi fosse trattato del metodo di esaustione, od almeno che fosse il titolo
di un maggior lavoro del quale giunse a noi soltanto la quadratura della
parabola. Ma il più competente fra tutti gli studiosi di cose Archimedee,
l'Heiberg, appoggiandosi appunto sul significato della parola, opinò vi fosse
trattato del metodo nelle matematiche, e la sua può ben dirsi essere stata una
divinazione; e fu premio condegno alle sue fatiche la grande scoperta che or
son pochi anni mise a rumore la scarsa ma eletta schiera di studiosi che
attendono a ricerche sulla storia delle matematiche.
Nel 1907 infatti l'Heiberg
annunziava che, durante l'estate precedente, in Costantinopoli, e precisamente
nel metochion del monastero del Santo Sepolcro di Gerusalemme, egli aveva
potuto esaminare un manoscritto che, sotto un Euchologion del
decimoterzo secolo conteneva scritti di Archimede in un bel minuscolo del
decimo secolo, ed aveva riconosciuto, oltre a quelli dei quali abbiamo già per
incidenza fatto cenno, l'ephodion, cioè, per riferirne il titolo
completo, «Metodo dei teoremi meccanici di Archimede ad Eratostene».
Il metodo di esaustione di cui
Archimede aveva già fatto così felice uso, e per il quale, lo ripetiamo, egli è
giustamente risguardato come il più grande precursore dell'analisi
infinitesimale, costituisce pure la base dei nuovi procedimenti; ma in essi è
una nozione che per la prima volta comparisce nelle sue opere, quella cioè del
momento di una forza rispetto ad una retta e ad un piano: senza farne il nome egli
la impiega costantemente. Tradotto in linguaggio moderno il suo metodo consiste
nel confrontare due volumi considerati come solidi omogenei e nel mostrare che
i pesi dei loro elementi hanno lo stesso momento rispetto ad una retta data:
siccome uno dei due volumi è stato scelto in modo che questo momento risultante
fosse per esso noto, è noto del pari anche per l'altro. Come fu giustamente
osservato, se questa scoperta non trasforma il concetto che già si aveva
dell'opera di Archimede, essa la completa e la precisa, e mostra che il grande
Siracusano s'era portato nelle vie della scienza moderna assai più innanzi che
non si supponesse: essa accresce, se fosse possibile, la nostra ammirazione per
il suo genio maraviglioso. Sicchè riceve nuova conferma il giudizio del
Leibniz, il quale lasciò scritto che coloro i quali sono in grado di
comprendere Archimede, ammirano assai meno le scoperte dei maggiori uomini
moderni.
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