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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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Parte seconda

Il trabocchetto

 

Non ti scordar di me: — mi suonò il compilatore della Strenna pigliandomi a un braccio per istrada. Salute! gli riposi, e sapendo ove suole battere quel suo intercalare, aggiunsi — Hoè! ma è già buon tempo che il mio ricordo è annicchiato nel volume: io poi non la dimentico mai, è sì gentile!

— Lo credo, ma ne vorrei una seconda prova.

— Vedo che ella è come gli amanti, che per quanto si sentano rispondere, io t’amo, non ne sono pur mai satolli. Mi pare che la stampa del libro omai tocchi al suo fine.

[74] — Appunto; ma vi aggiungerei volontieri qualche altra coserella di genere serio, perchè quest’anno abbonda di cose liete.

— Tanto meglio.

— Sì, va bene... ma pensava... voleva dirle... brevemente mi farebbe ella ancora una novella sentimentale?

— Sentimentale? misericordia! vorrebbe dire con questa parola neh, far piangere?

— Appunto.

— Ma, e ha proprio da guaìre tutto il genere umano? non teme un diluvio di lagrime?

— Ah no! basta che sospirino le donne, sono tanto sensibili!

— Ma perchè mo’ contristarle? avranno tutte nella domestica casa argomento onde piangere sovente, senza ch’ella pur voglia constringervele con un libro?

— Ella ragiona a proposito, ma la moda ha la sua parte, ed ora piace qualche avventura melanconica, dolorosa.

— Ho capito, tragedia! insomma sangue, coltelli, veleni, e che si muoja: in tomba gli eroi, gli amici, i servi e la gloria dell’autore: cominciare col riso, e finire cogli occhi rossi.

— Bravissimo: ma trascelga un buon argomento.

— Lo vuole storico? eccolo; la morte d’Arlecchino avvenuta in un pollajo, dopo trenta infanticidj, perchè schiacciò le uova d’una chioccia prossimi a nascere.

[75] — Ah no, no: c’è del comico.

— Dunque in Belle Arti? le disgrazie di una modella, che dopo avere fatto delirare pittori e scultori, e servito da Venere e Minerva, lava i piatti all’osteria; e muore strozzata, perchè mangiando ingordamente mezzo pollo rubato al cuoco, se le infilzò un osso nel gorgozzule: caso tremendo! scena al Gallo.

— Perdoni, ma vi può pericolare alquanto la moralità, perchè, capisce bene, artisti e modelle, la è come ballerine e coregrafi.

— Bene, in Istoria Naturale: la morte di una pulce fra le unghie d’una donna di spirito, o letterata. Ah questo è grande! è un genere di supplizio non compreso nella quaresima di Galeazzo Visconti: vi è tutto; e i tiepidi lavacri, e l’ansia della caccia, e l’infaticata fuga, e il lampo delle unghie, e il celere ghermir: poi un soliloquio della paziente rorida di sudore, poi le grida quand’è alle strette; e gli aneliti estremi! Roba da far rizzare i bordoni fino alle oche.

— Ah ah! ella è di buon umore; ma a parte gli scherzi; si vorrebbe un argomento patrio, un racconto sul fare di quello d’Ara, bell’ara che fu accolto con furore.

— Oh sì certo! ebbe la gloria di salire fino sulle scene di Gerolamo: mio collega sa? e che cortesìa quando fui a visitarlo! loggia gratuita, e sul palco scenico mi presentò tutta la compagnia comica; accoglienze grandi! leggi, studia, [76] almeno si ha la riconoscenza delle marionette; rappresentano al nostro secolo Pericle, e casa Medici. Ma tornando all’Ara, omai non si può inventarne un’altra.

— Or mi dica: del conte Marino, sebbene non si trovasse nulla di quanto ella narrò, non è ricordata da qualche scrittore una vicenda colla moglie?

— Oh sì certo! e tale ch’ei fuggì, e gli vennero confiscati tutti i beni; anzi in quella sera stessa ne fu parlato. —

L’amico sfrega le mani — A meraviglia! mi racconti questa avventura, e poniamola nel libro. —

Gli misi la destra sotto il braccio, scantonammo alla prima via infrequentata, e camminando di pari passo, mi spicciai col riferirgli il seguito di quella conversazione.

Poichè venne a fine quel racconto di Ara, e i figliuoletti ne ebbero fra loro alquanto chiacchierato, si rimisero al giuoco interrotto del guancialin d’oro. Toccata la sorte della prima prova al maggior de’ maschi, pose la testa in grembo alla zia, che gliela ravvolse alquanto nel grembialetto, e cantarellò questi versi milanesi

 

Sconda sconda, Legorina,
Che el can l’è in camerina,
Che el can l’è incadenà;
Sgura la tazza che te vœui .

 

E tutti i fanciulli si stringevano in cerchio, si rizzavano sulla punta de’ piedi, allungavano la [77] destra, e si guardavano gelosi perchè ognuno volea essere il primo a scoccare le dita sulla mano del penitente; ma questi senza altro curarsi di loro, prestamente si alzò, e mentre tutti gridavano, — al posto, sotto, sotto — ei voltosi alla zia, le chiese: — E che vuol dire: sconda sconda Legorina?

E la zia con quella modestia che era del suo carattere; dandogli una ganascina:

— Questi versi non me li ha spiegati quel buon parroco; abbi pazienza. — Ma tutti que’ bamboletti subito punti dalla stessa curiosità, se le fecero intorno con un grande bisbiglio — Perchè non te li ha detti? ah lo saprai! racconta, cara zia, sii buona, racconta. — Invano essa procacciava persuaderli di ignorarlo, chè seguivano a farle ressa collo stesso cicaleccio. Allora alcuni s’accorsero che lo sposo di lei se la rideva, e tosto il dimandarono se ei ne sapesse il significato.

— Sapere o non sapere, quei primi tre versi appartengono ad una ventura del Marino e sono il ritornello d’una lunga poesia milanese; il quarto vi fu aggiunto dopo pel giuoco che voi fate. —

Precipitarono tutti a lui, e fu un gridare, una tempesta: narra, narra; e tira e dalli, che quasi lo straziavano; ed ei sghignazzava senza rispondere. In fine la sua compagna con un fare che era una preghiera ed un comando: — Or via, accontentali; fa’ la tua parte. — Cui sorridendo ei rispose — Ma ho io quella tua bocca di miele, perchè possi dire e ricreare? —

[78] L’altra arrossì, indi lo prese leggermente per le orecchie — Taci cattivo, o ti castigherò.

