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Defendente Sacchi Novelle e racconti IntraText CT - Lettura del testo |
LIBRO II
Quando giammai servile
Avea
Nelle vaghe sembianze un pudor santo
Onde è timido il vizio, e un basso affetto
Non dura in faccia alla beltà celeste.
I.
Alle caste domestiche doti, associava la forte giovane un generoso sentimento, che omai fra lo spirare della nazione prostrata sotto il giogo longobardo, smarria ne’ petti de’ Romani. Ella sentiva fortemente il santo amore per la sua terra e pei derelitti dispersi fratelli, serbava ancora quella [517] deliberata fermezza che ricorda non essere morta la prisca dignità anche nella miseria. Ove tutti con servili adulazioni prostituivano le opere ed i pensieri, ella si servò sempre eguale, sicchè neppure d’un cenno dovesse arrossire. Nè ciò solo, ma non pativa si ardisse offendere l’onore de’ vinti; ed ove alcuno l’osasse, rispondeva con brevi parole o con sì austero riguardo, che ne ammutolìa il procace insultare degli stranieri. Ne fremevano, ma soffocavano la rabbia perchè non mostrava adontarne il loro signore: esso tutto le indulgea facilmente, studiando ogni modo ad acquistarsi grazia presso di lei.
Indifferente Teodote alle gioje, ai trionfi dei dominatori, non era però mai straniera alle disgrazie de’ suoi; ed ove fra quel prepotente imperare si usassero malversazioni sui Romani, non temea o prenderne aperta difesa con quel risentimento che si convenia al proprio grado e carattere, o intercederne giustizia presso la regina. Il sapeano que’ disgraziati e la ricambiavano di benedizioni e d’amore: erano solleciti aprirle i loro mali; ed ogni volta che il bisognavano ricorreano al patrocinio di lei, talchè giunse in grave frangente a liberarne molti da fiera sciagura.
II.
Vivea continuo rancore fra i due popoli, e ad ogni lieve causa ne veniano a rissa, gli Italiani [518] pel dispetto che nudriano d’essere oppressi, i Longobardi perchè tenevano a vile i miseri da cui spremevano le dovizie.
Però fra quelle contese ne pativano solo i vinti, pe’ quali stava sempre il torto e il danno: era chiuso ogni orecchio alle loro querele, precisa ogni via per cui giungessero i loro lamenti innanzi al trono, muto per essi fino l’oracolo delle leggi, chè essere non potea ragione mai pe’ servi, e ove conseguissero giustizia, seguiva solo per grazia concessa al favore.
III.
Era possente in corte Vigalf, uomo di Pannonia, che misto a’ Longobardi teneva la ferocia dei due popoli: ispido, barbuto, rubizzo, occhio incavato sanguigno, bieco lo sguardo, dispettoso il volto, e tumida bocca composta a disprezzo. Cuore feroce e superbo, e meno il re, cui era il più vile de’ servi nella devozione e nella cieca obbedienza, avea tutto il mondo a sdegno, disprezzava tutti qual fango, nè andavane immune la stessa regina. Quindi era in abbominio universale, ma ognuno l’ossequiava e temea, che ei solo poteva sulla volontà di Conibert.
Forte di braccio e astuto, gli era compagno in campo, scorta nelle cure dello stato: per suo consiglio era uscito vittorioso nella recente guerra con Alachis duca del Friuli che se gli era ribellato, [519] e tenea in rispetto gli altri grandi e pari dello stato. Questi fu la scorta fidata cui il padre il commise quando l’assunse a parte del regno, e perchè gli apprendesse stare virtù nella forza, l’addestrasse all’armi, nè infiacchisse nelle arti romane.
Vigalf era andato messo di Conibert in Inghilterra ad offrire l’anello nuziale ad Ermelinda; ei l’avea giudicata convenirsi al suo signore e adottala in Italia, ma era primo a dissuadergli che non si lasciasse troppo vincere dall’amore per la moglie, sicchè non prendesse su lui forza d’impero. Era in fine costui il compagno di Conibert e quando correano le selve nella caccia, e quando banchettando vuotavano a gara le tazze spumanti di idromele, e alternavano le nefande canzoni, con cui i loro avi assordavano i corrotti soldati di Valentiniano, mentre sul Volga prostituivano loro le mogli e le figlie perchè li transitassero sul lido d’Europa coll’armi al fianco; era in fine il compagno con cui avea spesso divise le spose de’ vassalli e le fanciulle de’ vinti.
IV.
