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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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ORIGINE DELLA POLENTA

NOVELLA

I.
Peambolo non inutile

 

Oh quante bocche brince, quanti nasi raggrinzati di amabili signore, all’udirsi annunziare una novella di Polenta! Che giudizio! turbare col cibo del contadino palati che solo fanno delizia del caffè col fior di latte, delle vivande più squisite che sappia creare il più esperto cuoco? Oh certo mi daranno del seccatore! e non sarà la prima l’ultima volta; chino il capo, e così sia: però chi non vuole udirmi riponga il libro, e cerchi il Corriere delle Dame ove è la sciarada, ed ivi acqueti la mente, giacchè io non voristarmi dal mio proposito.

[448] Sì, io sono appassionato per la Polenta, e la prediligo non solo come un Turco la pipa, come un Inglese il the, come un Milanese la busecca (parola tecnica con licenza della Crusca), ma come Petrarca madama Laura. Se fossi poeta canterei le sue lodi per trent’anni, come appunto ei fece; la mia bella scadrebbe a petto dell’Avignonese. Vi è da dubitarne? sempre tenera, carni tremolanti, forme ritondette e piene, un calore che la informa di fuoco amoroso, biondo il capo e paglierine le vesti; anela sempre tiepidi sospiri, un fiato soave che sparge effluvi di paradiso e si levano tremolanti, vorticosi come incensi votivi d’un’ara: insomma un’essere incomparabile, unico, come dicono gli amanti di tutte le loro belle.

Delle peregrine doti che la fregiano poi, non ne parlo: avrebbe tutte le virtù sociali. — Non saprebbe è vero la mia eroina, come le nostre fanciulle, balbettare poche ciance in francese nella conversazione invece di parlare italiano; disegnare, suonare il cembalo, o fare quattro trilli; non saprebbe parlare di Walter-Scott, della Luisa Strozzi e della Malibran; ma nel suo silenzio tutto modesto vi sarebbe una sublimità da commuovere le viscere. ciò solo; essa vale ad accomodare lo stomaco, mentre di consueto le belle lo turbano; a dare forza ai nervi i mentre quelle li riducono a sfinimento colle passioni del sentimentalismo; si accomoda mansueta a tutti i desiderj, mentre quelle vogliono che gli amanti [449] servano ai loro; si presta a soccorrere l’umana famiglia, mentre quelle ne sono spesso lo scompiglio; insomma Madonna Polenta sarebbe un simbolo del puro stato eroico dell’uomo, la vera bellezza estetica realizzata del nostro secolo, un personaggio per un dramma di Romani, ove certo nessun critico indigesto troverebbe immoralità.

Con tanto amore per la Polenta, corro volontieri a visitarla, specialmente se mi è offerta gratuitamente, perchè in amore piace la generosità; raccolgo i libri ove se ne parla, tutti gli aneddoti ed i fasti che le appartengono; insomma tengo dietro all’andamento della sua storia, come Romagnosi a quella dell’incivilimento: ognuno fa la sua parte a misura del cervello che natura gli ha dato a questo mondo; e il mio fu creato per la Polenta, e perciò faccio articoli per giornali.

Tra questa continua ansia di ricerche, mi commossi vedendo nominata la mia Dea in un giornale che si stampa a Milano in tedesco, intitolato Eco, compilato da valenti letterati alemanni, e col quale si fanno conoscere in Germania tutte le nostre nuove opere, invenzioni, le scienze ed i costumi d’Italia ed ha questa epigrafe: — Salve terra beata e sempre suoni — Sul labbro de’ poeti il tuo bel nome, —.... onde commosso — Ferve il pensiero e l’alma si solleva.

In questo foglio nel mese di maggio, appunto pel desiderio di rivendicare all’Italia la prima introduzione del grano onde si fa la vera Polenta, [450] venne riferito uno sbaglio preso dal Michaud nella Storia delle Crociate, vol. 3 nota 14, ripetuto poi dal Darù, Storia della Repubblica di Venezia, sulla fine del libro quarto. Il Michaud riporta un documento cavato dalla Storia d’Incisa e pubblicato in Asti nel 1810, redatto per mano di notai nella chiesa parrocchiale di Monferrato nell’anno 1204, ove è testificato — che certi Jacobo e Antoniello, reduci dall’Oriente, fecero dono alla loro patria d’una borsa piena di semi o grani di colore d’oro, e parte croceo, non prima veduto nelle nostre contrade, che dissero aver preso nelle provincie d’Asia, di Natolia, e chiamarsi meliga, la quale col volgere del tempo poteva riuscire di grande sussidio e reddito al loro paese. Il marchese Enrico ed i consoli deposero nel pubblico archivio quel grano per seminarlo e raccoglierne il frutto a utilità di quella popolazione, ove lo favorissero la fortuna, la terra e l’aria. —

Questo documento, come venne interpretato da Michaud, darebbe il merito ai due cavalieri italiani, d’avere introdotto in Europa il grano, onde si fa la farina per la Polenta nel 1204, di essere stata l’Italia la prima ad accoglierlo e coltivarlo, e quindi non essere altrimenti venuto dall’America, come si crede, ma dall’Asia. Quando vidi quella nota anch’io ne feci le meraviglie, ma svolti alcuni libri m’accorsi ch’era un errore, e sebbene ne lamentassi perchè toglieva al nostro paese merito d’un antico trovato, sono sollecito di [451] annunziarlo come tutti gli amanti che studiano sempre scemare gli anni all’idolo del loro cuore.

