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Defendente Sacchi Novelle e racconti IntraText CT - Lettura del testo |
La punizione
Dopo questo fiero racconto erano tutti contristati, nessuno proferiva una parola: i fanciulli più grandicelli avevan gli occhi rossi, e qualche signora per la pietà della sgraziata Ara, facendo vista di pulirsi il naso correva col fazzoletto a tergersi una lagrima. La sposa del novellatore lo guardò anch’essa melanconica e gli disse — cattivo — talchè anch’egli ne fu quasi increscioso, e chinò il capo pensando fra sè, che non si ricreano le brigate con scene sanguinose.
Era corso alcun tempo e seguiva il silenzio, [110] sicchè un altro della compagnia, così per distrarsi si volse ad accarezzare un fanciullo che gli era vicino, gli prese una mano, gliela aprì, e tenutala rovesciata sulla propria, lo vezzeggiava coll’altra, dicendo:
Minin Minell
Barba Castell
Barba Milan
Tocca in la man:
Pan e formaggin
Grattin, grattin, grattin.
e solleticava leggermente il palmo della mano al fanciullo, che sghignazzando voleva ritirarla, e piacevasi di quel solletico. Quelle parole e quello schiamazzo innocente destarono un subito cicaleccio in tutti, e tosto v’ebbe chi domandò quasi motteggiando, se anche quelle parole avevano un significato, ma molti risposero — oh basta! ci siamo rattristati a sufficienza.
Allora quegli che avea narrato parve punto al rimprovero; però non si scompose, alzò un momento le ciglia, pensò e sbadatamente aggiunse:
— Sì, è la punizione del Marino.
E un grido di tutti: — Dunque fu punito!
— Ne dubitate? quei riprese: è segnato che niuno possa essere malvagio impunemente sulla terra.
Non ci volle di più perchè i fanciulli gli fossero subito tutti alle spalle, e lo sollecitassero a [111] raccontare di nuovo, ed ei rispondea — Ah no! sono cattivo: lo ha detto la zia.
E i fanciulli tosto intorno a quella buona creatura, ed a pregarla perchè si ricredesse; ma essa piacevolmente: — Fate che narri, e poi lo risarciremo, e guardò il marito con soavità quasi per accennargli d’essere pentita del rimprovero.
Allora l’altro riprese animo, volea pur chiederle quale sarebbe il risarcimento, ma la modesta parve annubilarsi, talchè ei tosto si fe’ da capo a narrare.
Lungo la valle della Stafora, che da Voghera sale fra amene collinette, e tortuosa s’aggira, s’innoltra fra i monti e si leva fino al Penice ove scaturisce, sono varj paeselli e molti castelli antichi. Fra quelle valli, sopra que’ monti sedeva nel Medio Evo il feudalismo; quivi avevano i Malaspina, gli Adorni, i Fregosi, i Del Verme, levate molte rocche ove comandavano siccome principi indipendenti, solo riconoscendo l’alto dominio dell’impero. Quivi caddero quelle Signorie antiche, quando salirono potenti i municipj italiani, ma poi si rinnovò nel secolo xvii un feudalismo novello, che non aveva dominio come il primo, ma ne teneva il fasto e tanti privilegi, che gli bastavano a renderlo feroce e temuto, ed a francheggiare i delitti dei Signori.
Sulla sommità d’una collina prossima a Varsi, paesetto posto sulle rive della Stafora, sorgeva la rocca di Cecima, d’un Signor genovese: dopo molti [112] anni che era stata chiusa e quasi deserta, improvvisamente si riaprì, e vi si udirono ancora fremere le armi dei bravi e l’impero del feudatario.
Non era l’antico signore, non era un novello; ne disputavano gli stessi vassalli e tributarj e nessuno il conosceva. Costui vestiva non armi guerriere, non cittadine; un tabarro spagnuolo ma più lungo del consueto, in capo un cappello a larga tesa, gran mustacchi, una mosca al mento sì densa e lunga che scambiavasi colla barba; capelli prolissi ai polsi, talchè quasi ne era nascosto tra l’ispido pelo il viso, che però vedeasi trapelare feroce come da rotte nubi lampo di tempesta. Erano alcuni mesi che abitava la rocca, e nessuno sapeva il suo nome, nessuno aveva udita la sua voce: si vedeva passeggiare ora solo nel bosco prossimo al castello, ora accompagnato da un servo sui colli, sempre cupo, raccolto, muto. Quando era in compagnia camminava più sicuro, ma quando era solo, vedeasi dopo percorso buon tratto, rallentare il passo, incerto rivolgersi col capo addietro, guardare a terra, rassicurarsi e procedere innanzi. Talora accellerava, affannato si scuoteva come se alcuno lo chiamasse, era atterrito come se lo ferisse una minaccia; infine si volgeva, guardava a terra e si ricomponeva.