— Eh, la punizione l’hai fiera, e sta appunto nello scemarmi la dose di quel miele. —

La pudica donna fiammeggiando gli pose con un tal vezzo il fazzoletto sulla bocca.

— Uh linguaccia! —

Il marito le prese la mano, la strinse, la baciò, e rimuovendola dalla bocca, si diede a gridare: — Ahi mi soffochi! misericordia, nipoti, ajuto! essa volle imitare il conte Marino, quando uccise sua moglie. —

Impallidirono tutti — Oh la uccise dunque? povera Ara!

— La vostra zia è buona, creaturine mie; e quindi come l’animo suo rifugge fino da ogni pensiero di tristizia, s’indusse leggermente a credere che il conte Marino ottenuta Ara in isposa, avesse continuato nelle buone opere a cui lo condusse il ravvedimento. Oh! il cattivo era rotto a’ più turpi vizj da lunga età, e in lui non poteano gentili affetti che brevi momenti. Solo due anni arse nel puro amore della bella sposa, prendeva esempio da’ miti e puri costumi di lei, e la vagheggiava beato; ma furono due anni, e in breve gli vennero indifferenti quelle avvenenzecare, gli riescirono importune quelle virtùperegrine. Incominciò a poco a poco a desiderare ancora gli antichi ricreamenti, poi gli antichi piaceri, e i vizj e il giuoco, e vi tennero presso, l’oltracotanza, [79] la prepotenza e l’indomato orgoglio. Ne’ primi giorni del lieto vivere suo, ebbe rispetto alla religione ed a’ sacerdoti, sicchè donò la chiesa di s. Marco di due bei candelabri di bronzo che la adornano ancora; ivi erano pure i ritratti de’ due sposi che vennero loro fatti quando furono insigniti del ducato di Terra Nova. Pregiava l’amicizia del pio Cappuccino che avea composti col Cornaro i dissidi ed ottenutagli la sposa, e voleva che usasse la propria casa e il consigliasse nel largheggiare beneficenze. Ma a maniera che traviava dalla buona vita, gl’increbbe la presenza di quel giusto, e più gl’increbbe che la moglie l’avesse per suo confidente e consigliere, e gli usò continue villanie, finchè gli tolse di porre piede nel proprio palazzo. Levatosi questo molesto testimonio, si gittava con maggiore baldanza ne’ piaceri, fuggiva la moglie, e sovente passavano interi giorni senza ch’ei la vedesse.

Ma quella freddezza, quella non curanza, scemarono punto all’affetto che tanto gli voleva la savia e passionata Ara. Essa accoglieva solo un pensiero, un desiderio, l’amore per lo sposo, e questo sì gli ardeva nell’animo, che sovente quando il vedeva ancora dopo alcuni , perdeva il colore e le parole. Le era molesta e dolorosa quella lontananza del marito, e sempre si creava in pensiero nuove cause a scusarlo, e sempre accoglieva nuove speranze ei ritornasse alle premure usatele nei giorni ridenti della loro recente unione.

[80] Talora quando sapeva che il Conte era in casa, tutta buona entrava a lui, e con affettuosi modi, procurava blandirlo, e richiamarlo al prisco amore, senza però mai muovergli alcun lamento. Ma ei sulle prime si svincolava da lei, sotto colore che il pressassero suoi affari, e la accontentava di qualche buona parola; poi incominciò dal riderle quelle premure quali svenevolezze, dal chiamarla importuna e nojosa, finchè la ributtava dispettoso, le volgeva le spalle, o le imponeva aspramente che se gli togliesse d’innanzi. E la misera si ritraeva a piangere nelle proprie stanze, e non aveva alcuno che le rasciugasse quelle lagrime e la sovvenisse d’un conforto.

Il padre era ritornato a Venezia, e mal presagendo del nuovo genero, aveva ordinato alla figlia innanzi partire che non lo turbasse con lamenti, se il Marino le usasse durezza; si partisse da lui e ricovrasse alla casa paterna: accoglierla sempre di buon animo. Ella non voleva togliersi allo sposo, rivelarne le colpe, e si struggeva in segreto. Solo talora aveva alcun sollievo dall’affezione di Nonciata, sua cameriera veneziana e compagna dell’infanzia, e dal rendersi con lei ai Cappuccini, ed a’ piedi del padre Luca, riprendere forza alle tribulazioni nelle parole del cielo.

Il Marino desiderava che la moglie si gittasse a una vita galante, si curasse di lui, per essere meglio libero a’ suoi sollazzi: quindi più si [81] corrucciava di quella saviezza che gli era di continuo rimprovero, e di quella rassegnata pazienza di lei, e più le veniva a fastidio. Sapeva le sue andate a chiesa, e ben sentiva che gli ministrasse quella fermezza, e ne portava mortale passione al padre Luca. Animo turbolento agogna a vendetta, tarda a tentarla. Cavalca nella contrada di Brera, gli occorre l’abbominato frate, e nequitoso sprona, lo urta e il caccia riverso a terra. Accorre popolo: una pressa, un gridare al Conte il soprannome usato; ed egli a inferocire, a spingere il cavallo fra la calca, menare lo scudiscio, conculcare, e porre in fuga. Cresce il tumulto, s’addensa la folla, — e dalli, e ammazza, — levano sassi e bastoni; ed ei sprona, galoppa, urta, rovescia, e appena giunge a salvarsi nel proprio palazzo.

Trasse Ara al rumore, e fu incontro al marito che saliva le scale infuocato per rabbia; il chiese che gli fosse avvenuto; ei la maledì e le volse le spalle. Ritorna essa confusa, tremante nel suo gabinetto, per interrogare di servi, per farli richiedere da Nonciata, giunse a scoprire la causa di quello scompiglio. Poco appresso entrò a recarle l’usato beveraggio un fante, che talora serviva il Conte quale staffiere, ma più spesso prestava l’opera propria qual cameriere, perchè unico aveva un bel costumare fra i bravi abili solo a menare le mani. Ara il vide smarrito e pensoso, lo guardò e gli chiese: — Dimmi, Giovanni, che [82] avvenne? non esser tu pure aspro e misterioso come i tuoi compagni.

— Ah, signora! ogni suo desiderio mi è un comando, sebbene sia minacciata aspra pena e subito bando di casa a chi osa rivelarle... Signora, per pietà, me le raccomando: ella sola è buona in questo palazzo.

