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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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IX.

AL COMPILATORE DELLA STRENNA.

Lettera di Girolamo della Crigna.

 

È permesso a un povero diavolo venire fra il senno di tanti chiarissimi dottori che ella distilla in un sol volume? Mi hanno detto che vossignoria è tutta in faccende colla riverita razza de’ letterati, affinchè le mandino il promesso componimento per la sua Strenna. Già m’immagino vederla, a quali scrivere una graziosa lettera, a quali mandare un’ambasciata, a chi fare di cappello per via, a chi dimandare della salute; e tanta pressa perchè innanzi che il libro il faccia col lettore, ella vorrebbe dire ai suoi collaboratori con buona maniera: non ti scordar di me. Tanto vale, le raccomando la novella, il canto, la canzone; e a tutti s’intende dirà essere i lavori da cui spera maggior credito all’opera, e tutti ne saranno persuasi, giacchè i letterati sono più corrivi delle donne nel credere alle lodi; è tutta buona fede, sebbene non l’usino che in casi riserva.

Or bene, tale notizia mi ha accesa la fantasia e risvegliata un’antica passione che ho nel cuore. Mi rassetto la giubba, racconcio le punte al cappello, e tutto raggiustato esco di casa e mi metto svelto in cammino; per la via più breve giunto al Duomo, e ammirato l’edifizio grande e la piazza [707] angusta, il tempio gotico, le porte romane e la gradinata greca; transito alla piazza de’ mercanti, e girato rasente la loggia prendo di fila santa Margherita. Al primo angolo a mancina, mi fo ardito di entrare in un ricco negozio di stampe e bellamente m’inchino alla prima persona simpatica in cui mi abbatto, e sì la prego perchè voglia interporsi presso di lei, onde mi sia cortese d’alcune pagine in un libro, il cui concetto non poteva sorgere che fra i pensieri di uno spirito gentile.

Forse le parrà nuovo che io alzi a tanto la navicella del mio ingegno, e pretenda navigare con tanti esperti piloti che conducono questa sua barca, ma ho il mio piccolo orgoglio, e se non tengo il senno di que’ suoi reverendi, forse ho più giusta la bussola e duro il cervello. Oso poi dire umilmente ch’io corro in maggiore rinomanza di molti, sebbene io disfortunato non abbia per farmi chiaro che le mie poche chiacchere, e ad essi non manchino mai le conscie lodi de’ giornalisti, perchè fra loro s’intende, hanno lega e si fregano a vicenda; ah! non la dubiti che anche la Strenna di quest’anno sarà gridata bellissima.

Oh! ma usciva di riga e appunto il ricordare i giornali mi richiama al primo proposito, ravviva quell’antica passione per cui ho pensato di scriverle. Vorrei ch’ella tenesse conto d’una mia giusta querela per la dimenticanza in cui pongono nei loro fogli, me Girolamo della Crigna con tutte le mie Marionette, appunto questi signori giornalisti, [708] che sanno tutto, che parlano di tutto con tanta dottrina, fuorchè quando fanno vista di non averne, ciò che per loro comodo avviene il più delle volte.

Già è gran tempo che la ho nel gozzo questa ambascia, e se taccio ancora io crepo. La veda un po’, signor mio, che gusto ora corre, che giustizia buggerona la è quella di questo mondo! i giornalisti anneriscono le lunghe colonne dei loro fogli per annunziare le vicende teatrali, colla stessa sollecitudine che userebbero coi protocolli delle conferenze di Londra, ed hanno associati e lettori! e saranno assennati certo costoro, se si misurano dall’erudizione che agognano. Ma di ciò poco male, meno dottrina e più lieti gli spegnitori dei moccoli: è altro che mi pesa.