Avea costui ottenuto in feudo alcune terre lunge a poche miglia dalla città, rapite agli antichi possessori e fatti servi; tolse fino l’antico nome al villaggio che vi sorgeva in mezzo, e vi sostituì il proprio; vi elevò una forte rocca con molto presidio d’armati, affinchè tenessero in rispetto gli [520] abitatori, che immiseriti languiano su que’ poderi che aveano invano avuti in retaggio da’ loro padri, e fertilizzati perchè meglio allettassero l’ingordigia de’ rapitori.
Però senza mani operose che ne prendessero cura, erano in breve insteriliti e rese inutili, onde il nuovo padrone, perchè si ponessero a coltura e ne cavasse il frutto, fu stretto francare que’ coloni e farli Arimanni: erano servi cui davasi una mezza libertà, e coltivavano le proprie terre retribuendo il terzo del prodotto al feudatario. Dura condizione, ma pure avventurati quelli cui era dato gemere sulle zolle native.
Era stata in quell’anno assai scarsa la messe, sicchè l’Arimanno Paolo gli porgea scemo il tributo; ma il Longobardo pretendeva aversi la solita quantità senza ragione di raccolto. Perchè quegli gliela dinegava e dicea che tutta gli convenisse versargli la rendita e restarsi senza sussistenza, il feroce Vigalf minacciò di ritornarlo in servitù e venderlo a’ Franchi per rifarsi del prezzo. Non curava la confidente giovinezza di Paolo quell’ingiusta minaccia, ma la madre cui solo era il figlio di conforto e di amore, fatta esperta nella dura scuola de’ patimenti, ne tremava; e cauta a precorrere i mali e farsi riparo delle leggi, se ne richiamò agli Scabini, che però nulla curavano al lamentare di donna romana.
Ne andò molto che precipitarono nel villaggio i soldati Longobardi, spogliarono i granai [521] dell’Arimanno, lo strapparono alle braccia della dolorosa madre e il gravarono di catene. Allora questa, resa dalla disperazione audace, corse la terra con miserande grida, e ne commosse i conservi. Suscitati da indignazione contro a’ feroci, si raggrupparono, alzarono sediziose voci, si venne alle ingiurie, alla mischia, alle mani, e si scambiarono offese e ferite; però i terrazzani inermi e pochi, vennero o dispersi o presi, e il giovane non ne fu liberato.
Tosto l’offeso Vigalf per trarne più aspra vendetta, rappresentò a Conibert quella contesa come una sollevazione degli Arimanni contro di lui, gli persuase fossero incitati da Alachis, che non ristava ancora dalle sue pretese di occupare il regno dal ducato di Brescia da non molto concessogli. Arse d’ira Conibert e dichiarò servi i coloni del feudo, e ordinò indi a pochi giorni fossero i ribelli puniti; si tagliassero loro i capelli e si frustassero; gli uomini se gli presentassero dinanzi coi piedi nudi, colla corda al collo, per dichiararsi rei, ed esser quindi mandati al castigo: Paolo condannò a morte.
La disgraziata madre nell’affanno di perdere il figlio, seguitolo alla città, corse le vie, si presentò a molti grandi, pianse, pregò, ma invano: tutti o tremavano pel delitto appostogli, o temeano [522] contrastare con Vigalf. Pochi degnarono appena udirla, nè le risposero che in brevi e timorose parole; molti la espulsero con asprezza, tutti tacciarono d’insania l’audacia di Paolo perchè avesse ardito resistere al comando del suo signore, e sollevare gli Arimanni; e se per iscusarlo ella incolpava i proprj lamenti, ne avea più acri rampogne.
Così l’afflitta, da tutti prestamente congedata, fuori d’ogni speranza, piangeva. Però le restava Teodote, cui venne subito ogni cosa a notizia per mezzo di Siro, che era sempre sollecito riferirle gli affanni de’ miseri: ne parlò ella al padre, ma Teodoro avea chiuso il cuore alle sciagure de’ suoi, nè ardiva dubitare della ragione fra un servo e il suo signore. Pure la generosa non disperava salvare que’ perseguitati, nè rimettea il pensiero di querelarsi per tanta oppressione.
VI.
Si teneano già da alcuni giorni a Pavia-Ticino le consuete assemblee de’ duchi e de’ grandi Longobardi, in campo e armati; in queste si soleano discutere le cose di stato, la ragione della pace e della guerra, proporre nuove leggi, che tutti assentendolo, veniano promulgate dal re. Ospitava Conibert que’ grandi nella regia, li banchettava, li onorava con feste, con caccie.