Ara lo rassicurò, ed ei le narrò l’accaduto. S’ella ne fosse dolente non è a dirlo; pensò tosto d’emendare in qualche modo l’errore del marito, e scrisse una lettera e la mandò pel cameriere al buon frate. Usò con lui tante espressioni di caritatevole compassione ch’egli tra per intercessione di lei, tra perchè savio non sentiva vendette, si passò di quell’ingiuria senza farne parola.

Il Conte s’attendeva rumori, si apparecchiava a difesa; maravigliò del silenzio, quasi ne ebbe dispetto: prima sospettò la moglie, poi si persuase il temessero. Gli crebbe l’oltracotanza, e ogni a nuove violenze in pubblico ed in privato, e vi dava comodità e franchigia l’avere le ferme delle gabelle dello stato. Quindi molestare i cittadini, battere chi non gli simpatizzava, invadere le case, e tutto velava sospetto di contrabbando: e intanto cavare danari, far vendette; le donne chinare a’ suoi vizj per amicarlo, e silenzio in tutti.

Ara fu a lungo ignara di tanti delitti e appena ne raccolse qualche sospetto, ma poichè il servo le aprì il primo segreto, col sussidio di Nonciata, si fece chiarire d’ogni cosa; ne [83] abbrividì, temè per la vita del marito fra tanti nemici: pensò vegliarla, e riparare in qualche modo ai danni ch’egli causava. Le parve al destro Giovanni, prestante di corpo, piè veloce, di animo ardito, onesto, fidato: a lui commise i suoi pensieri, a lui guardare il padrone fra i pericoli. Al giuoco, alla taverna, ne’ trivi quei gli era sulle orme: ei si baruffava, e Giovanni il più audace a difenderlo; però i bravi menavano le mani, ei provvedeva solo alla vita del Conte. Mostravasi facinoroso, correa le venture de’ compagni, vedeva le violenze, e da Ara aveva denari, rimetteva il rapito, o riparava, o risarciva. Una famiglia veniva spogliata per apposto contrabbando di sale, un vecchio riverso nella strada perchè non declinò dalla diritta, un fanciullo percosso da’ cavalli, un padre battuto perchè ne lamentò — sono i Pesciolini, maledetto il Marino — e sorgeva il compianto nella percossa casa; e poco appresso una mano ignota portava in quella oro e consolazioni, e cessava il lamento. Quando la borsa era esausta, Ara vi infondeva nuovo umore, e Giovanni al benefizio. Essa gli applaudiva, e Nonciata, con cui più spesso ei conferiva per non dare sospetto, e di continuo il mandava in varj luoghi a vegliare il padrone, a dare un sussidio, e facea il tutto con fedeltà, lo chiamava per celia il suo fido, il suo cane, e spesso lo indicava con questo soprannome ad Ara, perchè non la comprendessero gli altri servitori.

[84] Il Conte sbalordiva di quel tacere, e in breve s’accorse covarvi sotto un mistero, perchè sapeva che il timore non chiude la bocca: dispettò, chè commetteva il male e si ricreava ne’ lamenti di chi il pativa. Fece spiare, gli fu riferto di que’ denari, e sussidj; tutto annunziare cadessero dalla moglie; non certo ancora di cui si valesse. Pensò il facesse a svergognarlo, e crebbe nell’ira e nell’odio; a ogni modo un molesto censore; pose di liberarsene. Non ardiva venire alla forza, pensò alla frode: fece spalmare di sapone una scala interna, per la quale ella soleva scendere alla mattina appena uscita dal letto per rendersi alla domestica cappella e pregare: cadendo o si fracasserebbe, o malata si penserebbe a spacciarla. Ara calò la scala colle scarpe intrise di calce alla suola, e non accennò di accorgersene.

Dopo la preghiera trovò il marito nella sala delle armi: erano molti giorni che nol vedeva e non resse al desiderio di cercarlo, sapendolo in casa; misera! malgrado tanta durezza e odio certo, non sapeva cacciarlo dal cuore. Se le accostò pianamente, e lo chiamò col dolce nome di sposo: ei la guatò bieco, era gonfio gli fallasse l’inganno; la mite donna gli pose la destra confidente sulla spalla. — Mio caro, perchè sono tanti giorni che non ti vedo? fra le tue cure non dimenticare chi vive solo per te. —

Ei non si mosse come se non la udisse: seguiva a intrecciare lo spaghetto del nuovo mozzone che [85] aveva rappiccato allo scudiscio, ed Ara ripigliava: — Tommaso, odimi, ricorditi ancora di quel tuo amore, di que’ bei momenti... o scendessi dal cavallo, o uscissi di casa era per me la prima e l’ultima tua parola: ah! consolami ancora, almeno...

Il Conte, terminato quel suo lavorìo, mena la frusta in alto, in basso, a traverso, per provare se chiocchi, senza badare se Ara gli sia vicina e possa toccargliene, ed esce. Alla porta della stanza trovò Nonciata e Giovanni che attendevano, guardò bieco l’ultimo, l’aveva già in qualche sospetto, e tirò innanzi: indi incontratosi col Mosca, confidente de’ suoi delitti e capo de’ bravi. — Eh, la è andata male! mezze misure; spia e trova di chi si vale.

— Forse non è lontano.

— Accertati; una prova, e se è quel monello, meglio; vedrai che trappola. — Sale il cavallo e si spicchia.

Tutto riconfermava ad Ara l’odio in cui le teneva il marito, e la brama che il cuoceva di perderla; Nonciata glielo ripeteva sempre palpitante, e aggiungeva avere Giovanni udito più volte il Conte masticare fra la bile certi propositi che agghiacciavano. — Ah signora! ella fida troppo; la creda al cane, che ha buon odorato; andiamo a Venezia per carità, prima che ne succeda una grossa.

La misera gemeva. — Pur troppo comprendo [86] che ei m’odia, ma non so allontanarmi... almeno qualche volta lo vedo; almeno... e poi con che cuore presentarmi a mio padre, profuga?... e crederanno tutti che la colpa non sia mia.

— Oh sì che il mondo non sa sceverare il Conte da lei? vuole che quel briccone la ammazzi? intanto se la tombolava da quella scala, forse a quest’ora...

— Taci, mia buona amica; attendiamo; forse la mia pazienza lo toccherà. —

Nonciata si stringeva nelle spalle, e quando Giovanni sapeva queste speranze, alzava gli occhi. Così incerti passavano i giorni, e tutti tremavano per Ara, ed essa sola accoglieva qualche fidanza, e non cessava da’ suoi benefizj.

