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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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§ III.

ORIGINE D’ARLECCHINO.

 

Lettori, levatevi il cappello, che l’argomento si fa grave; rizzate le orecchie, perchè si vuole della filosofia e più astrusa di quella di Court de Gibelin quando studiava il mondo primitivo. È vero che caliamo al mondo moderno, ma il poveraccio è tanto ravviluppato di contraddizioni, che vi perderebbe il filo tutta la logica di Porto Reale.

[680] La commedia italiana nel secolo xvi prese un carattere nazionale; Macchiavello, l’Aretino, il Bibiena si spacciarono delle imitazioni latine, e senza copiare gli antichi personaggi ridicoli, vi seppero dare grande amenità colla satira dei costumi, sebbene talora cadessero nella licenza. Alcuni però che non avevano il loro spirito, la loro feconda invenzione, per trovare novità, pur si volsero a studiare in Plauto: si accorsero ch’egli avea trovata una fonte del ridicolo coll’introdurre dei dialetti come nel Penulo, ove un cartaginese parla la propria lingua; ed altrove molti che facevano giuocarelli di parole col latino: quindi pensarono essi pure di far parlare ad alcuni personaggi ed in ispecie agli Zanni, che richiamarono ancora in iscena, varj dialetti d’Italia: tanto usarono il Russante, il Colmo ed il Cini nelle loro commedie ove si parla il veneziano, il padovano, il bergamasco, e nella Vedova dell’ultimo anche il napoletano.

Ora avvenne che un certo Arlecchino, nativo delle vallate di Bergamo, facendo la parte da Zanni, e parlando il patrio dialetto, rappresentòbene quel carattere, che fece dimenticare il nome di Zanni, e surrogarvi invece il proprio. Così accadde d’un altro delle stesse valli detto Scappino, che tolse a fare il Zanni astuto e vi tramutò il nome. Di questi mutamenti ne avemmo esempio oggidì; vedemmo un caratterista prendere il nome di Babbeo, e in Milano uno di Roma detto il [681] Romanino, che facea ballare i burattini, per la tanta sua riputazione dare loro il proprio nome, sicchè si usa tuttavia di chiamare i romanini quella compagnia comica di legno.

Chi poi fosse questo primo avventurato mortale, che impose il proprio nome d’Arlecchino a un personaggio della commedia, non è facile definirlo: la storia che spesso ne annoja colla biografia di certa gente che tornerebbe meglio andassero dimenticate, non ne soccorre.

Troviamo però che un certo Arlecchino ai tempi di Filippo II re di Spagna, capo d’una compagnia comica, recitò alla corte di Madrid, ove levò grandissimo rumore, e aveva le grazie dei grandi in quei tempi burrascosi. Sarebbe mai costui il primo Arlecchino del mondo? Prima di quest’epoca non troviamo Arlecchini, e pare anche, dietro tutte le regole del sillogismo date dagli scolastici, che si possa stabilire, essere quella l’età che vide la prima volta Arlecchino sulle scene. Tanto conferma il sapere che a questo Arlecchino succedè nel teatro spagnuolo un altro italiano detto Ganassa, che faceva commedie, ove era lo spirito e la modestia, e valse a migliorare il teatro spagnuolo: siccome poi di Ganassa e de’ suoi seguaci si segna nei fasti di quel teatro il cognome, e del primo si parla solo di Arlecchino, fa luogo a credere che questo fosse veramente il suo nome.

Fin qui quanto ne soccorre la storia; in quanto alla vera patria del grand’uomo, giovi interrogare [682] la tradizione, perchè non se gli usi la barbarie di contendergliene una come ad Omero dandogliene sette, e non sia costretto riconoscerne altra che l’inferno, ove fu condotto poi da don Giovanni Tenorio.

 

 




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