Reduci dal campo e dall’assemblea, si univano quel dì coi vassalli e coi cortigiani a conversare [523] la regina e il loro duce nell’aula più splendida del palagio, e tutti davano voce di clemente a Conibert, e tutti da’ più abbietti a’ più grandi faceano eco di laudi. Sola Teodote, severa, assisa presso Ermelinda, non proferia un accento, e tale se le diffondea sul volto un misto di pallore e di fuoco che accennava un chiuso dispetto. Ne sentia rincrescimento il Sire, cui sarebbero riescite gradevoli le lodi della fanciulla, ma dissimulandone la causa volle mostrarne risentimento di poco rispetto.
Guatolla con una fosca occhiata seguita da un aspetto severo e di rampogna; ma ella pur stette pertinace nel silenzio e in sè raccolta. Allora tutti si fecero titubanti e muti, per quella ostinazione che riprovavano; ne impallidì la viltà di Teodoro, sicchè quasi a farsi interprete de’ sensi ascosi di lei, trasse ossequioso innanzi a Conibert, e diceagli sentire sua figlia i meriti che se li proferiano dai suoi fedeli, ma non osare la giovanetta favellare fra la frequenza di tanti grandi. Fiammeggiò la forte donna a quell’asserto, ma di una vampa di sdegno, eppure si tacque per rispetto al padre.
Allora Ermelinda, che la fissava per udire che rispondesse, fra incresciosa ed inquieta le volse un dolce ripiglio. — Teodote, tu sola dunque non onori il tuo Signore, tu non gli fai l’omaggio della nazione, egli che la rende grande e beata? — Beata! riprese Teodote: e vuoi che io il dica, mentre gemono tanti miseri? mentre ingannato li condanna senza sentirne la discolpa e saperne il vero?
[524]
VII.
Parve che subita sciagura prendesse quelle genti, di tanto restarono tutti percossi alla nuova audacia. L’uno cercava l’altro cogli incerti sguardi e non osava formare un motto; parecchi accennavano averne gran dispetto e minacciavano col feroce cipiglio; la stessa regina non sapea che dirsi, dubbia, maravigliata fra l’ardire della damigella e il timore dell’ira del marito. Più d’ognuno Teodoro, pallido, tremante, parea venirne meno, e studiare il momento d’inginocchiarsi e chiedere perdono; mentre alcuni ivi stretti a prestare servitù quai vassalli e di gente italiana, ne godevano in segreto, ma atterravano a loro potere gli occhi, temendo che alcuno leggesse loro in volto quanto acchiudevano in petto.
Teodote sola, fra tanta trepidazione stava serena e composta, quasi nulla avesse detto: mentre tutti indiscreti si volgeano a lei, tenea, siccome costumava, inchinate le pupille nel pudore.
VIII
Girò Conibert la vista sui circostanti e vide ripetersi su tutti i volti che si chinavano, l’onta che gli venne fatta; s’affissò in Vigalf e sentì parlarsi di vendetta e di castigo. Pure tenzonava in lui un altro sentimento che gli rendea più miti [525] i pensieri, per che lunge dal prendere corruccio di quel franco parlare, parve richiamare una subita serenità, e voltosi alquanto verso la giovinetta con uno studiato sorriso che teneva un misto di indulgenza e di rancore, dicea:
— Certo qualche grave causa muove Teodote se mi dà tanta accusa, e forse ella usando più saviamente che voi non fate, pensa rivelarmi quanto mi nascondete. Or bene favelli liberamente, e veda la dispettosa Romana, che il Longobardo non è quale sel pingono i suoi. —
IX.
Allora modestamente si levava la vergine dal suo seggio, e tutta arrossendo perchè si affiggessero in lei tanti sguardi, inchinava Conibert come chi dà segno d’ossequio e d’animo grato; indi gravemente composta ma con un fare verecondo, gli apriva i proprj pensieri.
Perdona, o Sire, all’ardir mio, ma a’ guerrieri quali voi siete, non deve increscere il vero. Se i tuoi t’applaudono, ove operi quanto è loro utile, se tutti qui stanno muti nella paura; almeno non si dica, non v’avesse neppure un cuore italiano che osasse mostrare l’antica dignità innanzi ai vincitori. Me ne darai pena, sarà forse maggior colpa in me, che non sia ne’ disgraziati, che tu fai schiavi, flagelli, disonori e mandi a morte. Colui che fra’ tuoi grandi alza su noi micidiale la spada, [526] t’ingannò, fe’ vederti ribelli quelli che non voleano aprirsi le vene per dissetarlo col proprio sangue. Scarso il raccolto e piccole le parti, egli non contento del terzo, censo di cui gli è tributario l’antico padrone della terra, che ora bagna col proprio sudore a fecondare non per sè; non contento del terzo, pretendeva la quantità consueta nell’abbondanza: perchè si niegò dare quanto non si aveva, esso prepotente mandò impronti soldati nel villaggio, disertò i granai, disertò le case, percosse, calpestò, aggiunse l’insulto alla sciagura. Come poi un giusto risentimento, che ancora non abbiamo perduto, commosse que’ miseri, ei li fe’ prigioni, li pinse a te ribelli; e tu togli pur loro la libertà e la vita, e non li ascolti.
