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Defendente Sacchi Novelle e racconti IntraText CT - Lettura del testo |
I.
Il convento di san Paolo situato sopra uno di quei rialzi di terra che quasi collinette cingono Pavia con amabile pendio, era nel 1524 tramutato in [652] fiero asilo di guerra: sventolava sur una parte più erta un’insegna francese, intorno erano disposte varie fila di cannoni; qua tende, altrove manipoli d’armi; soldati che si distendevano sulla sottoposta campagna da un lato verso la città, dall’altro verso l’ampio parco dei Visconti recinto da mura. Giungevano da parecchie parti all’erta di san Paolo frequenti corrieri, e partivano ordinanze che sovente ponevano in movimento altre truppe. Vedevasi talora uscire dal cenobio e calare fra le truppe un guerriero giovane d’aspetto, tutto vestito di splendide armi, sur un corsiero brioso, e dare ordini, parlare a generali ed a soldati, gittarsi al corso e ritornare; era l’eroe de’ tornei, l’eroe della cavalleria, era Francesco I re di Francia.
Nel 1524 i capitani di Carlo V disposero di [653] cacciare d’Italia l’armi francesi. Francesco colla stessa facilità onde muoveva ad un ballo di dame, determinò calare co’ suoi in Lombardia; avea presa Milano, avea stretta Pavia ove s’era chiuso Antonio di Leiva: già da alcuni giorni durava l’assedio posto ai 18 di ottobre ed era cinta la città in modo che non poteva entrarvi soccorso alcuno. Il Ticino che bagna la città a mezzo giorno impediva di stringerla da quel lato, e l’audace Francesco aveva pensato di deviarlo; fece costruire un argine verso san Lanfranco superiormente a Pavia, per costringere il fiume a gittarsi in un antico letto abbandonato, detto Gravelone: ma invano l’uomo lotta contro le forze della natura; le acque infranti i ritegni, si rimisero al loro corso. Però il Re non cessava di dare travaglio alla città con improvvisi assalti; ora ne aveva gittate alcune torri, ora fatte breccie nelle mura, e sì strettala che era ridotta a fame ed alle più dure necessità.
Però in Pavia erano molte armi e molti prodi: le truppe confederate constavano di spagnuoli, alemanni e italiani; le comandava in nome di Carlo V il duca Antonio di Leiva. Soldato nelle milizie napoletane s’era levato col valore ai primi gradi: le malattie gl’impedivano di stare a cavallo, ed esso dirigeva destramente le battaglie in lettiga.
Eragli compagno Lennoy vicerè di Napoli, i marchesi di Pescara e del Vasto, ed un rinnegato francese, il duca di Borbone, che rivolse contro la propria nazione la spada di Contestabile, [654] che Francesco gli aveva data a 26 anni. Nè erano di minor animo i pavesi: il cavaliere Matteo Beccaria aveva fatta un’eletta di giovani cittadini, ed era con loro pronto ad ogni difesa, ad ogni più ardua fazione: il Podestà e il Senato della città si adoprarono nell’apprestare difese, nel distribuire viveri, e tutti i cittadini, quando la città pericolava di essere presa, soccorrevano coll’opera propria; nè restarono neghittose le donne; quando occorse di chiudere la breccia fatta ai 26 novembre dai francesi, una vergine donna di grande animo, Ippolita Malaspina di Scaldasole, prima corse tra le file dei difensori a portare ceste piene di terra, ed animare coll’esempio e colle parole i soldati e i concittadini.
Per questo modo si travagliarono i due eserciti quattro mesi; ma già inoltrato il febbrajo del 1525 il duca di Borbone, il marchese di Pescara concordavano col Leiva che convenisse dare una battaglia, poichè essendo la città agli estremi, bisognava liberarla con un colpo risoluto. Diedero ordine ai varj capitani, e già i loro movimenti che dalle vicine città riducevano le truppe verso Pavia, annunziavano la prossima battaglia: se ne avvidero i francesi, e il Re se ne compiacque, perchè gli era grato il fragore delle pugne; ma discordavano i pareri fra’ suoi, correvano da alcuni dì voci diverse nel campo. Francesco il seppe, e tosto adunò i capitani più esperti nella sua tenda elevata presso a san Paolo; si assise in mezzo a loro, e con quel [655] suo fare che era di confidenza e d’impero li chiedeva di consiglio.