I giornalisti danno notizie per le lunghe e per le larghe, non dirò dei viaggi delle grandi virtuose, che omai è di etichetta dopo le effemeridi di quello della giraffa, e de’ sassi che valer devono per future statue a scultori lombardi; non de’ nuovi drammi, non de’ cantanti che fanno sempre furore; ma innalzano un panegirico più ridondante d’un elogio di Tomas, se una donna in provincia ha emessa una voce più o meno sottile, se ha gorgogliato un mezzo trillo, se una ballerina ha levate le gambe una linea più del consueto. Danno ragione di spartiti che non hanno accordo, di drammi che non fanno ridere piangere, di tiranni che pestano i piedi e mandano fuori dal gozzo una voce da timpano, quando [709] dicono: oh rabbia! di prime attrici che sono caricature ambulanti, di compagnie intere che gridano a quanto hanno capace il polmone una commedia, quasi che questa sia non la rappresentazione del conversare sociale, ma l’ideale dei lazzaroni napoletani. Parlano di tutti, e di me, povero Girolamo, non dicono sillaba, non mi ricordano mai come se fossi uno straccio: mi furono talvolta cortesi solo i due Pezzi, e mi concedono sempre nella gazzetta mezza riga per annunziare la mia giornaliera produzione: abbia pace l’anima del padre che aveva tanto spirito, e perciò ei solo teneva meco simpatia, e crescano al figlio gli associati, quante sono le bugie che dicono in un anno i suoi colleghi d’oltremonte. Non sono vendicativo, ma se cogliesse a tutti gli altri... uff! vorrei tacere, ma merito io poi di essere in questo modo gittato nel fango? vorrei essere temperato, ma vi sono dei casi che bisogna proprio cacciare via la modestia ed il pudore.

No certo, quanto io so fare per ricreare il pubblico, la mia illustre origine, i benefizi che reco, devono esseremale rimeritati. Innanzi tutto il mio teatro è più comodo di quello della Scala; questo è immobile e invariabile, e per migliorarlo bisognò darvi il fuoco: il mio in poche ore si mette sur un carro, e gli si fa girare il mondo: si arriva in un paese, una chiesa vecchia, un portico, una campagna, eccovi il palco, la compagnia e lo spettacolo; teatro che [710] viaggia come le biblioteche ambulanti di Toscana introdotte da quel galantuomo di Vieussieux, e che parimenti di quelle sparge l’istruzione nei contadini; quindi teatro che porta l’incivilimento, anzi ne è un Fattore, e sfido a negarmelo Romagnosi.

La mia compagnia poi è tutta di brava gente, illustre quanto un’accademia. Un Brighella furbaccio, da cui i francesi copiarono il Figaro; un Arlecchino uomo lepido, nato nella valle di Brembo a san Giovanni Bianco lunge due miglia di Cornello, che fu patria d’origine al gran Torquato, ma più fortunato di lui perchè non si impaniò mai in reti pericolose; un Dottore in utroque che come tutti i suoi colleghi perdè la dottrina quando prese il grado; quel prudente Pantalone, vecchio che paga e di buon cuore, ma corroso dagli anni non gli resta che la barba grigia, ed è Venezia che cammina. Che dirò di Colombina e di Florindo? quella spiritosa come le donne di provincia, questo fedele come i galanti della capitale. A tali Archimandriti fa poi codazzo lunga schiera di conti e di baroni, di amici, di confidenti, di antichi e di moderni: in somma il mondo in compendio, è al solito rappresentato degnamente.

E bisogna vederli entrare in iscena; fieri, dritti, instecchiti, non muovano mai le gambe innanzi, indietro, come alcuni vorrebbero che andasse il secolo. Se poi si accendono nel parlare, che fuoco, che porgere, che gestire! Occhi [711] immobili, volto impassibile; fermi sulla persona vibrano le braccia in alto, in basso, come il telegrafo; questo è imperfezione dell’arte, è perchè risalgono agli archetipi delle figure dipinte nell’ottocento; così come ora è di moda rifaccio anch’io il medio evo, e senza annojare. In mezzo poi a quel fervore di disputa e a un tirare di fili dall’alto, s’ode la voce cadere dal cielo, aggirarsi nelle nuvole, e guizzare sul capo di quei personaggi, sicchè pare una di quelle scene in cui Giove o qualche altro Nume, parlava cofigli della terra; e sono tutti miei prodigi.

