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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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IV.

Giovan Galeazzo

 

Percorsero un lungo porticato, si diressero verso la torre che guardava al parco, e videro aprirsi una porta, sulla cui soglia si appresentava ad incontrare il Re una donna giovane ed avvenente: era Isabella d’Aragona; inchinò il potente con un far modesto e gentile, gli rese grazie della visita e lo fece inoltrare. Lodovico, sua moglie e il seguito gli tennero presso.

Carlo fissò compiacente la Duchessa che gli parve assai bella, e le diede braccio nell’attraversare le due stanze, che restavano per giugnere a quella [647] ove era Giovan Galeazzo, e le parlava con vivacità. Beatrice a que’ modi impallidì, chè temeva della debolezza del Re, guardò il marito, ma eraimperturbato che ella si ricompose.

Carlo entrava nella stanza del Duca: questi era vestito, ma adagiato sur un letto, ed aveva vicino il suo fanciullo di soli cinque anni. Appena Giovan Galeazzo vide il Re, fece forza a rialzarsi per onorarlo, ma questi lo rattenne, gli stese la destra e lo salutò cugino. In questo mezzo girò intorno la vista, e osservò che quelle stanze erano le peggio arredate del castello, che Isabella e il Duca erano male in arnese, e scambiò una occhiata con Graville, quasi volesse dirgli che non lo aveva ingannato; infine i suoi occhi si fermarono sul volto d’Isabella, che atteggiata di modestia e di dolore parea raccomandarsegli; egli volle domandarle di quella sua abbietta condizione, ma si vide al fianco Lodovico, e temè di molestare l’alleato: scambiò invece qualche parola di cortesia a lei ed al Duca. Questi allora rialzatosi alquanto sul letto e preso ad un braccio il suo fanciulletto glielo appresenta, e gli parla con fioca interrotta voce:

— Sire: poichè tanta pietà vi muove che venite a visitare lo sgraziato Sforza in questa misera condizione, omai senza retaggio, senza gli agi della vita, senza speranza...

Trasse tosto innanzi il Moro e in atto ossequioso: — Potentissimo Re, voi testimoniate all’eccelso Duca se tutto non si regge in suo nome in questo Stato. —

[648] Giovan Galeazzo sentiva a quella ipocrisia una fiera ambascia, e guardò con un sospiro la moglie, e questa girò gli occhi a Carlo inondati di lagrime, sicchè ne era commosso; ma tosto riprese freddamente l’astuto Lodovico: — Anzi mi giova interporre la grazia vostra, o Sire, perchè omai io sia sollevato dal peso di questa tutela, che mi fu forza sostenere per tanti anni a mio malgrado: mio nipote ora non ne ha più bisogno; spero che colla vostra mediazione non vorrà negarmi il favore. —

Carlo fu maravigliato, e lo Sforza ben vide che mal poteva contendere la nuda sua miseria contro l’astuzia dell’usurpatore; vide che non vi aveva riparo contro il proprio fato, guardò con affetto la sposa e il figlio, e stendendo le mani tremanti e scarne al Re, lo pregava:

— Carlo, mio cugino, omai sento che è prossima al suo fine questa mia vita... e fu breve, oscura, travagliata, e solo consolata da questi sgraziati che divisero la mia miseria: vi raccomando questa mia compagna, cui è in pericolo il padre e il marito... vi raccomando questo fanciullo innocente, perchè tutto non perda... almeno salvategli la vita. —

In questo momento la mestissima Isabella cadde alle ginocchia del Monarca francese, e versava pianto e preghiere. — Ah Sire, abbiate pietà della più sgraziata delle donne, che non sa per cui far voti fra il padre cui sovrasta il ferro francese... e il marito, il figlio, gittati in tanta miseria e in pericolo... no, fra tanta grandezza [649] non dimenticate questo pianto, fra la vittoria risparmiate la canizie del Re; fra la presente prosperità, sollevate questi miseri che vi sono dinanzi, salvate dalle insidie mio marito, questo fanciullo, questo orfanello sgraziato e vostro parente. —

Il Re commosso rialzò la Duchessa e pose una mano sul capo al fanciullo, che era corso ad abbracciargli le ginocchia e piangeva al pianto della madre: ei la rassicurava che non lo avrebbe mai abbandonato, che l’avrebbe avuto qual figlio; e già innebbriato da un sorriso di gratitudine d’Isabella, stendeva la mano al Duca per dargli nuove promesse e chiedergli che gli restasse a fare; ma in quel momento s’udì ripercuotersi nel castello un forte suono di trombe, un fragore incerto. Il Re guardò Graville e paventò un tradimento: guardò il Moro che con voce risoluta gli disse: — Sire, la vostra presenza è necessaria ove sono uniti i vostri e i soldati del Duca — e mosse per uscire; e Carlo date nuove speranze colla benignità dell’aspetto a quegli sgraziati, lo seguì. Appena fu nell’atrio vide nel cortile preparato un torneo, e udì le acclamazioni dei guerrieri e delle dame che lo invitavano alla nuova festa: gli fu tosto presentato un cavallo riccamente bardato, vi saliva d’un salto, scendeva a trotto la grande scala fra suoni e grida di applauso; si appresentava all’agone, dava il segno e si incominciava dai campioni la giostra: tra nuovi ricreamenti egli aveva già dimenticate le disgrazie degli oppressi.

[650] Posto fine a quelle feste, e spartiti i premj ai vincitori, Carlo colle sue truppe uscì da Pavia, e nella solitudine del viaggio ripensò a Giovan Galeazzo e al Moro, alla compassione per l’uno, e agli obblighi che il legavano all’altro: ma mentre esso pensava, Lodovico avea operato. Dopo sei giorni giunse a Piacenza un cittadino pavese che chiedeva esser posto ai piedi del Re: era l’amico dello scudiere del Duca; servo fedele e sgraziato che dopo quella generosa azione più non s’era veduto uscire dal castello. Quel cittadino mesto, piangente, annunziò che Giovan Galeazzo era spirato, e che Lodovico aveva presentata al Senato l’investitura di Duca di Milano fattagli da Massimiliano già da alcuni giorni, a patto che non ne usasse finchè fosse vivo il nipote, e che aveva già prese le insegne ducali. Sentì tardi il Re francese dolore pel cugino, lo onorò con funerali sontuosi e donò largamente ai poveri di Piacenza. Lodovico il seppe, e volle che si rispettasse il dolore del potente, e diede splendida sepoltura al tradito nella cattedrale di Milano.

Dopo moltanni moriva nel cenobio di Marmontiers l’Abate, che avea vissuto savio, moderato, sempre mesto: moriva pensando al rapito retaggio ed alla patria perduta: era il figlio di Giovan Galeazzo Sforza, cui Lodovico aveva tolto il genitore e lo Stato, e non aveva trovato in quello del Re che gli promise d’essergli padre, che una cappa da frate e una povera cella.

[651]

 

 




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