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Defendente Sacchi Novelle e racconti IntraText CT - Lettura del testo |
II.
La prima polenta
Negli anni miei più giovanili, correva i colli traspadani, che sono a pedale de’ monti liguri, per visitare torri e castelli del medio evo. Ivi furono i feudi imperiali, ivi i feudi de’ Malaspina, signori di cento rocche e degli Adorni, dei Doria, e più tardi dei Beccaria e Del Verme. Era una società di signori indipendenti, chiusi in un gruppo di montagne che facevano guerre e paci, nozze e feste, e potrebbersi pareggiare agli eroi d’Ossian: manca solo il poeta che ne raccolga le tradizioni, e le adorni di splendida veste.
Ma quelle tradizioni incominciano ad affievolirsi, perchè la benedetta ragione sparge lo scetticismo fino sui monti, e quando io dimandava que’ montanari di alcuni antichi avvenimenti che aveva udito narrare, e ne’ quali è sempre frammisto l’immaginoso della favola, mi sorridevano, e quasi [455] vergognando, rispondevano: — Storie de’ nostri vecchi. — Pure in quelle storie è la poesia del sentimento, ed io a buone gambe m’aggrappava su dirupi, correva vallate per raccoglierne il meglio che mi riesciva.
Un dì salii sul Cesarino, che è il monte più alto dei dintorni di Casteggio, e si crede pigliasse questo nome, perchè Cesare vi tenesse accampamento. Visitai le belle valli che sono sul pendio fra i boschi che tutto lo rivestono; visitai Travaglino, villa dilettosa a metà il monte; e la casetta che ne è sulla sommità, e d'onde si ha da un lato la bella veduta della valle Lombarda, e dall’altra il salire delle alpi liguri: indi calando per le vie tortuose capitai a un rustico casolare ascoso fra quelle folte macchie.
Mi furono tosto intorno i buoni contadini che lo abitavano, e mi offrirono una refezione; accettai e mi imbandirono il formaggio fatto col latte delle loro pecore, e un pane nero assai saporito. Siccome mi posi a cibarne di buon appetito, la massaja disse, che se voleva la Polenta, in breve me l’avrebbe allestita, perchè aveva già pronto il pajuolo al fuoco coll’acqua calda, essendo presta ad apparecchiare il pranzo pei figli. Mi si allargò il cuore, perchè all’udirmi nominare la Polenta sento sorgermi tosto l’acquolino in bocca, e feci un sorriso.
La buona donna m’intese, e presto trasse dalla madia un piatto ricolmo di farina; soffiò nel [456] fuoco, sorse la fiamma, gorgogliò l’acqua nel recipiente, ed ella vi gittò la farina. Indi prese un legno che come il lituo antico, aveva torta una estremità, fermò il pajuolo al frontone del cammino con una tegola, e si pose colla cannella a rivolgervi per entro, e in quel lavorìo si disegnava con tanta leggiadrìa tutta la persona, che l’era proprio a vederla una grazia campestre.
Dalli, volta, gira, cominciava ad effondersi dal caldaio un grato odore; quella pasta che prima era sgranata a frantumi, si fondeva insieme, e si apprendeva alla cannella; si udiva un bulichio celato; e spesso il condensato vapore ascoso si apriva la via e mandava un fragore. Poi quella pasta si rapprendeva, e si staccava dalla parete del pajuolo, sicchè vedendola omai a buona cottura la donna staccò il recipiente dalla catena da cui pendeva, lo pose sulla bragia, vi diede l’ultimo rimestìo, e con un riso rivolgendosi, disse: — È cotta. —
Prese il pajuolo pel manico, ed accostatasi al tavolo, ove il marito aveva posto una pulita tafferia, vi riversò sopra la Polenta che spargeva un gratissimo fumo.
Io era stato sempre silenzioso ad osservare quel lavorìo, come se avessi assistito a un artista che creasse colla creta una statua: quando la vivanda fu sul tavolo e vi si posero intorno degli scranni, presi posto, e volli che sedesse al mio fianco il pastore.
[457] Giunsero intanto i figli e si strinsero intorno al tavolo, e tosto la donna pigliata un’agugliata di refe, si mise a far fette della Polenta. Io ne presi sur un piatto col formaggio montagnuolo e la cibava: la donna non voleva sedere, ma sollecitata mi si pose di fronte, sopra una panca con due figli a lato, e si compiaceva vedendo il mio appetito:
— Non ne ho mangiata mai di più squisita.
