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Defendente Sacchi Novelle e racconti IntraText CT - Lettura del testo |
§ VII.
STORIA DEI PIÙ FAMOSI ARLECCHINI.
Omai conosciamo il carattere d’Arlecchino, ma non è possibile conoscere i fasti del primo che lo creò, come se ne è trovata la patria e il tempo in cui apparve qual meteora a spargere luce nell’universo. Invece non sia inutile avere notizia d’alcuni che tolsero a rappresentarlo in varie età.
Molti ingegni in tutti i secoli, fino a que’ di Gozzi e di Goldoni, composero commedie nelle quali aveva parte Arlecchino: alcuni scrissero la parte ch’esso doveva recitare, ma di consueto non ne davano che la traccia, perchè gli Arlecchini parlavano da sè; erano improvvisatori: quindi più facile la satira che suggeriva la circostanza e il momento.
Domenico di Bologna fu un Arlecchino di grande riputazione: era capo d’una compagnia comica: quando egli recitava, s’affollavano gli spettatori e uscivano lieti dal teatro, ed alla dimane ripetevano i suoi motti e le sue celie.
Domenico fu a Parigi ed alla corte di Luigi XIV e vi levò gran rumore di sè. Egli voleva porre sul proscenio del proprio teatro il busto del primo Arlecchino; voleva levargli un monumento. Aveva però in pensiero di porvi sotto alcuni versi di lode e desiderava che gliegli scrivesse Sautevil, [691] che era il poeta più riputato del tempo, ma sapeva che costui non era tanto arrendevole a simili ricerche. Pensa: nulla è difficile ad Arlecchino. Veste l’abito a colori, pone al fianco la spada di legno, s’avvolge in un mantello, sotto cui cela il cappello bianco, si getta in una lettiga, e si fa portare alla casa del poeta. Appena giunge alla stanza di Sautevil, entra precipitoso, lascia cadersi a terra il tabarro, s’acconcia in capo il cappello, e si pone a correre lungo la stanza a gran passi, facendo tutte le caricature che usava in teatro, motti, capolini e mille smorfie.
Il poeta restò meravigliato a quella apparizione improvvisa, lo guardò lungamente senza far motto; indi preso da un estro bizzarro, si levò e si diede a sua posta a camminare per la camera contraffacendo esso pure tutte le smorfie d’Arlecchino. Continuarono per alcun tempo questa commedia, e finalmente s’incontrarono petto a petto, si fermarono e si scambiarono a vicenda molte riverenze. Dopo Arlecchino si levò il cappello, lo gittò in alto, lo raccolse, lo aggiustò a foggia d’una barchetta, e lo rimise in capo: fece un altro inchino, si levò la maschera, e stese le braccia aperte al poeta che gli corse al seno. I due uomini di spirito si baciarono; Arlecchino lo salutò gran poeta e Sautevil gli rispose con questo emisticchio: Castigat ridendo mores. Arlecchino ne fu contento e partì.
Alla sera apparve l’effigie del gran padre [692] Arlecchino nel proscenio, e scrittevi sotto quelle parole. Furono indi ripetute su tutti i teatri del mondo, su tutti i palchi delle marionette, su tutte le baracche de’ burattini, e non ebbero meno rinomanza del Nosce te ipsum, scritto sul tempio di Delfo.
Luigi XIV si piaceva udendo recitare questo Arlecchino, ed esso procacciava ogni modo per ricrearlo. Aveva gran rinomanza a que’ tempi Boncampe, ballerino di corte, era il miracolo delle gambe. Una sera che andò il re alla commedia, Arlecchino uscì in iscena tutto giulivo, fu accolto con applausi, ed ei si pose a ballare ed a contraffare in caricatura sì leggiadramente Boncampe, che si levò un applauso universale, e il re ne rideva in modo straordinario. Arlecchino accesosi per quella universale allegria, protrasse la danza finchè gli resero le forze; ma quella compiacenza gli riescì fatale: era sudato, non potè mutarsi, perchè doveva seguitare la commedia, sicchè gli prese una fiera malattia, e in otto giorni morì. Fu un rincrescimento universale per questa sciagura, fu chiuso il teatro più d’un mese.
Tomasino fu un Arlecchino di molta grazia, ed esso pure aprì teatro a Parigi. Aveva de’ nemici che gli sollevarono una controversia: alcuni si lamentavano perchè i comici recitassero in italiano, altri si opponevano perchè parlassero francese. Arlecchino era in forte imbarazzo colla compagnia, ma si tolse destramente d’impaccio.
[693] Una sera sul terminare della commedia, con un vezzo di movenza, si fece innanzi in mezzo al palco, inchinò con bel garbo gli spettatori, e disse che voleva narrare una storiella: raccontò in modo assai piacevole la favola di Fontanelle del mugnaio, di suo figlio, e dell’asino, tanto nota per le contraddizioni ne’ giudizj di que’ che li incontravano quand’erano in viaggio; indi aggiunse:
— Ora veniamo all’applicazione: io povero Arlecchino sono il mugnajo e suo figlio, ed anche l’asino. Alcuni mi dicono: — Arlecchino bisogna parlare francese: le donne, ed anche molti uomini non t’intendono. — Li ringrazio dell’avviso; ed ecco da un’altra parte de’ signori: — Arlecchino tu non devi parlare il francese, perchè perderai il tuo spirito. In vero io sono in uno spinajo fra sì diverse opinioni: devo parlare francese o italiano?