I suoi servi tremavano a lui dinanzi; erano selvagi, misteriosi come il Signore, parlavano diverse lingue o dialetti, più spesso un gergo [113] inintelligibile; però essi non conoscevano più degli altri il loro padrone, se gli accostavano di rado; tutto ei commetteva loro per mezzo d’un suo confidente; faccia torva, armato sempre dalle piante al capo, manesco, fiero. Solo di costui si sapeva il nome, diceasi Minello; ei calava fra i contadini, discorreva, faceva negozj, talchè lo pigliavano un po’ a confidenza, e il dicevano Minin Minello, e il suo signore lo chiamavano il Barba del Castello, nome che in dialetto lombardo significa lo stesso che zio, e suona nella valle come padrone. Nessuno potea accostarsi a quello sconosciuto, e quando alcuno si abbatteva sulla strada ove ei camminava, Minello gli facea cenno di allontanarsi; nessuno potea penetrare nella rocca di Cecima, tolto alcune donne. Queste sole quando incontravano il Barba pei viottoli dei colli, poteano seguire in lor cammino e avvicinarlo: ei le guardava con un sorriso infernale; talora le fermava, faceva loro qualche domanda se erano belle e giovani, allungava una mano, ma era mirabile che spesso in questo atto sospendeva le parole, restava coi gesti a mezzo, volgevasi addietro e guardava a terra; poi si ricomponeva, e parlava con più dimestichezza. Sovente ne invitò alcuna nel castello, e v’andarono liete, e ne ritornarono più liete, ma nessuno giunse mai a cavare loro di bocca quanto ivi avvenisse, lo tenevano celato anche colle compagne.
Le donne del feudo, le contadine erano spesso chiamate fra quelle mura misteriose, niuna uscì [114] che si lamentasse, sedeva un segreto invincibile sulle loro labbra; non erano però un segreto i giojelli e le nuove vesti onde si vedevano in breve adorne.
Intanto a Varsi, in tutti i castelli vicini, in tutti i paesi che sono lungo la valle, si parlava del nuovo Signore di Cecima; gli altri feudatarj mossi da curiosità, i contadini rapiti da quel meraviglioso che veste un uomo avvolto di mistero. Alcuni avevano studiato di addomesticarsi co’ suoi servi, di interrogarli fra le tazze e l’allegria dell’uomo misterioso, ma essi non ne sapevano nulla; avevano raggiunto il nuovo Signore poche miglia prima di giungere al castello e non conoscevano nè d’onde venisse, nè chi si fosse: Minello solo aveva il segreto di tutto, ma non si potea trargli un sospiro. Quindi que’ valligiani parlavano sempre del Barba del Castello e delle sue avventure, talchè ai mercati di Casteggio e di Voghera, ove due volte alla settimana convenivano tutti per le loro faccende, ne facevano un continuo cicaleccio; ed omai era anche la novella de’ curiosi cittadini.
Dopo alcuni mesi si videro apparire al mercato ed insinuarsi fra que’ contadini alcuni forestieri, e dimandarli del nuovo feudatario; ma non ne pescavano nulla da chi non ne sapeva.
Un dì capitò tra loro a Casteggio un giovane merciajo, che con una sua cassetta in ispalla vendeva fettuccie, merletti, spilloni, ed altre simili [115] minuterie per contadine, e tutto a piccolo prezzo, talchè faceva maggior mercato degli altri. Quindi in breve gli furono intorno alcune donne e fanciulle della valle di Stafora, comperarono varie bazzecole per ornarsi, e pagarono in monete d’oro della Zecca di Milano.
— Qua dobbloni, diceva loro il rivenditore, ch’io vi porterò di belle cose; dite, siete di questo paese? — Udì che venivano dalla valle di Stafora. — Beata valle, aggiunse, se vi corrono de’ buoni denari.
— Eh, interruppe uno di Varsi che stava guardando: non sono guadagnati filando, no, quei pochetti: piove la manna per queste creature; fatica de’ loro denti, sa?
— Tacete, maligno: riprese una più destra, mentre le altre arrossivano; se quel Signore ne dà dei denari, li abbiamo anche guadagnati: noi portiamo al castello il burro, i polli, i capretti e quanto gli abbisogna per la cucina, e ve ne faremo testimoniare da’ suoi servi.
— No, no, state comoda, perchè que’ maledetti hanno una certa maniera di ragionare, che a me non piace; so io se ne toccarono poche a un mio compare, che per un po’ di curiosità di spiare nel mistero di quel Signore, s’era cacciato ad udire i loro discorsi.