A tutto questo ponga per giunta la compagnia di ballo. E le so dire che il mio primo ballerino ha tale alzata, che ben meriterebbe il secolo illuminato gli versasse ai piedi cento talleri per sera, come si usò con monsieur Paul perchè agitasse venti minuti le gambe sul palco della Scala. Oh! è secolo in cui i piedi la vincono sulla testa; fino i soldati di Napoleone dicevano ch’ei faceva loro vincere le battaglie colle gambe: ora esse fanno un po’ di più. E le mie Tersicori? si diano pure incensi a tutte quelle vestali, che verso sera un certo carrozzone illuminato da due lanterne va a raccogliere in varj angoli romiti della città e le porta sul palco del gran teatro per muovere gli applausi de’ noti spettatori; esse non spiccheranno scambietti, sosterranno giritondi ripetuti, quanti ne ardiscono le mie ballerine, e coll’utile che non cascano mai, e non si rompe loro mai nulla.

[712] Con tutta questa famiglia io do gli spettacoli con grandissima quiete, poichè le sono creature benedette dalla pace, ubbidiscono senza muovere sillaba, stanno al posto dove le metto come una sentinella. Oh! esse non fanno mai quei clamori indiscreti onde sono sempre travagliati i direttori dei teatri; non vanno a pigliare per la marsina Romani, a fare un inchino a Mercadante, a Monticini, perchè aggiunga o tolga quattro versi a una cavatina, abbassi o innalzi un’aria, scorci il passo a due; è vero che anche il poeta, il maestro e il coreografo non hanno certe occhiatine...

E quando s’ha da porre in iscena, i miei virtuosi, veh, non parlano di convenienze teatrali, non muovono querela sugli abiti corti o lunghi, non pretendono un turbante turco anche dovendo rappresentare un romano; per piccioli dissapori e invidie non s’abbaruffano si giurano eterno odio come i figli di Giocasta per porsi in pace dopo pochi minuti. Infine non bisogna che il poeta si consumi per insegnare loro la parte e persuaderli che sono eroi: che non alzino le mani al cielo invocando l’abisso, accennino al suolo annunciando che è già alto il sole, rappresentino momenti d’ira e di disperazione con tutta calma e indifferenza; sicchè ogni volta che vede tanto intelletto gli convenga ripetere, non esservi che la Pasta la quale possa sentire tutta l’indole d’un’azione ed esprimerla con un sublime cantare.

Ma tutti questi, mi dirà ella, li sono privati [713] vantaggi e non accade i giornali se ne facciano carico; essi lodano gli spettacoli... È qui dove voleva si venisse; perchè ho ragioni da vendere, io. E che? oltre gli ambulanti, non ho io un buon teatro in Milano che potrebbesi proclamare il primo della capitale, se facendo torto alla Scala non si cimentasse di mettere in desolazione i milanesi pei quali la Scala è tutto circolo, tribuna, accademia, nazione? Bene, facciamo transazione, si conceda al mio appena il titolo di emulo al gran teatro, e mi si compete ad usura. Infatti v’ha egli spettacolo straordinario posto su quelle scene, ch’io subito non presenti colle stesse meraviglie? Non ho forse rivaleggiato con Viganò e con Sanquirico nel riprodurre il Prometeo e l’Ultimo giorno di Pompei? Non vidi forse sparsa la festività ne’ miei spettatori allorchè gareggiai coll’Enry nella Festa da ballo in maschera? Che se il gran teatro mi soverchia, perchè i suoi personaggi fanno ispiritare coi trilli; io non ho le disgrazie che mi manchi un tenore innamorato, o una prima donna, perchè le si gonfiò la gola; io non fo fallire gl’impresarj.

Io poi fo di più de’ poeti e de’ coreografi della Scala: io ho recitata e posta in azione la Presa d’Algeri, io riproduco tutte le maraviglie della magia; uomini piccoli che si allungano, e da ogni braccio, gamba, membro staccato, nasce un altro uomo; io i prodigi del cavalier Bajardo, le tre Melarancie e tutte le fiabe del Gozzi. E li sono i grandi anni che creo questi portenti; la natura sconvolta, il [714] cielo che parla, gli elementi fuori di luogo. Se l’ambizione non mi fa velo al giudizio, in questa parte io fui maestro di coloro che sanno. Fu sulle mie scene che impararono Goethe e Byron le stregonerie di Faust e di Manfredo, e se l’Amore e la Morte di Romani capitavano, non nelle unghie di cattivi cantanti ma nelle mie, oh! certo che il suo dramma correva gran fortuna perchè l’è uno dei più belli e bene scritti, e il romanticismo drammatico, cioè la mia scienza, era installato sulle grandi scene d’Italia.