Dopo pochi sul vespero, il Marino si diportava nel borgo degli Ortolani; s’abbattè in una donna che toccava appena ai diciottanni, fiorita la faccia come una rosa, fresca, avvenente: ritornava dal lanificio ove lavorava per sostenere i vecchi parenti. Ei la vide e le piacque, e tosto fattosele appresso con que’ suoi modi liberi e impronti, la richiese d’amore: ributtò la giovane con isdegno quella proposta e si ritrasse nella prossima casa. Pazza, ei borbottò, e tirò innanzi, e tosto seppe essere una fanciulla assai ritenuta chiamata Legorina.

— Buona caccia, disse al Mosca, dimani a sera me la porterai alla Palazzina — Era una villetta che ei teneva un miglio fuori di Milano, sentina de’ suoi delitti.

[87] — Non dubiti sig. Conte, è un selvatico che non scappa. — E tosto diede gli ordini.

Ara appena levata alla prossima mattina, seppe quella nequizia; ne fu dolentissima, e quasi correva al marito per gittarsegli a’ piedi e distornelo: poi pensò che non vi riesciva, ed essere savio provvedere in altro modo all’onore di quella sgraziata. Il Conte non quetò la notte, chè lo ardeva il capriccio, pensava alla fanciulla — e se i bravi non sono destri, e se alcuno li impedirà?... allora sospettò che se Ara il sapesse potrebbe mandare a vuoto il colpo, e pensò per assicurarsi di allontanarla da Milano. Andò a lei, appena la seppe ritornata dalla preghiera: le disse che conveniva partisse subito per la villa di Gaggiano ad accogliervi alcuni signori che vi giungevano da Venezia. Ne sentì la donna subito rincrescimento, le parve essere impedita nella buon’opera, e gli chiese: — Non è meglio che io li attenda a Milano? ci troveranno uniti, e almeno mio padre saprà che ci accoglie uno stesso tetto.

— Contessa, non m’annojate colle vostre osservazioni; pretende vostro padre ch’io vi stia tutto il giorno saltellando intorno come un cagnolino? Io verrò a Gaggiano forse dimani: intanto partite, sono già allestiti i cavalli: ch’io non vi trovi fra due ore, o mal per voi. — Non udì risposta e n’andò.

Essa s’accorse quale causa il movesse: pensò a ubbidire, pensò a Legorina. — Povera fanciulla, [88] chi ti salva? — Alzò gli occhi e provvide in sua mente.

Chiamò Nonciata e le parlò: venne Giovanni udì la padrona, chinò il capo, e con un sospiro: — Iddio ci ajuti! — Le due donne si posero in carrozza, e andarono a Gaggiano.

Imbruniva, e due vecchi in una povera casa aspettavano la figlia, unico loro sussidio e amore. Odono gente all’uscio — Sarà Legorina — Era un uomo che entrava con un fare tutto rimesso, ma durava fatica a ostentare quell’umiltà.

— Buona sera amici: son qua perchè un maestro lanaiuolo di Porta Tosa, vorrebbe che vostra figlia si accontasse con lui, giacchè la sa lesta di mano, e le darà doppia mercede. — I vecchi osservarono essere troppo lontano; a ogni modo ei rispose, volere attendere la filatrice. E venne indi a poco recando la cena ai parenti, e colui con lunga diceria le fece la stessa proposta: Legorina rispose non convenirle. Colui pur si ostinava a persuaderla e la menava in parole finchè affatto annottò: allora presi modi più audaci, disse alla giovane che non voleva parere bugiardo col maestro, che n’andasse con lui indi non molto lontano per dargli ella stessa il rifiuto: essa rispose che a quell’ora non si rimoveva di casa. L’ignoto fece un movimento d’impazienza; se gli aprì l’abito che teneva abbottonato al petto, si videro l’insegne di casa Marino, e il padre gridò! — Ah, i Pesciolini! nasconditi, fuggi, fuggi, Legorina...

[89] Il bravo non indugia, prende la fanciulla per mano:

— Taci o sei morta — le pone una benda alla bocca, un fischio; prorompono quattro manigoldi, uno la leva in braccio, ed escono: i vecchi piangenti sono ricacciati, percossi, rovesciati. In un lampo il drappello attraversa la via, corre il borgo, ed è all’aperto, sempre la donna in mezzo stretta fra nerborute braccia, e gli altri in giro; e vanno ratti verso la Palazzetta.

La misera piangeva e pareva soffocare; le tolsero la benda — Taci, taci, bella fanciulla: non dubitare che starai bene. Questa sera avrai buona cena: te la apparecchia il conte Marino; è signore generoso, sai?

— È un bell’uomo — aggiunge un altro. Un terzo allunga la mano, le stringe un braccio, le tasta un fianco: essa si volge dispettosa e con mal piglio, e quei ride: — Oh , ritrosa! non esser tanto fiera. — E quel che la portava: — Peccato! è un buon boccone, non si potrebbe?...

Ma il Mosca, capo della banda — Eh via ragazzacci! pensate che il Conte fra poco ne darà de’ buoni zecchini; questo è il meglio: la Togna e la Cecca ne compenseranno di tutti i desiderj. — E tutti — Bravo Mosca! Fa’ che l’unto copra la mano. —

La povera fanciulla, a que’ motti, tutta comprese la propria sorte: rabbrividì e riprese più dirotto il pianto: gli altri sempre camminando, la garrivano.

[90] — Via, taci pettegola: veramente vi è da menare tanto rumore? non t’è mai toccata tanta grazia di Dio. Sii mansueta e avrai dal Conte dei buoni denari; tu fanne raccolta veh, perchè te ne resti anche quando ti darà lo scarto; se no tapinerai per le strade. —

Un altro tosto aggiunse — Però, tosa mia, tienti un buon avviso da amico: quando egli incominci ad esser stuffo de’ fatti tuoi, non annojarlo colamenti, come fa quella monachella della Contessa, perchè ti manderà al diavolo più presto. Finchè la fortuna è propizia, datti buon tempo, mangia, bevi e ridi, e se manca il padrone ricordati di noi; se andrai a picchiare le chiese, come fa la signora Ara, non ne trarrai profitto. —

Allora malignamente il Mosca: — Piano con quella fede; forse anche la santarella, senza che tu glielo insegni, s’è già accomodata, e con prudenza; em...

— Uf, boccaccia! questo poi no; lasciale l’onore.

— Taci, ciancione; e se lo dicesse il padrone? an.

— Oh allora sarebbe vero: la ho veduta anch’io. Ah?

