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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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LIBRO PRIMO.

 

Tutto il calle de’ piaceri

Corser l’orde inebriate:

Ebber lividi pensieri,

Ebber mani insanguinate:

S’incontraro e inulti furo

La bestemmia e lo spergiuro

Sulle tombe e sugli altar.

Borghi.

 

I.

 

Tenea già da centotrentanni il dominio d’Italia la gente Longobarda; calate a torma dalla gelida Scizia, colle donne, cofigli, coservi, cogli armenti, conquistarono l’infortunata penisola e ridottala in proprio servaggio si presero i regni e le città, si presero i privati dominii e le terre, e spossedutine [500] gli antichi signori, le divisero fra i seguaci della rapina. Dominavano colla forza e col ferro, toglievano ai vinti gli averi, la religione, l’onore, gli lasciavano loro che per farli servi la vita.

Era quindi fiera nimistà fra i due popoli ed inconciliata divisione, se esser può nimistà fra chi impera e trafigge, chi geme e cade.

Il popolo vinto cui d’antico non restava che il nome, era squallido, tremante; ogni apponea a ventura se la longobarda spada gli acconsentiva il vivere, correa palpitando le vie e facea ossequio al passare oltracotante del più vile de’ barbari; coltivava lagrimando la terra, della quale era stato un giorno padrone, e ne sporgea colle timide mani al vincitore i frutti, lieto che non gli impedisse gemere sulle avite zolle, e fattolo schiavo, ingordo nol mutasse coll’oro dello straniero. Aveano le donne in abbominio gli irsuti ceffi de’ fieri, palpitavano a’ procaci loro sguardi le madri, che si vedeano rapite le figlie, conculcate e vendute.

 

 

II.

 

Gemeano di tanta ferità gli oppressi, ma fra le chiuse pareti della casa, nelle tacite preghiere del tempio: aveano ad unico conforto, il tuonare contro a’ rapitori la voce del vicario di Dio a Roma, in cui sola a que’ era posta la dignità della itala nazione. Ben ripeteano in loro cuore le preci del divo Gregorio, ben gli applaudiano come egli [501] invocava l’armi de’ forti a sterminarli d’Italia, ma soffocavano nel petto quel pensiero, temendo non si riflettesse sul volto, e non fosse loro apposta a delitto una speranza.

Fra tante sciagure, era avventuroso cui men bieco si volgesse lo sguardo del dominatore: questi sdegnava scendere talora fino allo spregiato romano, perchè nella propria ignoranza gli valesse nello scrivere le ordinanze, le leggi e nelle cure del regno. Era grazia, era dono che forse rendea men timorosa la vita, ma era il dono de’ barbari e spesso comprato colla vergogna.

 

 

III.

 

Teodoro il seppe che di romana stirpe nella città di Pavia-Ticino, potè da Bertarid essere assunto tra’ grandi dello stato. Egli quando il vincitore di Garibald venne a morte, fu fra coloro che di forza e di ferro armati, ne alzarono il figlio Conibert sugli scudi e il proclamarono capo dei Longobardi, e gli posero in mano l’asta del potere. Ei perciò rinunziando all’antica nazione, obbliando le offese fatte a’ fratelli, i rapiti diritti e il dispetto de’ suoi, studiavasi adulare imitando fin nei costumi i vincitori. Recava raso il capo all’indietro fino all’occipizio, lunghe le chiome sull’innanzi, che ispide, neglette, gli cadeano divise sulla faccia; prolissa, irsuta la barba. Copriva la testa con un elmo angusto, rotondo, basso, senza cimiero e con [502] brevissimo rostro. Lasciate le robe e le toghe italiane, vestiva un ampio abito di lino a larghe liste di colore diverso; portava sandali aperti fino al pollice e raffermi al piede con alternati lacci di pelle; più sovente ed in ispecie se cavalcava, copriva le gambe con lunghe uose e sopravi calzari di corame. Andava sempre coll’arme al fianco, ed al nascente volgare della patria, trammischiava per vezzo i barbari accenti della Scizia.

I cittadini gliene davano biasimo, gli stessi congiunti avevano abbominio della sua viltà, ma ei non li curava, o lo stimolasse stolta ambizione, o desiderio anzi che patire il servaggio co’ suoi, dividere il poter feudale codominatori. Costui allorchè Conibert menò in moglie Ermelinda di Sassone stirpe, tripudiò al regale banchetto e imprudente promise addurre in corte qual damigella della regina, la figlia Teodote.

 

IV.