Vede dunque, che anche se si riguardi per sapere, questi gravi artisti sono miei colleghi. Romani, Nota ed Enry: e non se l’avranno a male ed anzi alzeranno le basette per orgoglio confessandolo. E dirò correre anche fra noi la differenza, che essi fanno una sola parte, ed io compongo ed eseguisco; che essi parlano un solo linguaggio, ed io tutte le lingue, tutti i dialetti d’Italia, tutte le voci, grosse, sottili, da uomo, da donna, da giovane, da vecchio, e se ne levo il computo posso competere di parlare trenta lingue con Mezzofanti; che essi possono avventurare sole poche cose, ed io ho per elemento a’ miei drammi l’universo; che essi qualche volta furono fischiati, ed io mai.

E se non canto, certo nella comica non cedo a Vestri, a Bon. Se il primo ha un mirabile parlare per cui insinua i sentimenti che vuole nell’animo; se l’altro ha quel fare sì vero che quando recita il Falso Galantuomo, mi pare vederne uno [715] di quelli onde si abbella la società; io so e posso fare di meglio, io sempre di un aspetto, con una faccia sempre ridente anche quando piango, sempre i motti spiritosi sul labbro. Non oserò contrastare di rinomanza con Bertoldo, che ebbe la ventura di usare le corti de’ Longobardi, e trovò chi di lui tant’alto scrisse; però ne’ suoi motti trapelava pur sempre l’adulazione, e so di buona mano che aveva la spina dorsale assai pieghevole. Io invece cammino sempre diritto, col cappello fuori degli occhi, io; uomo del popolo motteggio con lui, ed ei si lascia strapazzare, perchè il colto pubblico non si offende quando sente il vero, e sente e impara. Quindi io tengo buona scuola, sono filosofo, ma pratico non dottrinario, perchè guasterei tutto, fino l’acqua fresca; la mia è la filosofia civile, e quando tutti la sapranno vedrà che bel mondo.

Forse che questi giornalisti mi credeano uno scartato, uno scalzacane, perchè vo vestito alla buona, e non cambio la moda coi giorni? Già non mi meraviglio, perchè essi giudicano sempre dall’esterno anche ne’ libri. Non sanno che è da grande l’andare disadorni, come usava Diogene e Paletta? e furono perciò giudicati grandi. E poi io non sono l’uomo di jeri di dimani, sono l’uomo dei secoli e sono sempre Girolamo, e se mi cambiassi tradirei la pubblica fede. Ne vuole una prova? Una volta mi venne in pensiero di farmi gli abiti nuovi, mutare le bendelle scolorate della coda, mettermi un cappello meno logoro e lavarmi la faccia. Ah! [716] mi tolse il mio mal genio il senno quel e n’ebbi grave pena, poichè questi milanesi si misero di mal umore, dissero che non era più Girolamo, mi fuggivano con sacro orrore, e fu deserto il mio teatro: ne accolsi l’esultanza del generale applauso, che quando ritornai nell’aspetto di prima. E dunque a me solo privilegio e debito d’essere sempre eguale, perchè gli altri si mutano, e non mi ricordo avessero simile castigo.

Se poi sono tornati in credito i diplomi e le origini, posso anch’io narrare che l’invenzione della mia arte marionettesca risale a varj secoli addietro, anzi ai tempi della seconda regina Giovanna di Napoli; e fu trovata da persona illustre. Ma la è una storia un po’ lunga e un po’ melanconica, e questa volta non ho voglia di dare nel patetico, rattristare i suoi lettori e i giornalisti a cui m’appello.