— Che mistero? — riprese il merciajo, e vendeva a costui a metà prezzo un fazzoletto rosso per la festa, e porgeva alla donna che aveva [116] parlato uno spillone lucido che pareva d’argento — Eccovi a buon mercato.
Il contadino rivolgeva da tutti i lati il fazzoletto e rideva d’averne fatta buona compera, indi aggiungeva:
— Altro che mistero! Sapete chi è quel Signore? il Barba del Castello: così lo abbiamo soprannominato fra noi; nessuno ne sa il nome: i suoi sono tutta gente selvatica, non parlano mai cogli altri, meno Minello il capo, che è un furbo in carne ed ossa: gli altri guardano in viso, ma non fanno un motto; si chiamano fra loro come tanti cani e gatti con grida, parole tronche, fischi; vanno, tornano, si son veduti a Milano, a Pavia, più lontano: insomma pajon stregoni; il solo utile è che corrono denari.
Il giovane merciajo intanto pensava a quanto narravano, e più volte parve spuntargli un sorriso come di speranza, quindi quasi a caso:
— Oh! vo’ provare anch’io a venire in quella valle, perchè forse farò fortuna: intanto potrò vendere la mia mercanzia a queste belle ragazze, senza che sgambettino fino a Casteggio, e poi chi sa? se posso portare la mia cassettina in Castello...
— Eh, riprese il contadino, per quella tana non entrano forestieri; se uno ha baldanza di avvicinarvisi trenta passi, si comincia a udir fischi, grida, e come il tuono qualche volta son forieri di tempesta: finora vi sono solo queste femmine che vi abbiano portati i piedi, ma o vi è il [117] basilisco, o sono stregate dal diavolo; poche tornano la seconda volta, nessuno vuole confessare quanto succede là dentro.
Il mercante intanto dava alle donne le fettuccie e gli aghetti a buon mercato, le menava in parole sul prezzo, e faceva loro con destrezza qualche dimanda: a poco a poco tutte erano scomparse; ei restò solo col montanaro: costui si guardò d’attorno e si cacciò a ridere:
— Ve lo dissi che non ne avreste fatto nulla; è la prima volta che vedo secrete le donne, bisogna che il Barba cucisca loro la bocca.
L’altro aveva notato in quelle contadine il mutarsi della loro fisonomia alle diverse dimande, e il sogguardarsi a vicenda, allorchè motteggiando chiedeva se il Barba o faceva una tal cosa, usava un tal modo, e finalmente il toccarsi col gomito quando le mise un po’ alle strette, e partire: però ei non parve curare del loro allontanarsi, e aggiunse: — Eh! lasciale; purchè si faccia qualche guadagno; anzi penso proprio di venire teco a Varsi; ricordati che conto su te pel viaggio e per trovarmi alloggio: ti pagherò bene sai — e trasse uno zecchino veneto, e glielo diede.
Costui fu a Varsi e in giro colla cassetta, e vendeva a buon mercato: tosto tutti lo cercavano, pareva che fosse capitata in paese la cuccagna: ei correva tutti i colli, i casali, le rocche del contorno, cianciava con tutti alla ventura, e intanto, senza darne indizio, si pose a spiare ogni fatto [118] di quel signore; però non gli riescì mai di vederlo dappresso: tentò di penetrare colla mercanzia nel castello, ma fu invano: giunse ad accostarsi ad alcuni suoi servi, si pose con loro a celie, a giuochi, li accese nel ragionare, provò a gittare fra loro certi motti, certi segni; non rispondevano: conobbe che non erano della lega che ei cercava, e quasi ne disperò. Intanto aveva sovente tenuto d’occhio a Minello, e notato in lui un fare diverso degli altri bravi, anzi certi modi che si vedevano non essergli abituali. Se gli avvicinò colla sua cassetta: parlava poco, offriva la mercanzia, chiedeva prezzo piccolo alla prima, vendeva e non mostrava desiderio d’entrare con lui in discorso. Quindi Minello gli prese fidanza; quando gli occorreva qualche bagattella gliene chiedeva, e se non l’aveva, tosto il giovane partiva e tornava dopo pochi dì col bisogno. Passarono parecchi mesi in questo modo: era volto l’estate e capitato l’inverno, e il merciajo, per le nevi cadute ed il rigore della stagione, mostrò di non volere correre i paesi vicini; aveva disposta una specie di bottega all’osteria di Varsi, ove si rendevano quei che amavano far compera di sua mercanzia: Minello vi correva più spesso, perchè omai provvedeva da lui tutti i doni che uscivano dal castello. Il merciajo gli apparecchiava subito un bel fuoco perchè si rasciugasse, e intanto mostrandosi meno timoroso, davasi a narrargli le proprie fortune; gli parlava di Napoli, di Milano, [119] di Genova, ma non giunse mai ad essere ricambiato della stessa confidenza; però ei notava i sensi che gli destavano o que’ suoi racconti, o i nomi delle città che nominava. Minello era destro e tristo assai, ma non sapeva celare sul volto le subite emozioni dell’animo: il giovane invece aveva sempre aspetto eguale.