Ben io udii la povera madre, cui la prepotenza de’ tuoi uccide il solo conforto de’ suoi giorni cadenti, io la vidi gittata or ora sulla terra nel tempio ove tu adori il Dio misericorde, gemere e consumarsi in miserrimo pianto, e dimandare in testimonio dell’innocenza del figlio, la Vergine santissima e quell’arcangelo Michele, che apparve sul monte Gargaro a soccorrere l’armi de’ tuoi contro l’ariana perfidia: si disperava la povera donna e ogni cuore era chiuso a’ suoi lamenti, ch’è il timore dell’ira vostra sì tremenda, soffoca fino i sensi di pietà.... Ora potrò io lieta gioire nelle tue feste e applaudire nelle tue glorie, o re? Certo sei generoso colla mia famiglia; ma che mi valgono questi agi che mi fai, l’amore della [527] regina, gli onori onde mi volete cinta, se intanto gemono i miei fratelli e cadono, e forse esecrano morendo alla donna italiana che tripudia al suono del loro pianto? Ah! sii pietoso cogli sfortunati che non ti offesero; non essere micidiale in quel popolo cui protesse la mano del cielo, che fermò il sanguinoso passo d'Alboin sulle porte di questa città. Sii giusto, sii clemente, nè si dica che invano volle cercarti il cuore la voce degli innocenti oppressi. —
X.
Meravigliavano tutti a quel franco e nuovo parlare, e taciti guardavano ora a lei, ora al principe, nè sapeano precorrere che ne sarebbe seguito. Come l’animosa vergine ebbe posto fine al suo dire, stette pur sempre in piedi, ma col capo piegato reverente come chi intercede e attende un favore.
Conibert che severo ma tranquillo le avea posto attenzione, non dubitò molto a decidersi; più che dalle udite ragioni e dalla giustizia, che mal sentiala il Longobardo ov’era sui vinti, concitato dall’incessante brama di guadagnarsi l’opinione di Teodote. Guardò piacevolmente la moglie come chi accenni di gradirle, indi con un tal atto di compiacenza e di grandezza che degna chinarsi co’ minori, scuotendo un cotal po’ il capo, spartendo e vezzeggiandosi colla destra le prolisse chiome che gli cadeano sul viso, riprese:[528] — Mi è grato assai quanto mi viene dalla fida compagna della regina, e gliene do piena fede. Ora tosto voli il mio seguace Alboin a fare mite la sorte de’ prigionieri: io vo’ udirne le discolpe, io ascolterò questa madre che potè destare tanta pietà. Vigalf ei pure, sarà per certo pronto a scordare un momentaneo sdegno. —
Sentì subita letizia corrersi Teodote al cuore: con un modesto inchino accennò sapergliene riconoscenza, e aggiunse che forse quella disgraziata era ancora nella chiesa. Inviò, tosto che ne ottenne licenza, il fidato suo Siro con regie scorte per la donna, e fu trovata che venia pure discacciata dalla casa degli afflitti, perchè il suo dolersi non mettesse compassione ne’ circostanti. Teodote l’addusse a Conibert, e la trambasciata madre inginocchiatasi in mezzo alla sala, con dirotte lagrime, con parole tronche da frequenti singhiozzi, narrò i casi del figlio, e colle braccia aperte dimandava misericordia e perdono, dimandava a tutti il suo povero Paolo, e ricominciava il pianto.
XI.
Come Ermelinda e i cortigiani ivi convenuti si accorsero che il re non era increscioso di questa querela e parea piegare, osarono rompere il silenzio, parlare a favore degli incolpati, e fare testimonianza come fosse un insano improvviso risentimento che li trasse a quel passo inconsiderato, [529] anzichè meditato disegno. Vigalf stesso, il quale servo ai voleri del suo signore non ardiva avere altri consigli che i suoi, già chiudea il gran dispetto, mostravasi mite, e rimettea le proprie pretese.
A tali asseverazioni, a nuove preghiere della regina e di Teodote, ordinò Conibert di sciorre i prigionieri, fe’ grazia non solo della vita a Paolo, ma il dichiarò libero usando della manumissione di privilegio reale, e diede a Vigalf in dono nuove terre e nuovi Arimanni, giacchè non volea ne patisse danno il suo fidato.