— Così va bene: bevine una caraffa, e vadane l’onor di tutto il mondo. —

Dopo breve silenzio, nel quale tutti pensavano alle parole del Mosca, questi riprese:

— Oh ecco, siamo aspettati; vedete gente [91] che ci viene incontro con lume, sebbene ci sia un po’ di luna: ragazza allegria! vi fanno festa. — E la misera pur seguitava a piangere.

Tirano innanzi un poco — Diavolo! riprese un altro, vi è anche una carrozza! eh, signorina un viaggio. Oh! anche un uomo a cavallo, chi mai? — Gli stemmi sono della casa, barba e baffi... spada nuda... chi ti pare?

— Eh colui non è un servo! non vedi che in dito gli lucica qualche cosa: è il padrone travestito: teme una imboscata dal frate, e vuole andare in luogo sicuro. —

Danno il segno; è risposto: si accostano: si spegne il lume, e il cavaliere, posta la sciabola sotto l’ascella, batte più volte le mani e applaude chinando il capo, e gitta loro una borsa: la raccolgono ed a bassa voce — È lui, è lui: fa il muto — Risparmierà il fiato qui per Madamigella.

Allora Legorina si fece animo, si rizzò sulle spalle di colui che la portava, protese le mani, e con voce lagrimosa — Ah signore! abbiate misericordia di me; lasciatemi tornare a’ miei vecchi parenti, lasciatemi libera, non insultate alla mia povertà! Ah signore! per pietà, abbiate misericordia di me... —

Il cavaliere non mostra curarsi di que’ lamenti, scuote la testa, e fa cenno ai bravi di metterla nella carrozza; essa grida, tenta opporsi, ma inutilmente: ve la cacciano e l’adagiano a fianco d’un’altra persona che tutta ravvolta ne’ panni sta [92] incantucciata, prende la giovanetta alle mani e la rattiene con forza, perchè non si muova. Il travestito accennò ai bravi d’andarsene, e scomparve col cocchio.

Legorina piangeva disperatamente; talora chiamava ajuto, nessuno l’udiva; talora procacciava levarsi e spiccare fuori, ma quelle due mani ferme e strette come due morse di ferro, la rattenevano. Dopo il correre precipitato di mezz’ora, il cavaliere che venne sempre di seguito, affretta il trotto, è allo sportello e grida — Siamo sicuri — cui è risposto dalla carrozza — ferma — e l’altro ripete — ferma — al cocchiere, e quei rattiene i cavalli.

L’ignoto scavalca, batte la selce, accende un lampione posto sulla serpa: Legorina crede a termine il viaggio e si dispera. Allora chi la tenne stretta, le libera le mani, scuote la veste onde si avvolgeva; si scopre una donna. La fanciulla maraviglia, e l’altra con mite accento:

— Calmati Legorina, sei in sicuro, sei fra amici, non temere.

— Oh Dio, in qual modo?

— Ti ho salvata: questa notte doveva esserti fatale...

— Ah pur troppo! tutto compresi da quei malvagi che mi rubarono: il Conte Marino... ah chi mi salva!...

— Non temere, egli è lontano, sei con sua moglie.

[93] — Oh ella! la signora Contessa Ara? Dio vi ringrazio; sì sono sicura come se fossi in chiesa: ma in che modo, non capisco niente...

— Saprai tutto poi; intanto bevi del liquore che è in questo ampollino, ti calmerà la paura.

— Ah signora! e mio padre e mia madre? quei poveri vecchi muojono di dolore.

— Non affliggerti: fra un’ora sapranno ove sei, e dimani sarai loro restituita da mano amica.

Trasse una matita e scritte poche righe sur una carta, la porse al servo — Bravo Giovanni; hai fatto tutto bene: compi ora la sant’opera; vola a Milano, va’ ai Cappuccini e questo biglietto al padre Luca: indi corri a consolare que’ buoni vecchi; poi fra’ tuoi compagni; odi, indaga, e vedi se vi hanno altri mali da riparare; a me più tardi dimani. —

L’altro china il capo e galoppa. La carrozza riprende il viaggio, e in breve sono a Gaggiano, e nella villa. Ivi le attendevano Nonciata e un vecchio fattore: Ara affidò a questi la giovanetta:

— Sta nascosta nella sua casa fuori del palazzo, perchè potrebbe capitare questa notte qualche visita molesta: all’alba il padre Luca manderà a pigliarti. Parti e non cercare di me; non sei sicura finchè non giunga a Milano.

— Ah signora Contessa! signora Contessa, la benedica il Signore; che posso io mai? —... e le bacia le mani e le bagna del pianto della riconoscenza.

[94] Ara la accarezza, le un bacio. — Non mi devi nulla, ho fatto il mio dovere: taci quanto avvenne; prega pei miseri e per me; soccorri i tuoi genitori e Dio non ti abbandonerà mai. — Le pose in mano una borsa e prestamente entrò nel palazzo colla cameriera: era commossa, aveva bisogno di piangere.

Intanto il Marino lieto si toglie al giuoco ed ai bicchieri, per andare ove dovea trovare quella sgraziata. A cavallo con due fidi, sprona, corre e pensa alla bella ritrosa: giunge, scende, la Palazzetta è deserta — Mosca, Tigre, Andreaccio, ove sono i miei bravi? che fu? non vennero? — Ode che non giunse alcuno, e solo, avranno due ore, si videro poco lunge sulla strada, uomini, cavalli e cocchi, e dileguarono.

Fernetica, bestemmia, indovina l’occorso, e giura vendicarsene; rivolge il cavallo, è a Milano, è nel suo palazzo. I bravi sicuri che il padrone non abbisogni di loro, sono alla taverna e tracannano buon vino colle loro donne. Una voce li chiama: corrono; il Conte furibondo li minaccia; strabigliano, è scoperto l’inganno. Tosto un gridare di rabbia, un indagare, un interrogarsi per conoscere il traditore; parole tronche, sospetti iniqui, pensieri nuovi, una congrega infernale. Si sbrancano, corrono le contrade, il borgo degli Ortolani, le osterie e ordiscono delitti nefandi.

Ara contenta d’avere salvo l’onore d’una innocente, sparse di breve obblio i proprj affanni, [95] e sentì una tacita gioja andarle al cuore: è vero che talora le balenava il dubbio: — E se il Conte scopre quanto io feci?... alla Provvidenza. — Quindi placida s’addormì per alcune ore, ricreata da allettevoli sogni.