— Eh! mia moglie, aggiunse il contadino, è maestra; imparò a farla sul suo monte presso il Goreo, dove si respira l’aria di Genova. Diamine, è del paese ove s’inventò la Polenta! —
Queste parole mi scossero; maravigliai come un antiquario quando trova fra i ruderi la testa di un’antica divinità; sospesi la mano col boccone che portava la bocca: — Inventata la Polenta nel vostro paese! — e guardai alla donna.
Essa con un’aria modesta e discreta:
— Almeno lo dicono: ma sono di quelle panzane che si narrano nelle stalle d’inverno, e fanno ridere i signori.
— Oibò! io non rido: sappiate che conosco la storia del diavolo che portò via i prigionieri da Oramala: quella della grotta di Valverde, ove si fabbricava moneta falsa: l’altra del fantasma del Penice; sono tutti fatti che mi piace sentire, via narratemi anche questo, ve ne sarò grato —.
[458] La donna si faceva un po’ rossa, chinava gli occhi, e accarezzava una figlia che le era vicina: io la sollecitava, perchè mentre si mangiava, ne ricreasse; e il marito aggiunse:
— Via: dì su questa storia; non avere vergogna di questo signore; l’hai narrata tante volte! se no la racconto io, e poi dirai che la ho storpiata. —
Questa minaccia potè sull’animo della contadina più della preghiera, tanto è naturale l’amore del proprio luogo; fe’ cenno di accondiscendere, prese il refe, tagliò una buona fetta di Polenta, ne mangiò un boccone, e cominciò il suo racconto, tenendo gli occhi fissi sul piatto.
— Narrano nel mio paese che un grande di Genova, il quale aveva un castello al Goreo, ed era signore di molte terre, portò sul monte, avranno più di trecento anni, molta melica: l’ebbe in dono da6 un altro genovese che l’aveva portata dal nuovo mondo, dove era per la prima volta andato: il signore la divise fra’ suoi vassalli e servi, che la seminarono e ne fecero buon raccolto, sicchè la tennero in luogo del frumento. In breve trovato utile quel grano se ne propagò la coltura per tutta la montagna, e colla farina se ne faceva un pane giallo: ma per lungo tempo nessuno pensò ad usarla per la Polenta. Non pare vero! l’è una cosa così da niente, eppure vi bisognava una disgrazia e una buona donna... — E qui pigliava un boccone e ne dava un altro [459] al gatto, che era spiccato sul tavolo, e con una zampa se le ricordava toccandole la mano: — Tè, povera bestia: mangia tu pure alla salute di questo signore: Ah ti piace neh! povero micio! —
Poi guardava ai figli, e distribuiva a tutti nuova porzione del cibo; si compiaceva di vedere il mio appetito, e mi animava a pigliarne di nuovo.
— Grazie, buona donna, non dubitate che mangio; ma seguite a raccontarmi come l’andò colla Polenta. —
Ella s’era già dimenticata del discorso, sicchè quasi risvegliandosi esclamò: Ah! e fece un atto come chi rimprovera a se stesso d'una dimenticanza, e guardandomi con più famigliarità, riprese:
— Là sul monte verso il Goreo vi sono sparsi varj casali: quattro capanne, quattro casucce fabbricate coi sassi della Trebbia, formano un paese, Fontana Rossa, ed altri; nel luogo più eminente era il castello del feudatario. In uno di questi paesi saranno trecent’anni, abitava un montanaro forte, robusto; un diavolo che strappava una pianta, portava una trave, come se fossero una paglia; gran cuore, servizievole, pronto: ove bisognava una mano, dove occorreva un ajuto, ove era una disgrazia da riparare, era presente: Rizzino di qua, Rizzino di là, tutti lo volevano e tutti lo amavano. Dopo i Conti e i Marchesi di Pregola e di Ottone, Rizzino era l’uomo il più [460] stimato della montagna, e lo stesso Malaspina, e il Doria sovente lo chiamavano ai loro castelli per qualche bisogno: essi lo amavano assai, e parlavano con lui famigliarmente, e spesso in pubblico quando camminava al loro fianco ragionando, gli facevano tenere il cappello in testa, e appoggiavano la loro mano sulla sua spalla. Rizzino lavorava per tutti, ma se fiatava otteneva qualunque grazia fino presso al Doge di Genova.