Allora alcune voci della platea risposero: — Parla come vuoi, che piacerai sempre. —
Arlecchino fece un giro tondo e si calò il sipario, e seguì a parlare il suo dialetto: si pubblicarono i canevacci delle sue commedie, se ne fecero estratti per le donne, ed andò di moda aversi in palco un maestro d’italiano, il quale spiegasse quanto diceva Arlecchino, e le donne rideano ed applaudivano. Pensate che faccenda sarà nata in quel teatro: certo avrà avuto la sua buona parte l’immaginazione, perchè in quelle traduzioni lo spirito d’Arlecchino sarà giunto alle spettatrici come la luce del sole per un vetro [694] affumicato; e poi que’ traduttori chi sa che avranno fatto dire ad Arlecchino quando susurravano all’orecchio delle dame!
Biancolelli fu Arlecchino assai rinomato e fiorì verso il 1681: trasse egli pure a Parigi ed ottenne gran lodi: i Francesi ebbero sempre simpatia per gli Arlecchini. La sua compagnia recitava talora anche in francese, e quindi i comici della nazione lo querelarono: il re chiamò a sè Baron capo comico francese ed Arlecchino, per udire le loro ragioni, e decidere chi avesse il torto e dare sentenza.
Parlò il primo Baron con pompa di argomenti a provare, che il re non doveva permettere all’Arlecchino di recitare in francese. Quand’ebbe finito e toccò la sua posta all’Arlecchino, cui doleva il giogo qualunque si fosse; pensò spacciarsi in bel modo; si volse piacevolmente al re, e gli chiese: — Sire, come parlerò io? — Il re che pensava ei dimandasse licenza per la sola risposta, gli disse tosto: — Parla come vuoi.
— Dunque, aggiunse Arlecchino, ho guadagnato la mia causa. — Il re non volle disdirsi, ed Arlecchino recitò nella lingua che più gli gradiva.
Carlino fu un Arlecchino pronto, vivace: in una commedia antica a soggetto, il suo padrone faceva un’amara satira degli uomini; Arlecchino l’interruppe:
— E delle donne? signore, che ne dite?
[695] — Dunque, signor padrone, converrà dire, che per essere perfetti non bisognerà essere nè uomo nè donna. —
— Si dice che un bicchiere di vino sostiene un uomo, narrava Arlecchino cui tremavano le gambe uscendo dall’osteria; io ne ho bevuti più di sessanta, e non posso stare in piedi. —
Arlecchino faceva il cuoco, e perchè non aveva memoria, avendogli il padrone ordinato di cuocere un cervello di bue, gli diede scritto il modo di accomodarlo. Quegli pose sul tavolo il cervello e la carta: venne un gatto e rubò la carne, e Arlecchino gridava: — Ohe gatto, gattol — e gl’indicava la carta: il gatto fuggì ed ei riprese: — Ah! gatto pazzo, che ti varrà aver preso il cervello, senza sapere come cucinarlo? — Carlino narrava questa scena facendo il gatto e il cuoco con tanta grazia, che il teatro andava tutto a risate.
In una città capitavano pochi spettatori a teatro; alla sera in commedia Colombina doveva dire qualche cosa in segreto ad Arlecchino, e se gli accostava con gran riserbo; ma egli accennandole la platea vuota: — Parla pure forte, Colombina, siamo fra noi e nessuno ci ascolta. — Si sparse il motto spiritoso, ed il teatro fu affollato.
Un albergatore si lamentava, gli fosse stata rubata una borsa con 300 scudi, belli e contati. — Hai ragione, rispose Arlecchino, gregge numerato lo mangia il lupo. —
Un’altra volta Florindo piangeva perchè gli [696] avevano rubato un eccellente orologio: — Se fosse stato tale, rispose Arlecchino, t’avrebbe indicata l’ora che doveva esserti preso. — Udì poi che il ladro era forestiere. — Forse sarà la moda del suo paese. —
Di questi motti di varj Arlecchini si fece un libro antico francese intitolato Arlecchiniana, che non mi riescì vedere, ma è una raccolta di storielle; fu forse il modello sopra il quale si fecero poi le opere ove sono raccolti i fatti e i motti di Voltaire, d’Alembert, e d’altri: sono tutti uomini grandi.
Forse l’ultimo Arlecchino che levò maggiore grido fu Sacchi, che meritò gli scrivessero commedie Gozzi e Goldoni. Si narrano di lui molti tratti di spirito, e ne è ancora viva la ricordanza a Venezia: Ei fu... ma il nome mi muove la modestia... forse si potrebbe dubitare che studiassi dare lodi ad un mio antenato per prendermene una parte: veramente non sono che giuocatore de’ bussolotti, pure non potrei sperare altro merito che quello che mi riflettesse da un Arlecchino: mi accontenterò del posto di buttafuori, e farò calare il sipario.