Si destò all’alba. Quando era in villa, non essendovi la domestica chiesa, aveva in costume appena aggiornasse di rendersi nel giardino, e in una parte remota, innanzi all’aperto cielo, recitare le preci del mattino. Sorse e a lento passo mosse al luogo usato: era ameno e quasi in una valletta; intorno fiori, erbe e piante addensate, sicchè formavano un breve boschetto olezzante e ombroso: poco lunge il palagio e i colli, e sul fondo a limitare l’orizzonte, i monti addentellati di Brianza: l’aere puro e sereno. Girò ella gli occhi fra quel sorriso della natura e si diffuse sul suo volto una soave calma: si chinò e salirono pure le sue preghiere all’Eterno colle fragranze mattutine che solleva la terra in olocausto al suo Fattore. Indi assisa sur un rialzo di zolle, discorreva col pensiero quai beneficj le restassero a compiere, e se Legorina già movesse a consolare i vecchi parenti; quando la riconoscente fanciulla corre a lei tutta commossa, se le inginocchia a lato:

— Ah, signora Contessa, mia benefattrice, mia madre! prima ch’io torni a Milano, mi permetta ancora di vederla, di esprimerle la mia riconoscenza; mi dia la sua benedizione. —

[96] Ara stava a udirla con quel suo fare semplice e domestico onde si faceva confidenti i poverelli, e s’acquistava gli ossequi di que’ che la conoscevano; e poichè la giovanetta finite quelle parole stava come rapita a riguardarla, dolcemente le rispose:

— Cara Legorina, ti sono grata di questa tua premura, ma parti subito: ti benedica il Signore e tuo padre; ricordati ne’ tuoi bisogni di me, e non dimenticare mai che una buona fanciulla, innanzi tutto deve conservare la propria innocenza...

In questo mezzo Nonciata corre nel giardino, ansante, spaventata — Ah signora! siamo perdute: ah nasconditi! nasconditi Legorina...

Ara chiede che avvenne, e l’altra confusa riprende — Or ora giunse il padrone con sei bravi armati, come giudei... e trascinavano legato, mani e piedi, poveretto, il fido, il cane... sì Giovanni, Giovanni: son entrati in palazzo e l’hanno chiuso in una stanza... Oh che faccie! se vedesse il Conte, mi guardò... un viso di basilisco, gli occhi di bragia... non so più nulla, corsi ad avvisarla. —

Mentre Nonciata parlava, Ara entrò in profondo pensiero, e alzò gli occhi al cielo toccandosi la fronte colla destra: non si perde però di animo, teme per quella sgraziata, nulla per , e la sollecita. — Ah, Legorina, nasconditi, fuggi...

In quel momento entrò il Marino seguito da due bravi — Nessuno fugge, omai tutti siete nelle [97] mie mani. Brava la Contessa, sapeva ch’io desiderava gli agi della campagna per la novella amante, e vuole ella stessa sprimacciarmi il letto: oh! le saprò la mia riconoscenza.

Cui la moglie recandosi in se stessa, severa e modesta — Conte! non è questo momento di scherzi: volli salvare questa innocente e risparmiare a voi una violenza che forse vi suggerì un momento d’allegria. Finchè le vostre offese cadono sopra di me, le avrò meritate... ma se percuotono una povera famiglia, un’onesta fanciulla...

— Non venni da Milano per udire una lezione di dottrina; tenetela per voi, signora, ne avete bisogno... ma parleremo poi de’ vostri segreti... intanto a me quella giovane. —

Legorina si stringeva ad Ara, e se le raccomandava piangendo; ed essa con aspetto imperturbato tenendola per mano la rassicurava; ed il Conte di nuovo — A me colei: qui comando io; tutti pendete da un mio cenno, vi sta sul capo la scure de’ miei bravi. —

Ara il guardò, chinò il capo in atto di rassegnazione, e aggiunse — Sì, su que’ che vi appartengono, ma questa fanciulla?...

— È mia.

— E le leggi?

— Non vi penso.

— E il cielo?

— Nol curo: or chi la difende?...

— Io la difendo, e trema — suonò una gran [98] voce tra i cespugli e le piante: tutti si scossero, si volsero e apparve il padre Luca, prese Legorina per un braccio, e stette imperturbato a riguardare il rapitore. Sorsero tra loro diversi affetti di conforto, di pietà, di sdegno: il Marino maravigliò, fremè, guatò bieco al pio.

— Tremare e di chi?

— Del cielo, e di chi protegge la virtù in suo nome.

— Frate, oggi hai fallita la tua missione, o agogni coprire col tuo manto una femminetta del volgo, o una dama: cedi, fra tutte e due vi ha poco merito e molti vizj.

— Vizj? siete voi, uomo pericoloso, che volete seminarli ove ponete il piede; ma invano, e sorge la virtù al vostro fianco per confondervi.

— Oh sì certo! è tale quell’angelo che mi collocaste dappresso a imparadisarmi la casa.

Ara a queste amare parole si scosse, e guardò il marito come per chiedergliene ragione, e il padre Luca grave — Almeno rispettate questa colomba.

Rise amaramente il Conte. — Oh siete pure credulo! certo costei non vi confessa tutte le sue colpe, ma le so ben io, e le punirò.

Ara tosto imperturbata gli chiese — E quali colpe?

— Donna sfacciata e ipocrita! ebbene sia palese la tua vergogna. Questa colomba che gelosa mi garrisce s’io guardo a una femmina, che vi [99] parla sempre di virtù; è la donna dei vizj: ha contaminata la mia casa co’ suoi capricci, e perchè vadano celati, s’è fatta serva del più vile de’ miei servi: a lui sono aperte le sue stanze e di giorno e di notte, a lui se stessa in prezzo di spiare i miei passi: sì, Ara, mia moglie, la pudica; è la druda, l’amante di Giovanni, il mio staffiere.

A quelle nefande parole, a quella calunnia tutti abbrividirono: Nonciata furente trasse in mezzo. — Ah vi sono nuove infamie? io innanzi a Dio... io... calunnie... — Un bravo la prese a un braccio, la trascinò lungi, minacciandola col coltello alla gola.

Ara strinse le mani sul petto per fare forza a se stessa a sostenere il dolore che la trafisse: guardò il cappuccino e il cielo; ma non valse a soffocare a lungo l’ambascia, proruppe nel pianto e nei lamenti. — Ah uomo fatale! perchè sì mi perseguiti, onde meritai tanto strazio?... Ah Tommaso, mio sposo! toglimi l’amor tuo, la pace, toglimi tutto, ma lasciami l’onore, l’onor mio per pietà, o m’uccidi.