 

Orfana in tenera età della madre, avea la vergine italiana sempre condotta la vita fra le domestiche pareti, e toccava il quarto lustro oscura ed ossequiata. Bella di forma e d’animo, alta nella persona, avea bionda la folta chioma che solo legata di un nastro le cadea lungo le spalle; celesti le pupille che movea soavi e modeste, serena la fronte, e di tutta grazia la simpatica linea del volto, sul quale fra un gentile candore traspariva [503] un lieve colore di rosa che le infiorava le guancie. Sul labbro le sedea non il sorriso, non un severo ritegno, ma quella quiete che accenna le caste virtù del cuore: queste le diffondeano sulle angeliche sembianze un santo pudore, che a un tempo a riguardarla movea dall’animo i sospiri e un dolce ossequio.

Fra il bujo e l’ignoranza de’ tempi, studiavasi la giovinetta educare lo spirito, e col sentire i consigli di Felice, grammatico a que’ onorato in patria, e nel leggere le opere di Ennodio e i versi di Venanzio Fortunato. Elevava l’animo al cielo, s’inspirava nel santo amore per gli oppressi fratelli, colle eloquenti omelie su Ezechiello e le lettere del magno Gregorio. Quindi sentiva la dignità della romana nazione, perchè in que’ principj l’avea cresciuta la madre; e perchè la confortavano fra le comuni miserie.

Perciò non volle mai prendere parte agli infausti onori del padre, e sebbene non osasse dargliene biasimo, pure non gli applaudiva mai, anche quando parea richiedernela fra le vanità che gli sollecitavano il cuore ambizioso: chinava riverente e mesto il viso e non rispondea. Ei ben comprendeva la tacita rampogna, ma non volea sentirla, non ne faceva motto e non se ne richiamava, sicchè la figlia usavagli le più affettuose cure e avevagli gratitudine, perchè almeno la lasciasse libera a’ suoi desiderii.


[504]

 

V.

 

Impallidì Teodote quando il padre le annunziò che la regina la chiese a damigella, ed egli le avea data promessa di addurvela. Abbassò gli occhi incerti, dolenti, il pregò a pensare se quella cura e i tumulti della corte convenissero a lei giovane, orfana e desiderosa di solitudine. Come Teodoro non le rispose alcuna cosa, essa gli strinse affettuosa la destra e gli disse: — Padre non abbandonarmi — e congiunte le mani al petto si ritrasse nelle interne stanze. Sì gravi modi, quel riservato parlare, avevano spesso valso perchè Teodoro più non ripetesse una dimanda importuna alla fanciulla, chè ei pur l’amava teneramente; e sì potea questo affetto in lui, che pochi mesi innanzi vi cesse fino la interminata sua ambizione. Aveala dimandata in isposa un grande fra’ Longobardi insignito della carica di Gravione, ma allorchè quei ne richiese la figlia, avendogli ella con un dolente sospiro risposto, che romana fanciulla esser non potea che serva de’ barbari e non sposa, più non le rinnovò la sgradevole inchiesta. Ma il desiderio della regina e la sconsigliata promessa, il resero quella volta importuno: ondeggiò alquanto fra dubbi pensieri, poichè Teodote partì; pure spronato dalle sue nuove brame, poco dopo le tenne appresso per tentarne l’animo. La trovò nella propria stanza prostrata innanzi all’effigie d’Iddio crocifisso.


[505]

 

VI.

 

Erano non molti anni che i credenti aveano tolto ad effigiare per venerazione quel cruento mistero, poichè ne’ primi secoli del cristianesimo, non rappresentavasi la Divinità che con qualche mistico simbolo, o imperante in cielo o colla maestà dell’Eterno Padre. Fu più tardi sollecitudine dei devoti collocare la santa immagine del Salvatore sul vessillo della passione, ne’ templi e nelle case: questa era d’argento, grande quasi di naturale, lavorata siccome consentìano le povere arti a quei , non già tutta ferma alla croce coi chiodi del dolore, ma sostenuta a’ piedi da una maniera di sgabello pure d’argento.

Aveala Teodoro fatta lavorare a uno de’ migliori artisti di quel tempo, poichè la devozione della figlia il desiderava, ed egli amava apparire splendido anche fra i sacri voti, dopo che i Longobardi, sazj di perseguitare i Cristiani, ne avevano seguito il culto, e ne innalzavano chiese.

 

 

VII.