Però dalli, dalli, con quel lavorare, finalmente Rizzino ammalò; febbri da cavallo, freneticava, si sbatteva in letto, e faceva tremare la stanza. Appena si sparse la notizia che Rizzino era ammalato, si commossero tutti i montanari, e correvano dalla moglie, poveraccia, che gli stava piangendo al letto, e le portavano uova, polli, burro, e consolazione. Ma Rizzino non voleva vicina che la sua buona Rosa, non voleva altro medicamento che il digiuno e l’acqua fresca di Fontana Rossa.
Forse se lo lasciavano fare a suo modo, in pochi dì era guarito; ma seppe il marchese di quel male, e mandò giù dal castello un suo segretario, che era un mago, e faceva succhi con erbe; insomma un medico. Questi cominciò a dargli certe bevande che gli commossero lo stomaco; Rizzino non le voleva, e dimandava l’acqua della fontana, tutti dicevano alla moglie che sarebbe morto se non si ajutava con que’ medicamenti, ed ella il pregava con tante carezze, che il buon [461] uomo si arrese. Capitò anche da Pregola un altro dottore e si accordò col primo nel seguitare con que’ rimedj, sicchè in fine al povero Rizzino cessò la febbre; ma restò sul letto fiacco come uno straccio e non poteva inghiottire il più piccolo cibo, perchè gli faceva un gran male.
La seconda malattia parve peggiore della prima, e per quanto i medici gli dessero succhi d’altre erbe amare, non vi era modo che ripigliasse forza allo stomaco ed alla persona. Tutti i signori de’ castelli vicini mandavano alla moglie di Rizzino brodi di galline e pan bianco, per grattugiare, e fare una minestra al marito; ma era invano, il povero uomo non poteva digerirla. La debolezza cresceva ogni giorno; i medici disputavano e scuotevano il capo, e raccomandavano dieta. Tutti chiedevano notizie di Rizzino, e rispondevano stringendosi nelle spalle: intanto Rizzino vedendosi a mal partito, cominciava a bestemmiare i medicamenti, e a dire che lo avevano spacciato e la povera moglie a disperare.
Rimediò la Provvidenza. Un dì, dopo che la povera donna era stata tutta la giornata senza toccar cibo, fra tante angustie, si mise a bocconare una focaccia di farina di melica, che una vicina le portò appena cavata dal forno: Rizzino guardava quel cibo e lo divorava cogli occhi. Rosa che cercava spiargli sul volto ogni suo desiderio, accostatasegli:
— Di’, mio caro, ti piacerebbe questa [462] focaccia? ne vorresti un pochetto?... e se ti fa male? poveretta a me!... —
Il malato era sì affievolito che quasi non poteva far parola; ma la guardò fisamente con quel fare di chi chiede e prega per una grazia. Rosa si commosse, prese un boccone della focaccia, gliela pose in bocca; ei la divorò. La donna stava trepidante a guardarlo, quasi temesse di vederlo morire, e invece s’accorse che il suo volto prendeva un poco di serenità: si fece d’animo, e udito dal marito che quel boccone non gli pesava allo stomaco come il pan trito, gliene diede un secondo, e Rizzino riprese un po’ di forza, e guardandola con riconoscenza le disse con fioca voce:
— Cara Rosa; questa, vedi, è la migliore medicina: dammi ancora di quel pane. —
La donna ne fu lietissima, e assisasi vicina a lui, a lunghi intervalli gli sporse buona parte della focaccia. Così fece alla dimane, ed egli a poco a poco riprendeva forza, e digeriva quel pane asciutto; e solo sentiva alcuna molestia quando mangiava la crosta.
