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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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CARLO VIII

NEL CASTELLO DI PAVIA

 

Scena storica

 

I.

 

Oh bene se il Re di Francia è partito questa mattina da Asti, non dovrebbe tardare molto ad arrivare; ma l’è ben guarito dal vajuolo? Per verità fu mal salutato sul limitare d’Italia, e se la va di questo passo, prima che giunga a Napoli per cacciarvi la casa d’Aragona, manderà le ossa in Francia in una cassa di piombo. Già non ne vorremmo piangere: ad ogni modo desidero guardarlo in viso. Tu lo vedrai d’appresso se viene in castello; io lo aspetto qua sul ponte: deve passare per questa strada. —

[634] Tai parole scambiava sul ponte Ticino di Pavia un uomo di mezzana età la mattina del 14 ottobre 1496; con uno scudiere del duca Gioanni Galeazzo Maria Sforza: era questi giovane di bella persona e di alto animo; guardò verso la città e il primo rispose:

— Ecco, vengono i militi e muovono ad incontrarlo. Li guida il conte Belgiojoso: va bene, dev’essere il primo a salutare Carlo VIII, perchè fu quegli che conchiuse la confederazione con Lodovico. Ora trotta con gravità, ma non sarà andato di questo passo quando precipitò in cinque giorni da Parigi a Milano per quel trattato. —

E l’altro rispose: — Era meglio che si fosse fiaccato il collo a Monginevra che formare questa malaugurata alleanza: vedrai quanti mali! E intanto il Moro cresce in orgoglio: non contento di avere in mano il comando vuol esser duca. Vedrai fra pochi il mio povero Signore, lo sgraziato Gioan Galeazzo, spacciato all’altro mondo; mi scoppia il cuore; ho una sola speranza, ma tremo — e si pose la destra alla fronte come per sostenerla grave d’un forte pensiero. L’altro tosto soggiunse: — Infelice! fanciullo ancora gli fu ucciso a tradimento il padre, la tutela della madre fu burrascosa; il solo galantuomo dello stato, Cico Simonetta, ebbe tagliato il collo nel nostro castello; e fra tanti guai Lodovico si creò tutore, e per verità comanda da padrone: ma di’, il Duca e la sua sposa Isabella sono poi qua in castello per [635] sicurezza o per altra causa? omai Gioan Galeazzo ha venticinque anni e può da reggere lo Stato, ed è tempo che esca di fanciullo e da questa tana.

— Uscirne? Infelice! sai tu come stiano in quelle maledette mura, ove non può spiare nessuno? Gioan Galeazzo e la Duchessa col loro piccolo fanciulletto sono ridotti nell’appartamento verso la torre a dritta che guarda il parco, sono tenuti come prigionieri; i loro fidi non possono vederli quasi mai; io appena giungo a porre il piede in quelle stanze rade volte in una settimana. Si lascia loro mancare il più bisognevole, i comodi, le vesti; brevemente hanno talora fino inopia di pane. —

L’altro sbalordito retrocesse d’un passo: — Possibile, ma e soffrono?...

— Soffrire o no, potrebbero altrimenti? Escano dal castello se possono: e questo è poco: il povero Duca si va struggendo ogni giorno, e quell’ipocrita del Moro spaccia che è per troppa foga d’amore per la sposa; invece credi a me, è perchè gli ha fatta ingollare quella polvere bianca infernale, che non ha sapore ma uccide lentamente. Fra questi mali è la morte che si vedono vicina, non hanno quegli sgraziati un solo conforto: il Moro finge di accarezzarli mentre li uccide; e aggiungi le beffe, gli insulti orgogliosi di Beatrice sua moglie, che ora arrabbia, perchè Isabella è più bella di lei, ora si strugge, perchè vorrebbe esser moglie di Giovanni Galeazzo, sempre abbrucia per la voglia d’essere [636] Duchessa! I servi son tutti venduti, delatori, per lo meno indifferenti. Lo stato di Milano si regge a nome di Gioan Galeazzo, si esalta la duchessa Isabella d’Aragona e il loro figlio, e quegli infelici gemono fra il bisogno, la servitù, e sempre sul capo l’ora estrema: hanno solo conforto nei cari affetti, sola consolazione nel figlio. Ah! se li vedessi, ti stringerebbero il cuore di compassione: il Duca, sebbene stremo di forze e sparuto, ha ancora il bell’aspetto e la soavità che tanto promettevano di lui, ed Isabella pare più avvenente nel suo dolore. —

L’altro era commosso, si rasciugò una lagrima, indi aggiunse: — Chi sa che questa visita di Carlo non riesca utile al Duca: finalmente sono cugini nati di due sorelle figlie di Filiberto signore di Savoja; purchè il Re lo veda, giacchè sento che il Moro, perchè non entri in castello, gli ha apparecchiato l’alloggio nel palazzo a san Michele. —

— Vi entrerà; vi sono ancora dei buoni — e strinse una mano all’amico, indi aggiunse: — È vero che Lodovico s’è fatto amico il Re di Francia che sa molto corrivo colle donne, col mandargli in dono ad Asti alcune belle signore milanesi; quindi temo... ad ogni modo — e gli aggiunse sommesso all’orecchio: — Fra que’ prodi che andarono jeri incontro al Re vi è ancora un animo generoso; è mio amico, è conoscente con Graville capitano di Carlo... Ti cercai a questo bisogno: tu oggi non perderti, attendi ad ogni cosa, spargi, se occorre, [637] qualche buona parola, e se mi bisogna di te trovati a Porta Palazzo: tieni pronto un cavallo per me, perchè fatta una buona azione, converrà che me ne vada. —

In quel momento s’udivano molti suoni di trombe, che annunziavano il corteggio del Re: precedevano i militi sforzeschi che facevano varj movimenti intrecciando le lancie, le spade, esercizi militari che chiamavano bagordare, coi quali si onoravano a quei tempi i grandi: seguivano alcuni soldati francesi, ceffi spaventosi con lunga barba e capelli, con cui coprivano gli orecchi mozzi a punizione, perchè tutta gente fuggita al laccio ed alla carcere: infine veniva il drappello di corte; cavalieri e grandi in arredamenti di molta ricchezza, con cavalli stupendamente bardati. Quelli del Re però si conducevano a mano da’ palafrenieri, perchè egli, recente di malattia, veniva in cocchio, che era un carro ricoperto a cortine di velluto fregiate a frangio d’oro che muoveva meraviglia al popolo per novità, giacchè di simili non se ne erano ancora veduti in Italia; seguivano le truppe. Transitavano lentamente sul ponte, e come furono alla porta della città, trovarono Lodovico il Moro che dava omaggio al Re in atto tutto modesto ed ossequioso: Carlo gli rispose cortesemente stendendogli la destra, ed inoltrarono. Però come giunsero alla contrada che metteva a s. Michele, e il corteggio faceva atto di piegare, il Re accennò a Graville di andare diritto, ed a Lodovico [638] che chinava il capo come per dirgli essere quella la via, rispose: — Voglio alloggiare in castello. —

Que’ due che fra la folla venivano di seguito, si guardarono in viso; lo scudiere sorrise e toccando nel gomito all’altro: — Guarda che faccia fa il Moro; vorrebbe dissimulare, ma dura fatica: cominciamo bene. —

Il corteggio attraversava la città lungo la strada detta nuova che la divide, usciva dalla porta opposta, declinava a destra, ed entrava nel castello.

 

 




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