Intanto le basti sapere, che ci creò e mise al mondo una buona figliuola nata d’un barone di Napoli nominata Mariannetta. Era costei bella, fresca e ritonda come un pomo, brava come sono tutte le eroine di romanzo; si conosceva di musica, canto e ballo; faceva merletti e ricami di seta come tutte le fanciulle del nostro secolo, e solo sapeva più di esse, rattoppare un buco in una calzetta: era buona, e voleva marito come le fanciulle di tutti i secoli. Per una avventura bella brutta, ma comune fra le donne, qual è la rivalità, cadde in disgrazia della regina Giovanna e migrò in Francia col padre. Ivi per alcun tempo visse con lui assai [717] sottilmente dei lavori che essa faceva di propria mano; ma questi non bastando alle loro necessità, fra i pensieri che la sgraziata agitava nell’animo per trovare modo a qualche onesto guadagno, si ricordò di avere vedute in Napoli sovente innanzi alla propria casa, le rappresentazioni di Pulcinella: qual personaggio sia questo e antico e grande, non accade ora ripeterlo.

Vide la giovane italiana, che i francesi non ne sapevano nulla di pulcinella, di burattini, e pensò che se si riproducevano avrebbe potuto cavarne buon profitto. Però s’accorse che la forma de’ burattini fino allora usata e la baracca che loro vale di scena, mal si convenivano, per farsi dare ajuto nelle rappresentazioni del padre che già s’inchinava pei molti carnevali che aveva passati.

L’ingegno di donna è potente per nuove invenzioni e massime per far ballare burattini: quindi la Mariannetta pensò, invece di una sola testa ferma a un abito vuoto che si muove ponendovi dentro la mano, di formare de’ fantocci col corpo e colle gambe; poi rappiccate loro al capo ed alle mani delle cordicelle, aggirandole fra le dita, vide che si movevano assai bene. Fatta la prima scoperta ne viene di seguito una dozzina come le ciriegie; bisogna che caschi il primo pomo. Infatti immaginò un palco più basso all’indietro della propria persona sicchè potesse dall’alto mettere in iscena e fare muovere quelle creature, e tutto le andò a meraviglia.

Poichè ebbe acconciati alla meglio otto o dieci [718] fantocci, tanti appunto, quanti nelle baracche napoletane aveva compagni Pulcinella, che al solito fece capo della brigata, si provò a riprodurre le commedie che aveva vedute rappresentare in patria, le raggiustò alla meglio, e alcune ne cucì di nuove. Datene indi pubblico spettacolo, levò tanto rumore e piacquemaravigliosamente, che i francesi traevano a folla a vedere, e al solito posero per quei in dimenticanza tutte le altre cure come se fossero un niente, e non parlavano più fino di politica.

Tutto il mondo gridava al miracolo e come alle cose nuove si vuole subito il battesimo, la nazione intera di comune accordo dal nome dell’inventrice Mariannetta, chiamò Mariannette e poi Marionette le nuove persone comiche. Fu certo fortuna non capitasse alle spalle qualche grecista che non le avviluppasse con un nome lungo trenta sillabe da fare ispiritare, e che solo si intendesse collo studio del dizionario etimologico.

Non vodirle ora tutte le vicende del nuovo teatro, favorevoli e tristi, occorse in ispecie nelle molte città ove peregrinò la buona giovane. In alcune ebbe gli onori del trionfo, ma in Isvizzera fu presa niente altro che per una strega. Per tale fu querelata a’ magistrati, e alcuni di quei discreti che vorrebbero distruggere ogni cosa nuova perchè non è segnata nel loro libro, già altamente l’appellavano al rogo; e fu gran ventura vi avesse un podestà tanto paziente che prima di condannarla, le consentì di mostrare col fatto le ragioni che [719] adduceva in sua difesa. Mariannetta fu più fortunata di Galileo, ed è naturale; con suo padre recò innanzi alla signoria la sua onorata famiglia, e senza scene diede spettacolo innanzi ai giudici, i quali ebbero per caso tanto senno da comprendere il meccanismo delle Marionette. La posero quindi in libertà, ma però la mandarono ai confini.