Il Mais che si chiama di consueto grano d’India, o grano turco, non è certamente dell’Asia, dell’Affrica, e tutti i viaggiatori che andarono in quelle contrade prima del secolo xvi, e ne descrissero le produzioni, non parlarono mai di questa pianta; essa è originaria dell’America, e non venne portata in Europa che dopo la scoperta di Cristoforo Colombo, avvenuta come ognun sa nell’anno 1492. Gli Europei, che andarono al nuovo mondo dopo che quel Grande si aprì la strada fra le tempeste, sfidando l’intentato mare, trovarono il Mais coltivato alle Antille, al Messico, al Perù; e a san Domingo i naturali lo offrirono loro in dono. In quelle regioni si valevano di questo cereale per base di tutti i nutrimenti, se ne valevano di moneta nel commercio, ed erapregiato che con questo alcune vergini elette facevano il pane pei sacrificj, e ne componevano una bevanda esilarante pei festivi: in fine in ogni parte vi erano instituite feste solenni per la raccolta di sì prezioso cibo. Fu solo dopo questa scoperta che il Mais venne trasportato in Europa e quivi coltivato. In fatto nessuno scrittore antico italiano ne parla, ed il Villani allorchè tocca del pan della Sagina, la quale ora alcuni confondono col Mais, discorre di pane nero come la mora, indizio ch’era un’altra pianta. Di Polenta poi non ne ragionano; tutti que’ nostri [452] classici erano ciechi a questa beatitudine. Il Crescenzi discorre di Polenta come medicamento, poichè dice che pesta colla lattuga vale a medicare le ferite ed a stagnare il sangue, e sarà stata composta con farina bianca o di altri cereali. Lo stesso Baldi che nella sua poesia pastorale, Celeo o l’Orto, descrivendo il modo di fare la Polenta, usa la farina bianca — Per fissa tela. — Fece passar di setola contesta — Di Cerere il tesor che in bianca polve — Ridotto avea sotto il pesante giro — Della volubil pietra. — Ed è perciò che quel pastore per renderla un po’ saporita, vi mescea non solo burro e cacio, ma erbe odorose e frutti. Profano! avrebbe egli osato contaminare con erbe e frutti la Polenta, che vergine e pura è una vera manna? è come una fanciulla di quindici anni che non bisogna ornamenti per piacere? Conviene quindi conchiudere che fino oltre alla metà del secolo xvi, cioè cinquant’anni dopo la scoperta d’America, non si usava ancora fra di noi il Mais per questa vivanda, ciò che non potrebbe essere avvenuto se si fosse portata quella pianta a Monferrato sul principio del ducento.

Quindi conviene conchiudere, che il grano donato da quei due seguaci del marchese di Monferrato, era la vera meliga, ossia il Sorgo, Holcus de’ botanici, che si usa per le scope e il cui grano di alcune specie, è buono per fare paste specialmente dure e maccheroni; e appunto è originario dell’Affrica, e non conviene confonderlo col prezioso e biondo onde si forma la vera Polenta.

[453] Ma alcuni ne rimprovereranno: — Perchè tanta sollecitudine di togliere questo merito al nostro paese? — Piano, signori: primamente la verità va innanzi tutto; e poi la è un’altra questione. Questo merito è nostro egualmente, e fu Cristoforo Colombo che dall’America recò il primo in Europa quel grano; ma gli Spagnuoli ai quali portò insieme l’oro, e corsero nelle nuove terre ad ucciderne pietosamente coi cani da caccia gli abitatori per rapire loro quel metallo, poco si curavano di quel grano, che il modesto Genovese avrà riguardato come prezioso un giorno per le popolazioni d’Europa. Diffatti gli Spagnuoli perdettero le Americhe ed i tesori che ne ritraevano, e sta sopra di loro l’onta di tante crudeltà; ma resta pura, incontaminata la gloria degl’Italiani, d’avere scoperto quel continente senza essersi macchiati nei delitti dei conquistatori; di non aver desiderato quel metallo pericoloso, e invece d’avere propagata la coltura di un seme che cresce nella landa, e sul declivio del colle, che offre il pane dell’innocenza al contadino ed al pastore; che il cibo più semplice dell’uomo; che è romantico perchè moderno, ma certo meriterebbe d’essere classico e d’avere imbalsamata la bocca di Dante, e temperategli le tribulazioni della vita, allorchè sentiva quanto sapesse di sale il pane altrui.

Pare poi che anche gli Americani non sapessero fare la Polenta, perchè nessuno viaggiatore antico che mi ricorda, ne parla; balordi si vede che [454] non avevano incivilimento! La vera Polenta gialla pare proprio creazione italiana e stata inventata su d’un monte, e se ne deve l’inspirazione all’amore, perchè questa gentile passione, anima dell’Universo, doveva essere pure il creatore di questo confortativo: uditene la storia, e se non vi credete, pazienza.

 

 




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