 

A’ pie’ di quella croce, genuflessa, inchinata, sostenendo colle palme il volto, piangea Teodote e pregava Iddio misericorde perchè sviasse dal suo capo il grave periglio, spirasse sensi diversi nel cuore del padre. Come esso le fu vicino, [506] presala per una mano, la sollevò dolcemente e chiamandola a nome, le protendea le braccia. Alzò le umide pupille la vergine, s’affissò negli occhi del padre e per leggervi il proprio destino, e parlargli dell’affanno ond’era agitata; si versò nel seno di lui, indi stringendolo con tenerezza d’amore gli baciava il capo che negli amplessi le avea posato sulle spalle.

Poichè ebbero tregua questi palpiti soavi di natura, la interrogò dolcemente Teodoro, come mai si lasciasse a tanta tristezza, e quasi le dava nota di follia, perchè la conturbasse un onore che cento sue pari avrebbero invidiato. Allora atteggiandosi con modesta dignità riprese Teodote:

— Ah! padre, che parli tu mai? spinoso è l’onore che mi proponi, e infausto e crudo! che romana donna serva agli stranieri, è mortal pena. Non basta se soffriamo tacendo, che ancora ne sia forza prostituire loro le nostre mani? Ma l’averli sul collo sia pur castigo di nostre colpe e giovi patirlo; non però è savio cercarne il danno. Ah! non vedi a qual rischio vorresti avventurarmi, togliendomi alla domestica quiete, al conforto delle preghiere e alle innocue mie cure? Lascia, padre, che oscura io meni la vita come la buona mia madre: essa fu l’angelo tutelare di questa casa, essa senza rimorsi s’addormì nel Signore e accolse il cielo la pura anima sua. —

Ma fermo di troppo era l’ambizioso nel suo proposto, mai apparve a Teodotesevero. [507] Le rispose colla fronte corrugata, avere promesso alla regina, e si disponesse indi al terzo giorno di seguirlo alla corte. Abbassò ella la testa, e con un sospiro volgendo gli occhi al Crocifisso riprese:

— Sia fatta la volontà del Signore. —

 

 

VIII.

 

Volarono rapidi qual lampo i pochi concessi alla giovanetta di domestica vita. Ordinava ogni cosa quasi si apprestasse ad un grande viaggio; tutto disponea con rassegnazione di penitenza, come se venisse gittata fra le sciagure. Visitava sovente ogni parte della casa, ove fra i trastulli infantili avea passata la sola età non amareggiata da tristi pensieri; fissava sospirando la propria stanza e quanto vi avea disposto a proprio ricreamento, come se più non dovesse tornarvi. Accarezzava gli animali domestici che le erano innocenti compagni, come chi li vedesse per l’estrema volta; prendea congedo dagli amici e dai servi, quasi fosse spinta al supplizio, e più spesso piangea con Siro, vecchio schiavo della madre, che affettuoso l’aveva cresciuta sulle proprie ginocchia; e adulta la sovvenia di utili consigli e d’incessante scorta. Tutti scongiurava perchè le pregassero dal cielo sussidio nel cimento a cui veniva commessa; e più volte genuflessa invocava la madre perchè la tutelasse.

Come poi cadde l’ora mal veduta del partire, [508] baciò i piedi della croce invocandola a darle forza, abbracciò e scambiò teneri saluti e amplessi con ciascuno di sua famiglia; e giunta alla soglia della casa, disse sospirando, che ne usciva signora, ma andava a farsi serva; che partiva innocente, sapea quale vi sarebbe ritornata.

 

 

IX.

 

Recata su splendido plaustro a fianco del muto e severo genitore, corse le vie della città, taciturna e mesta, e spesso in suo pensiero invidiava a’ poverelli che vedea mendicare per la strada, perchè almeno avessero arbitrio decidere della propria sorte. Vedea lo squallore della patria nei volti dimessi, umili de’ timidi cittadini, mentre passeggiava le contrade la superbia de’ dominatori che urtavano cogli indomiti cavalli e col pie’ veloce il popolo che cadendo taceva; e pensando che essa pur andava a porsi tra quelli che gravavano i mali della sua nazione, ne gemea ed arrossiva.

Intanto avvicinandosi al palazzo reale, passava il carro d’innanzi al tempio di san Michele; lesse ella sulla porta occidentale fra i simboli che rappresentano i quattro dottori dell’evangelio, scolpito il verso della scrittura: Questa è la casa del rifugio e della consolazione: ripetè quelle parole e aggiunse in modo che la udisse il padre: — Signore accolgo il tuo avviso, e verrò alla tua casa nell’ora della miseria.

[509] Nulla rispose Teodoro sebbene ne fosse commosso, ma tosto riprese la serenità, poichè vennero ad incontrarli e a fare loro onoranza le regie scolte con suoni di stridenti oricalchi.

 

 

X.