Mariannetta allora transitò in Piemonte, avventurata mia patria, ove le fu fatta da tutti sì buona cera, che per gratitudine assunse me Girolamo della Crigna capo della sua compagnia, e ne sbandì Pulcinella, perchè le sentiva troppo di lazzarone. Da quel momento io rimasi sempre presidente del reverendo senato, e Pulcinella si restò direttore de’ burattini.

Ora che le pare? non vanta la mia arte illustre origine? essa creata fra la necessità e la virtù, e sì grande che reca il nome della inventrice, pari alla scienza della luce che si chiama dallo scopritore. E non è questo orgoglio, è sentimento di venerazione verso i sommi inventori; Mariannetta meritava gli onori del Panteon. Ma come non si aveva ancora pensato a questi luoghi, ove di rado si pongono gli uomini dabbene, un gran pittore di quel secolo per farle onore, la ritrasse tutta bella, arredata del della festa, perchè allora i pittori non facevano mica ritratti a chi ne vuole, e vestiti come Dio vuole. Questo ritratto io l’ebbi per lunga eredità da’ miei avi e lo tengo in serbo coscenari, e ogni anno il giorno natalizio di quella buona [720] figliuola, lo pongo sul palco e lo fo ossequiare da tutta la mia compagnia.

So bene che alcuno di quegli antiquari che s’inchinerebbero a una pentola se mai venisse loro detto che fu l’urna cineraria della fantesca di Varrone, e non vogliono che nulla sappiano i moderni che non sapessero gli antichi, grideranno che sono favole queste cose che le narro e che le Marionette si conoscevano dai greci e dai romani, e mano mano indietreggiando forse risaliranno fino ai popoli dell’Oceanica. Costoro per provare a vossignoria che già si dava spettacolo colla nostra gente ai tempi di Pericle, le citeranno un passo del convito di Senofonte, ove Socrate dimandava a un ciarlatano, come potesse essere allegro usandomisera professione; cui l’altro rispose che viveva della follia degli uomini, dai quali cavava denari con pezzi di legno che faceva muovere. Ma innanzi tutto se Socrate ardiva parlare delle Marionette con sì poco rispetto e chiamarle un’arte miserabile, si potrebbe giurare che non aveva il senso comune, e per la prima volta bisognerebbe dargli torto; poi non è provato che far ballare pezzi di legno sia l’arte nostra.

Altri poi che sfinirebbero di crepacuore, se non fossero persuasi che i romani sapevano tutto, le citeranno per combattermi dei versi di Orazio e un luogo di Petronio ove narra, che ad un festino di Trimalcione fu posto sulla tavola uno scheletro d’argento il quale si pose a ballare, quindi [721] dimostreranno con ragioni matematiche, che lo scheletro si muoveva mercè cordicelle, quindi che era una marionetta. Questo fatto proverebbe che la danza de’ morti è più antica del romanticismo, che in quel tempo vi erano dei buoni macchinisti, ma non già che lo scheletro si movesse per opera di fili; poichè sarebbe stato un misero gioco a que’ prandi, ove era tanto splendore d’arti; è un degradare la sapienza romana.

E sia poi quel ch’esser si vuole di queste dispute, certo i greci, i romani ebbero tanto senno da far ragionare i loro fantocci nella lingua con cui parlano adesso Arlecchino, Pantalone, il Dottore e me unico Girolamo. È linguaggio che non sapeano Orazio, Cicerone, e di questo almeno spero mi concederanno privilegio di novità.

Eccole quindi a conclusione comprovato come due e due fanno quattro, che i giornalisti hanno torto di tenermi in tanta dimenticanza, perchè ed io sono persona chiarissima, e la mia arte è grande. Non dirò già come cantava della poesia Monti, sia figlia di Giove e di sua mente raggio, ma appunto sorella carnale di quest’arte, è figlia della sapienza italiana, e del nostro ciarlatanismo; perchè deve sapere che i migliori poeti ed i più bravi ciarlatani del mondo sono italiani... Oh non la storca il viso; ciò a vedere che essi hanno maggiore ingegno e fantasia delle altre nazioni, e per non istare in ozio fecero Arcadie e Marionette, e seguiteranno finchè non sappiano fare qualche cosa [722] di meglio, ma sarà il giorno del giudizio. — Le auguro buon , e buon anno.

 

 




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