— Signori, sono quindici giorni che abbiamo sentito mormorare intorno a noi, nel nostro campo, presso la nostra tenda, parole di ritirata: se fossero uomini inesperti o timidi che le dicessero non vi avrei badato; ma siccome so che i miei bravi, i miei più antichi capitani mi danno rimprovero perchè resto in questa posizione, volli unirvi per sentire il vostro parere, per prendere un partito che meglio s’accordi all’interesse dell’armata e alla nostra gloria. —
Era intorno silenzio, il Re invitò a parlare pel primo il vecchio maresciallo Chabannes: poi sorsero Lautrec, Luigi d’Ars, il Sanseverino, Trimouille, Genouillac e il maresciallo Fox, e concordarono nel parere di levare il campo, di evitare la battaglia che vedevano inopportuna e fatale. Il Re si annubilò e non decise; taceva: Allora si levò Bonnivet; era facile ad assecondare il Re; aveva spirito cavalleresco, era acceso d’amore per Clarice Visconti, nè vedeva altro spediente per ritornare con lei a Milano, che finire presto con un fatto d’arme la guerra: per tal modo si decidono spesso da passioni private le più grandi imprese: costui sorse e consigliò la battaglia; e con lui Montmorney, Saint Marsault e Brion, ricordavano al Re come avesse detto che avrebbe presa Pavia o vi sarebbe perito. In questo mezzo La Roche du Maine entrava nella tenda e annunziava un nuovo [656] movimento dei nemici; la cavalleria leggiera del Pescara aver fatte alcune avvisaglie, e la certezza che da Lodi veniva a sant’Angelo. Il Re si alzò e col fare risoluto di chi ha deciso:
— Non è più tempo di deliberare. Atteniamoci ai consigli che ne persuadono la prudenza de’ vecchi marescialli e l’ardore de’ giovani capitani. Metteremo campo là d’onde si possa dominare la pianura, ed attenderemo il nemico nelle nostre trincee. Faremo capo nel parco del castello di Mirabello; De Chabanes coi Grigioni occuperà s. Lanfranco, e coprirà il corpo dell’esercito di cui ci serbiamo il comando; e al nostro fianco la nostra gendarmeria: si afforzino i monasteri di s. Paolo e di s. Giacomo: il gran mastro farà scelta del luogo più acconcio all’artiglieria. Il duca di Alençon proteggerà la retroguardia. Per tal maniera noi padroni della strada di Milano, del Ticino, del Gravelone, della Torretta, stringeremo sì Pavia che agli imperiali non resterà altra via di giungervi se non il passare sui nostri petti; ma non avverrà per Dio?... Ci si appone la taccia di troppo amore al guerreggiare; ma siamo di Francia; e più ne gradiscono i trambusti del campo che le delizie della capitale. Per altro badate di che potenti e fervidi rivali siamo molestati: Sua Grazia, il Re d’Inghilterra, non ci consente mai tregua alle nostre frontiere di Piccardìa; Sua Maestà Imperiale mirava a toglierci Marsiglia, i baroni di Francia, che nostro cugino Carlo di Borbone procurava [657] corrompere coll’esempio e colle instigazioni, devono essere posti in azione, tolti all’inerzia seguace ai tradimenti: conviene però che sieno tenuti sempre d’occhio nelle fazioni, e non mancheranno, perchè un gentiluomo non ha la viltà di tradire a fronte del nemico. I francesi amano di vedere più volentieri il loro Re a cavallo che sul trono, ed io abborro una pagina nella storia dei Re da nulla!... A voi, ammiraglio, è commessa l’esecuzione dei nostri ordini. Addio, signori, al primo segno ci troverete sempre pronti; noi dormiamo cogli sproni, con al fianco la spada; il mio Real è sempre bardato. —
Gli ordini del Re furono nella notte eseguiti. Esso traslocò il suo quartiere lontano tre miglia dalla città, a Mirabello, palazzo di caccia, posto nel parco dei Visconti, e si afforzò nel parco stesso ove le mura che il cingevano gli valeano di difesa.
Però mentre tutto nel campo francese era movimento, e tutto annunziava un prossimo memorabile fatto di armi, in una stanza del convento, un uomo di circa trent’anni stava pensoso ad un tavolo e scriveva:
— Questo esercito mi pare con poco governo, con molta licentia et più. Poca speranza gli è rimasa di poter pigliare la città hora che i nemici si vanno avvicinando. —
Poi si alzava, guardava da una finestra a tanto movimento di armati, e tornava a scrivere. — Questo esercito mi pare piuttosto pieno d’insolenza che [658] di valore... Io piuttosto temo che spero del successo di quest’impresa; et quello che più mi fa temere è che veggio che apertamente Sua Maestà s’inganna nelle cose più importanti; giudicando il suo esercito maggior di numero, et quello dei nemici minore di ciò che in effetto sono... Io vedo questo campo con quel poco ordine che era quando i nemici eran lontani; nè a questa troppa sicurtà so dare altro nome che imprudentia o temerità. —
Queste parole scriveva in una lettera diretta a Guido Rangone, un uomo che forse era dolente di non poter levare un canto di gloria al Re che lo ospitava dalle sciagure; era Bernardo Tasso, quegli che invece cantò le imprese d’Amadigi di Gaula, e crebbe il gran Torquato.