XII.
Si levarono fra l’aulica turba iterate acclamazioni d’applauso per tanta pietà, che vennero ripetute per la città appena si riseppe la fausta novella. Ne gioì Teodote cui parve raccogliere alcun bene del vivere amaro in corte, ma più ne andava festevole Ermelinda che attribuiva a proprio favore la grazia concessa all’amica.
Fu quindi in quel dì più lieto e clamoroso il banchetto imbandito ai grandi del regno, e frequenti si alzarono le lodi al forte, che non solo sapea condurli con passi di vittoria in guerra, ma insegnare la clemenza in pace. Allorchè volse verso la fine il vivandare, e s’apprestava l’ossequio del brindisi pel duce, Conibert voltosi a Teodote con un viso benevolo le richiese piacevolmente, se [530] ella pure avrebbe ora associati i propri voti: e tosto la savia fanciulla rispose, sempre essere pronta a far omaggio a chi onora il giusto. — Ebbene, ei soggiunse, tu pure dunque oggi berrai nella spumante tazza de’ Longobardi che si vuota a mia salute. Venga la Scala del re, ma l’aurea di Rottarich non quella d’Alboin, perchè rifugge l’amica d’Ermelinda che oggi salvò gli innocenti dall’umano cratere.
XIII.
Soleano i Longobardi rallegrare i loro prandii facendo girare alle mense, colme d’idromele o di vino le tazze incavate nel cranio de’ vinti, e chiamavano scale quelle tazze nefande, e tutti vi beveano con barbarico tripudio: solo talvolta dopo molti anni che erano calati nella terra della conquista, vi sostituivano invece aurei crateri, ma l’aveano per leziosità italiana. Teodote che pur spesso sedea alle mense reali, mai non volle prendere parte a quel rito, e perchè dicea rifuggirle l’animo, e perchè non convenisse a fanciulla romana attingere ove beveano tanti guerrieri; solo concedersi a donna maritata. Ma in quel dì all’invito del re, cui secondò la preghiera della moglie, non seppe disdirvi.
Venne la capace tazza piena di spumante liquore: Conibert ne bevè, indi presentolla ad Ermelinda che pure vi attinse, e la porse a Teodote [531] che arrossendo vi accostò il labbro. Allora Conibert quasi per raccorla e offrirla al primo de’ suoi duchi, sporse la destra a Teodote, ma prendendo il cratere, furtivamente allungando le dita le toccò la mano, e dato subito il vaso al vicino, si pose il dito al labbro, e guardava la giovanetta.
Fra i clamori degli evviva, niuno s’accorse di quell’atto, ma il vide Teodote e lo sentì immodesto, poichè ben sapea averlo usato Autarich colla fidanzata Teodolinda; ne fu assai turbata e tremò, chè aprivale l’animo del re, cui ella già sospettava. Severa stette in sè e contegnosa, e tolte le mense, non mai partiasi dalla regina nella mastra sala ove splendea la festa e il garrulo conversare de’ cortigiani, e attendeva propizio momento d’involarsi a quel tumulto.
XIV.
Intanto Conibert non dilungava mai da lei, e colto l’istante in cui Ermelinda s’era accesa nel ragionare col duca di Bergamo, accostatosele furtivamente le disse: — Ebbene, Teodote, ti pare ch’io sia inchinevole a’ tuoi desiderii? ti ricorderai di questo giorno, bella Teodote? — e la fissava con certi occhi che scintillavano fra i folti sopraccigli e le chiome onde erano ingombri, come fra denso fumo crepitanti faville. Allora la pudica e savia vergine, cui trafissero mortalmente quelle parole, tutta si raccolse, e presa un’attitudine [532] grave, colle pupille nè chine, nè alzate, ma ferme, senza però guardarlo che d’una fuggitiva severa occhiata, gli rispose:
— Men ricorderò Sire, ma rammentate voi pure che Teodote non compra colla propria vergogna la giustizia pe’ suoi. —
Sì gravi modi e tanta fermezza confusero il barbaro, sicchè stava colle tronche parole sul labbro, incerto, maravigliato, quasi cercando qualche nuovo consiglio. In quel mezzo venne a fine il conversare della regina, e Teodote prestamente alzatasi tolse commiato e si ritrasse alle proprie stanze.
Ivi nel riandare quanto era occorso, lamentava l’imprudenza del padre e versava nel seno del fidato servo quelle lagrime ch’esser doveano di gioja, mentre ei le narrava le benedizioni che le pregavano dal cielo i miseri che avea salvati.
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