 

Giunta Teodote in corte, l’accolse tripudiando Ermelinda, chè la soavità onde avea sparso il viso le conciliava simpatia d’affetto al solo vederla: come poi anche la regina era in verde età e d’indole mite, si allegrò perchè le parve trovare una fidata compagna. Ne frustò quella speranza la vergine, poichè appena pose il piede in quelle soglie, richiamò intorno al cuore tutta la forza e pose di fare al nuovo suo dovere il sagrificio de’ propri pensieri, delle proprie inclinazioni, e compiacere alla sua signora. Quindi, ove però fosse senza viltà, era sollecita usarle quelle cure che stimava meglio piacerle, la sovvenia di consigli, di gradevoli ragionamenti, e le teneva compagnia ne’ momenti che più ne abbisognava. La regina anch’essa parve volere ricambiare Teodote di tali premure, studiandosi di renderle meno gravi gli uffici cui era richiesta, e la riguardava siccome eguale anzichè ancella. Le diede stanze presso i proprj appartamenti, con lei amava conversare domesticamente e aprirle i proprj pensieri a confidenza d’amica. Avvedutasi quant’ella fosse ritrosa d’usare alle feste, incresciosa [510] di trovarsi fra’ tumulti, la tenea sempre appresso di overa frequenza di duchi o di guerrieri; nel tempio le dava posto nella propria loggia; nelle sale festive, ai banchetti ove era neccessità condurla, la chiamava sempre al suo fianco; e sebbene ella ne fosse schiva, la volea pur spesso a seguace ne’ passeggi e nei viaggi.

Teodote perciò non ne prendea vanità, orgoglio; sempre eguale offriva ogni sua cura a cui era richiesta; avea gratitudine alla real donna dell’amicizia che in lei riponea, la ricambiava di sollecitudini affettuose, ma non volle mai usare con lei con troppa confidente dimestichezza, poichè saviamente pensava esser ben altra l’amistà che corre fra chi impera e chi serve. Teneva il riservato contegno che le consigliavano i suoi casti costumi, poichè fra le auliche turbe e le servili adulazioni, ella serbava la dignità de’ vinti infelici, ma non vili; talchè i Longobardi stessi ed il re, avvezzi al rude comando, aveano ossequio per la vergine romana.

 

 

XI.

 

Però ella era pur sempre siccome sola fra tanta frequenza di gente, poichè il padre unicamente inteso alle cariche che lusingavano la propria ambizione, poco curavasi di vegliarla. Ne era ella di ciò dolentissima, e le parea che ogni sguardo le improverasse soverchia libertà nella sua giovinezza. [511] Credè quindi stare in maggiore sicurtà, se almeno avesse avuto a lato il vecchio Siro che la avea allevata: chiese alla regina il favore di chiamarlo in corte presso di , ed ella, sebbene non si volessero a servigio nell’interno della regia che uomini di Scizia, ne’ quali solo fidavano, le ottenne tal grazia dal marito.

Fattosi Teodote venire il buon vecchio, volea francarlo in ricompensa della sua lunga fedeltà e amore, e tenerlo solo quale amico e secondo padre: però il fido servo non sapea apprezzare tal dono, perchè non credeva che la sua vile nazione potesse meritargli sorte migliore, anzi il reputava una sventura, mentre credeva che sciogliendolo essa dalla propria servitù gli togliesse i suoi affetti, e piangendo il rifiutava. — Ah che feci io mai, mia buona signora, perchè demeriti la consolazione d’essere ancora tutto vostro? Io nacqui nella vostra casa, crebbi non indegno d’ottenere l’amore della madre e del padre vostro; io vi vidi nascere e pargoleggiare fra queste braccia, io accolsi i vostri primi vagiti e le vostre prime carezze: cresciuta negli anni, poichè non mi credeste indegno di voi, vi fui sempre indiviso servitore, ed ora vecchio cadente presto a toccare il termine della mia vita, dovrò lasciare tante cure a me sì care? dovrò restarmi escluso del benefizio di appartenere alla vostra casa? Quale può essere mai questo povero vecchio senza padrone? chi degnerà mai compassionarmi nelle miserie? che farò solo, deserto come [512] una pecora perduta nella foresta? Ah no! mia buona signora, mia Teodote, che pur spesso così potei chiamarvi, non mi togliete l’amor vostro. —