Allora Rosa pensò a trovare un rimedio, perchè s’accorse che anche la mollica quando era fredda gli metteva un po’ di noja. — Eh signore! noi altre povere donne per questi cani di mariti facciamo l’impossibile: dillo tu, Tonio mio: io, vede, mi consumo per lui, e per questa casa, eppure sono tre anni che m’ha promesso uno [463] spillo per metter nelle treccie il dì della festa, e non c’è verso che capiti mai; basta, se ti ammali… —
Al montanaro piacque questa pausa della moglie e rideva sì di cuore che mostrava due fila di bellissimi denti bianchi come perle; mi guardava gongolando, e presa la destra della moglie, e postola sulla propria coll’altra l’accarezzava, e voltosi a me:
— Non le creda niente, signore: borbotta, ma ha un cuore grande come la Provvidenza; se mi vede solo melanconico, trema; se mi sento male, piange: oh l’è buona come il miele! —
La contadina chinò un poco il capo arrossendo a quelle lodi, ed io guardandola:
— Brava, brava; si vede che vostro marito ha ragione: non temete, lo spillo verrà; intanto narratemi che facesse la buona Rosa.
L’altra tosto riprese: — Dunque, come dicevo... dove son rimasta? — e ritrasse la mano da quelle del marito, e la corse sulla fronte quasi per ajutarsi a cercare i pensieri. Un fanciullo che sapeva quella storia perchè gliela aveva udita narrare sovente, soggiunse:
— Mamma, quando parla da sè. — Ella riprese tosto il filo del racconto.
— Sì, Rosa dopo quanto era avvenuto, ragionò con se stessa e disse. — I medici ordinano il pane bianco grattugiato e cotto, e fa male al povero Rizzino; io gli ho data la focaccia [464] gialla, e la digerisce, sebbene qualche volta gli faccia un po’di peso... la mollica calda gli giova meglio... e se provassi col pan giallo, o colla farina a fare il pan trito? se preparassi della mollica sola?... Amor di marito aguzza l’ingegno eh! Mentre borbotta fra sè, prende della farina gialla, la bagna con dell’acqua, ne compone una focaccia, la mette sotto la bragia. La cosa andò meglio, ma quel cibo sapeva troppo di farina, spesso di fumo.
Pensa, pensa la buona Rosa, e invece di porre sotto cenere quella pasta immaginò di gittarla nel pajuolo che aveva a fuoco levandovi l’acqua; la prova riescì, ma la pasta indurì presto, sentiva dell’abbrustolito, e il caldaretto abbruciava: per salvarlo Rosa un’altra volta vi mesce dell’acqua, e la pasta cuoce in un modo nuovo, si forma una vivanda che non è dura come il pane, ma è consistente, soffice e saporita. L’ammalato la ciba, la digerisce, e prende appetito. Rosa rinnova a un altro dì l’esperimento, il marito ne mangia e migliora, e in pochi giorni racquista le forze smarrite: si leva dal letto, esce di casa, corre la montagna: in breve si fece grasso e forte come prima.
Tutti meravigliano, gli chiedono come l’andasse, ed ei risponde essere la medicina di sua moglie, e intanto lo vedevano far ogni dì miglior cera. Anche la Rosa cibava la nuova vivanda, e fosse la tregua de passati affanni, fosse la Polenta, rimise carne, e si fe’ lucida e bella più che mai.
[465] Tutti volevano sapere di questa medicina, ed anche il marchese ne era curioso: Rizzino lo narrò, ma non vi credevano, perchè pareva loro che quella farina non potesse riescire di buon sapore che cotta al forno o sotto la bragia; allora Rizzino li invitava a cibare quella vivanda a casa sua e ne uscivano leccando le labbra.
Molti il pregavano perchè la moglie insegnasse loro a cuocere la nuova pietanza; veramente esso non ne aveva gran voglia, ma si arrese quando il curato gli disse che i benefizj devono essere comuni, e che un buon galantuomo deve fare parte agli altri del proprio. Allora fu stabilito che un giorno di domenica Rosa la cucinerebbe in presenza di tutti. Il marchese fe’ preparare in castello un bel pajuolo, un bel fuoco e la farina, è chiamò intorno i suoi vassalli e servi, e la donna ajutata da Rizzino, fece la buona vivanda, e tutti ne mangiarono come se fosse manna, e le diedero tante lodi ed evviva che più non si poteva. Tutti dissero che quella pietanza era il cibo dei poveri, e la chiamarono Polenta, perchè simile a quella che si usava fare colla farina bianca.
Traevano gente da ogni parte a vedere la donna di Rizzino, e volevano avere da lei istruzione del modo di fare la Polenta. Per alcuni anni si tenne una festa, nella quale in sulla piazza della chiesa si cuoceva la Polenta, e si mangiava in comunione; e dura tuttavia sulla montagna caro a tutti il nome della buona Rosa.
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