Tutti piangeano, ma imperturbato il malvagio. — Io non te lo tolsi; ne incolpa te sola. Ben io colsi quel vile servo, che parlava in tuo nome melate parole ai parenti di colei, e prometteva portarti alla mattina le loro benedizioni: sì, ei doveva venire qui a côrre il premio de’ suoi servigi, fra le tue braccia...

[100] La donna più non regge, l’interrompe con fermezza. — Conte, in nome del cielo, cessate da sì infami calunnie...

— Quali siano lo saprete, e ne avrete la pena fra poco; ora che mi spacci con costui. Frate escimi di fastidio; a me quella fanciulla, o n’andrai un’altra volta colla testa rotta. — E mosse brandendo la spada verso Legorina.

Il padre Luca alzò il capo venerando, si pose dinanzi alla combattuta fanciulla, sollevò la destra ignuda, e sfolgorando dalla fronte un celeste sdegno, tuonava — Arretra, arretra profano; maledizione a chi commette violenze suglinnocenti e sui sacerdoti. —

Il Marino fu atterrito a quelle parole ed allo scongiuro; pensò che il cozzare col padre Luca poteva suscitargli contro un malanno; attendere migliore tempo e non mancare mai quello dei piaceri e delle vendette: ora, intanto che ne aveva il destro, convenire di côrre il frutto de’ lunghi disegni: volse tai cose in mente, indi al cappuccino. — Ora non vocontendere più oltre per una femminetta; maggiori cure m’attendono: partite pure con lei, e subito.

Ma al padre Luca omai premeva un’altra infelice, e voleva trarla in sicuro. — Venga meco pure la contessa Ara: essa or più non vi appartiene, che moglie disonorata non è del marito: la renderò al padre...

Sguainò di nuovo il Marino la spada che aveva [101] rimessa e incollerito — Frate, basta omai, non istancarmi, vanne: Ara deve scontarmi le ingiurie, poi l’avrai... — e sorrise amaramente, e cercò a tutti un gelo; indi riprese. — Parti, o nessuno più non fugge la mazza de’ miei bravi.

La Contessa guardò il cenobita, e fu quell’atto una preghiera perchè salvasse Legorina, finchè ne era in tempo: ondeggiò egli alquanto nel dubbio che lo accorava, pure pensò; vano resistere contro la forza; partendo, giungere con pronto soccorso a salvare anche Ara: prese per mano la fanciulla, e con fermo accento: — Vado, ma ti ricorda che guai per te, se offendi questa virtuosa donna...

E il tristo l’interruppe. — Saprai dimani sue notizie, esci. — Il frate guardò la infortunata come per rassicurarla, e partì.

Per poco fu silenzio, ma fu breve; era il silenzio dei delitti. Giunge il Mosca, guarda il Conte, questi lo fisa e pare interrogarlo; l’altro china il capo. Allora il Marino volto alla moglie — Donna precedi; t’attende il tuo drudo nel palazzo.

— Non insultarmi; omai sono in tua mano, fa’ di me quanto ti inspira l’odio tuo! ma l’onor mio...

— Non è tempo di parole, è di fatti: servi portatela a forza...

— Nessuno osi pormi addosso le mani; indicatemi la strada. — Guardò il cielo come se il salutasse per l’ultima volta, e n’andò cinta da sgherri.

[102] Entra nel palazzo con fermo passo, percorre molte camere terrene, e sul fondo vede aprirsi innanzi la scellerata stanza, nella quale ella non aveva mai posto piede, ma ben sapeva stanza di delitti, e sentì la sua prossima sorte.

Il Marino fermo sulla soglia, le accennò che entrasse e la guardò con un sorriso feroce — Eccoti fida sposa il compenso del grande amor tuo: qui ti lascio per poco; osserva, spia chi ti ha preceduto, e se sei saggia risparmia a me il punirti; ne apprenderai il modo. — E si chiuse la porta.

Ara è sola, sta alquanto immota, pensosa, poi gira le dubbie pupille. È una capace sala con arredi d’eleganza e di ferità; intorno ampi seggioloni coperti di velluto; eleganti lumiere di cristallo pendono dalla vôlta, sicchè possa disporsi ad una festa: a un lato sorge alquanto da terra come un feretro coperto da un panno nero, e all’altro sopra un tavolo stanno disposti uno stile, un bicchiere con liquore, e una corda con formato il cappio sicchè valga a una strozza; appeso alla parete sopra quel tavolo un Crocifisso. In questa immagine ferma la misera gli occhi erranti, e prende alcun sollievo nella preghiera.

Indi si volge a quel lugubre involto, avanza, retrocede dubbia, timorosa: vince il pensiero di osservare che asconda per iscoprirne intera la propria fortuna: s’accosta a passi brevi, incerti, stende la mano tremante, prende un lembo del tappeto, [103] lo solleva, lo scuote, lo riversa: arretra spaventata; vi giace trafitto il povero Giovanni. La mobile bara, posta ad arte in luogo fuggevole, alla scossa del tappeto, si commuove, tentenna: il capo troncato del servo rotolò, cadde a terra; s’aprì al peso il pavimento, girò una cateratta e l’ingojò.

Agghiaccia nelle vene il sangue alla donna per compassione e per terrore; se le rizzano irti i capelli in capo, e le trema ogni vena ed ogni fibra. Guarda involontaria quel tronco sanguinoso, e le pare se le sollevi innanzi a rimproverarle la propria morte, perchè fido servo l’avesse obbedita. Stende le mani per respingerlo, per chiedergli perdono, si ritrae, fugge, grida e piange. Nella disperazione già guarda quel baratro e quello stile, e le suonano in cuore le ultime parole del feroce marito... ma i suoi occhi si fermano in quell’effigie di redenzione, si calma quell’angoscia di spavento, e succede un anelito più mite. S’inginocchia, giunge le mani e resta a lungo immota, fissa; si direbbe impetrata o estinta, se le copiose lagrime che le cadono sulle smorte guancie, e la bocca che convulsa si commuove, non accennassero una vita affannosa.

Restò in quell’attitudine oltre a un’ora, più osò sollevarsi, più torcere il capo, che sempre le pareva aversi quel trafitto alle spalle, e penderle sul collo quegli strumenti di morte; sentiva che le erano destinati, pregava e invocava forza per sopportare rassegnata il prossimo suo fine.