E a lui la giovanetta carezzandolo affettuosa, tutta buona rispondeva: — T’inganni, mio caro Siro, io ti amo sempre ad un modo, e perciò solo voglio darti quelle franchigie che molti tanto desiderano, per rimeritarti dell’affezione che mi porti; vo’ farti pari agli altri cittadini, togliere quell’ineguaglianza che un’ingiustizia antica pose fra te e tuoi simili, e come sei loro pari innanzi al Signore, lo sia anche innanzi alle leggi. —

Ma Siro non potea intendere quel linguaggio pei principj ne’ quali era cresciuto e la interrompeva. — Qual maggiore privilegio potete usarmi che tenermi come siete solita, primo fra’ vostri schiavi, e risparmiarmi le fatiche che durano i miei compagni? Eguale a voi? e potrebbe mai divenire tale chi nacque servo, chi non ebbe quel favore del cielo per cui voi sortiste maggiore degli altri? —

Sorrise Teodote a quelle parole, ma l’altro subito aggiunse: — Se poi siete tanto buona che crediate meriti un premio l’avere adempito al mio dovere, giacchè mi ridate la vita col dirmi che mi amate, concedetemi d’esservi ancora e sempre vicino: che io abbia la consolazione di vedervi, di servirvi come solea prima che lasciaste la nostra casa, ch’io abbia la speranza che quella mano la quale può disporre di me, mi benedirà prima del mio morire. —

[513] Commoveano la donna quelle parole, e stringendogli il bianco capo e baciandolo come usava nella affettuosa giovanezza, gli diceva: — Oh generoso! ben tu chiudi anima migliore di quelli cui la tua innocenza ti fa credere non poter divenire eguale. Sia quanto ti piace: sì, tu vivrai sempre meco: con me dividerai i travagli della vita, e mi sarai di soccorso, di guida; la tua voce sarà il solo conforto nelle mie afflizioni. —

Piangea Siro, e per consolazione della grazia ch’ella gli concedea e per quelle meste parole, e le giurava promessa di non abbandonarla mai un istante. Infatti Teodote gli dava stanza presso la propria perchè potesse sempre vegliarla, e allorchè vi si ritraeva, compiaceasi ragionare con lui, aprirgli i proprj segreti, sentire in ricambio le sventure de’ concittadini, e sovvenire per sua mano que’ che bisognavano di sussidio; e solo in quelle ore pareale non in tutto essere divisa da’suoi, e fruire ancora il beneficio della passata vita.

 

 

XII.

 

Ma tempestosa nube s’addensava in breve sul capo della infortunata, e pur troppo erano veraci i suoi presentimenti. Ermelinda che avea presa in grande affezione Teodote, parlava con tutti delle nobili virtù onde era fregiata, e incauta ognora ne teneva discorso con Conibert, temendo egli non la sceverasse dai Romani, razza che i Longobardi [514] aveano per abbietta, vile e macchiata d’ogni sozzura. E sì la donna s’accendea in queste premure, che un d’estate, nel quale avea presa colla damigella un bagno nelle limpide acque del giardino, ebbe tanta meraviglia di vedere succinta in ischietta veste Teodote, che favellò a lungo col marito delle avvenenze di lei e della bionda chioma che sciolta e crespa le ondeggiava sulle spalle. Aggiungeva non avere mai ammirata più leggiadra fanciulla, e certo non avervi chi la vincesse, fra Sassoni suoi, fra le donne d'Italia.

Conibert cui già da alcun tempo la venustà di Teodote sollecitava i dubbi pensieri, arse all’imprudenti lodi della moglie e sentì nascere in petto un ardente desiderio per la giovanetta. Ogni volta chè s’abbatteva in lei non sapea ritenersi dal fissarla, se la pingea in mente come gliela avea descritta Ermelinda, e più avvampava, che nel cuore del barbaro non era affetto senza voluttà. Faceale ogni distinzione, parea fino spogliare la natia fierezza per gradirle; e solo che potesse indovinare un desiderio di lei, tutto concedeale, talchè mai donna romana non ebbe maggior favore alla corte de’ dominatori.

Ne gioiva la regina, che avvisava a tanto scendesse il marito per assecondare i suoi voti, ne gonfiava la vana ambizione di Teodoro: però tai lusinghe non prendeano l’animo di Teodote, che in sua virtù secura, nulla curava quanto mai potesse in altri allettare biechi pensieri. Ella accoglieva con [515] modesto riguardo ogni atto cortese che le usava il re, e gliene sapea grado con gravità. Ove poi Conibert s’ardiva gittarle qualche importuna lode, qualche accento che mal si convenisse colla sua condizione, chinava il capo fiammeggiando, abbassava gli occhi, e assumeva un far grave, con quel tacere pudico che è sì eloquente in chi intende la virtù.

[516]

 

 




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