[104] La scuote un fragore, scivola la porta, entra il Marino, e il seguono due sgherri, chiudono e vi stanno a guardarla. Egli inoltra e si ferma a pochi passi dalla donna, truculento e col pugno sullo stile. Tra la nuova paura, Ara caccia l’antico terrore, si rialza, legge in volto al marito fierezza e sete di delitti: si ricompone e gli chiede: — Signore, che pure mi resta fra tanti mali? —

Ei guardò fieramente quel tavolo e quegli strumenti micidiali, e non rispose. Il comprese la misera e gelò, strinse la mano al cuore e riprese animo — Ah Tommaso di’, dimmi, in che ti offesi? perchè tant’odio dopo tanto amore?

— Pensa a quanto hai fatto.

— Nulla, ah nulla! soccorsi, è vero, a chi cadeva in tua disgrazia, in momenti che la tua ragione era vinta da violenti passioni, ma fu per mitigare un risentimento che poteva pericolarti; il feci in mio nome, ma per tua parte scendeva un sussidio...

— E per quai mani?

— Del fido servo...

— E il so: ed a qual prezzo?

— Marino, conte, per carità sospendete quell’ingiuria esecranda... Nunciata sa la mia innocenza... ma a che testimonj? voi, voi la sapete chè la calunnia è vostra... Ah! perchè crudele perchè disonorarmivituperosamente innanzi agli uomini? non sono misera abbastanza? Toglimi la vita, ma l’onore... Ah Tommaso, tu il sai s’io [105] non ti facessi fallo neppur d’un pensiero, sai se t’amo come quel primo momento... fra l’indifferenza, gli sprezzi, gl’insulti, mi sostenne una sola speranza, di riacquistare l’amor tuo, pel quale io solo vivo... Ah Tommaso! abbi pietà della povera tua compagna, consolami, porgimi ancora la tua destra, dimmi ancora che sei mio, e mi uccidi.

E gli stendeva le mani tremanti, e ancora tacendo lo supplicava coi singhiozzi e colla passione degli occhi; e se gli accostava e gli prendeva la destra... Ributtolla aspramente il fiero, le volse le spalle, e in quel momento finse accorgersi essere scoperta la bara: prese uno studiato furore. — Ah sfacciata, bugiarda! anche estinto ti piacesti vagheggiare il tuo drudo; e mi parlavi d’amore, e forse poco prima baciasti ancora quel capo... e lo nascondesti...

— Ah taci! io sì, tutto vidi l’orrore di questa prigione, perchè tu me l’ordinavi; e quel capo ben sai ove rotolare... dovesse... vittima infelice, e per mia causa, ma innocente; io lo compiango.

— Compiangi e seguilo: omai è deciso per te; scegli o quella tazza, o quel ferro.

Ara il guarda imperturbata: — Eccoti il seno e il collo ignudo; fa di me quanto ti suggerisce l’odio tuo, ma non isperare giammai, ch’io mi tolga una vita che tengo dal cielo.

— Ti ajuterò io a salirvi. — Impugna il coltello, lo alza; Ara gli offre inerme il petto: ei trema [106] e gli cade l’arme; e la donna commossa — Ah Marino! sì, tu senti la mia innocenza, tu ancora non m’odj, tu mi ami ancora...

Freme colui per la propria debolezza, morde le mani con rabbia soffocata. — S’io t’ami iniqua, il vedrai: se fu debole la mia mano, avrai morte più infame: olà quel laccio...

E tosto gli sgherri sono sopra Ara, e preso il capestro glielo pongono al collo; guardano al Conte e attendono il cenno per compiere.

Comprese la misera che era finito per lei, levò supplice la destra. — Almeno mi si conceda l’ultima preghiera, e riconciliarmi col Signore.

Il Conte non niegò, i bravi si ritrassero alquanto, chè fra delitti era sacra a que’ scellerati l’orazione del morente.

Ara s’inginocchia dinanzi al Crocifisso, e aperte le braccia, con voce di rassegnazione — Dio misericorde! tu vedi il tribolato mio cuore, e dammi forza in questa prova estrema... Peccai perchè vestii queste misere carni, ma nulla ah nulla! macchiò mai con pensieri, con atti la mia innocenza. Solo errai quando fanciulla, nella devozione della chiesa, fra la preghiera, talora volsi gli occhi all’uomo che mi seguiva con passi di amore... ma i miei voti erano puri e tu li benedisti... Mancai d’ubbidienza al padre mio, quando accolsi affetti ch’ei non sapeva; ma sommessa non ne disposi che col suo consenso... Felice d’un desiato sposo, ne fui lieta più che si [107] convenisse nella prosperità: tu men punisti ed io patii... ma non sempre rassegnata ne lamentai, umano cuore!... Ma giuro innanzi agli uomini e alla tua effigie sacrosanta, nell’ora mia estrema, ch’io mai non mancai di fede al mio sposo, allo sposo mio che amai, e amo... giuro che di quanto mi appone la malvolenza sono innocente... sì, io sono innocente

S’apre la porta, un servo annunzia vedersi correre a precipizio verso il palazzo numerosa schiera d’armati a cavallo. Il Conte infuria. — Audaci... vedremo... sia pronto alla porta segreta il mio cavallo, siano i miei in armi.

Il messo partì. Ara a quell’annunzio sentì una speranza, la guatò il Marino. — Ah non mi fuggi! ecco la tua innocenza! infami trame... stolti hanno suonata la tua agonia, ti troveranno morta: olà...

Ara come rapita da celeste entusiasmo, giunse le mani e sollevando il capo, pregava. — Signore, risplenda sopra di me la tua luce e la tua misericordia; io ti raccomando l’anima mia...

I manigoldi stendono la mano al laccio, e li interrompe l’entrare ancora del bravo. — Signore, si salvi: il Governatore di Milano, il padre Luca e numerosi soldati, corrono il palazzo, cercano questa stanza, cercano di lei, la gridano a morte.

Ribollì nell’ira — Minaccie? prendermi? oh mai! forza al Marino? e per te, iniqua? ma non t’avranno neppure estinta... io sazierò l’odio mio, sarò libero, e tosto.

[108] Precipita su lei che prega, la prende per le treccie, la scuote, la rialza, la strascina la trasporta ov’è il trabocco, e urlando ve la precipita. S’udì una voce — Gesù Maria! — ed Ara scomparve, e si chiuse sul suo capo il terreno.

Giunsero gli amici: era tardi, era deserto: il Marino fuggito; sur un feretro un mozzo cadavere d’uomo, terra terra un velo sporgente. Tentano colle spade; s’apre la cateratta, sono ancora fumanti, sanguigni i coltelli... un grido universale di terrore, e dopo quel grido, la voce commossa del padre Luca — Requiesca in pace. —

[109]

 

 




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