In questo modo passarono quasi due mesi; aveano sovente vuotata insieme qualche tazza di vino, ed a poco a poco fatti un po’ confidenti: il mercante però non parlava mai a Minello nè del suo padrone, nè della Rocca; non parlava che della propria mercatura.
Un dì il bravo fece buona compera di varie minuterie, e riscossine i danari il venditore gli disse: — Almeno beviamone per soprammercato un bicchiere del migliore. — Vuotarono due tazze e si rappiccò un gran discorso, ove il merciajo narrava tutte le speranze de’ suoi futuri guadagni, e quando vide il compagno un po’ caldo, aggiunse:
— Io ho proprio trovata la fortuna in questi paesi: non mi allontano mai più: vado a Milano per far provvigione e ritorno. Posso servirvi?
— Non occorre nulla.
— Ma, e al vostro padrone?
— Meno.
— Forse potrebbe giovarmi in quella città, se volesse raccomandarmi colla sua protezione.
Parve che fra la densa barba di Minello [120] balenasse un sorriso di scherno, che per un momento tradì il suo segreto e rispose:
— Staresti male... — e tosto ravvedutosi riprese la sua freddezza — se non avessi altra protezione: il mio Signore non conosce nessuno, e non ha alcuna pratica di Milano.
Il giovine tutto aveva osservato, ma non mostrò accorgersi, e con indifferenza picchiando la tasca della giubba ove teneva i denari — Manco male; quando si hanno di questi, si va in capo al mondo. Beviamo ancora una volta alla salute del mio viaggio.
Versò, vuotarono le tazze, indi il mercante stese la mano per salutare Minello: quei gliela porse: l’altro tosto gli fece un atto e un motto, a cui Minello senza arcorgersene rispose; dopo s’avvide del fallo, voleva spiare; ma il mercante mostrò tanta indifferenza che il bravo pensò costui avesse fatto quel motto a caso.
Poichè furono divisi il giovane accorto richiamato quanto aveva veduto, cominciava ad avere qualche certezza de’ proprj dubbj, ma pur erano sì piccole le prove, che non si avventurava a cose maggiori; ei non conosceva quegli che cercava, e solo gli era necessità indurne dai segnali; quindi era in continue dubbiezze: però non disperava, che freddo di mente quanto era bollente nella passione che lo muoveva, non si sconfortava nè di tempo, nè di traversìe, purchè giungesse al fine. Partì, tornò e si rimise alle sue consuetudini che teneva da un anno.
[121] Intanto quell’uomo misterioso proseguiva quel suo vivere incerto, avvolto fra un gran segreto; però allontanandosi dal momento in cui aveva ricovrato nel castello, pareva pigliare maggior fidanza, talchè venuta la primavera andava a più lunghi passeggi, calava sovente nel letto del torrente e si avvicinava fino a Varsi; ma sempre pensoso, camminava alquanto, poi rivolgeasi timoroso, guardava a terra e si ricomponeva. Il mercante gli teneva presso in ogni sua azione; si era accorto che ogni due o tre mesi giungeva a Cecima un uomo ora a piedi, ora a cavallo, restava un dì nel castello e partiva; i servi non sapevano chi fosse; ei non parlava che col padrone e con Minello. Attese quando giungesse, spiò la sua partenza, lo seguì, e dopo quindici giorni tornò a Varsi con nuova mercanzia.
Allora vedendo che il feudatario era d’alcun tempo meno rattenuto, talchè acconsentiva che altri gli passasse sulla strada un po’ vicino, procurò d’incontrarlo con in ispalla la sua piccola bottega: Minello disse al Signore che era il merciajo ed ei lo fece dimandare se avesse qualche cosa di bello: questi ne offrì varie, piacquero, furono comperate: dopo trasse una catenella d’oro e disse:
— Questa è di Venezia.
Il feudatario scrollò il capo, e l’altro: — La prenda, è veramente delle più belle, proprio di Venezia.
[122] — No, rispose risolutamente; maledizione a Venezia — e partì.
Il merciajo raccolse e mostrò indifferenza: per molto tempo non andò neppure in traccia di Minello; volle essere cercato; però dopo un mese si mise sur un viottolo pel quale doveva passare il feudatario: come il vide venire fece vista di declinare per rispetto. Colui lo chiamò. — Vediamo la tua mercanzia — Ed esso gli aprì la sua bottega.
Mentre Minello sceglieva alcune cosuccie e pagava, il merciajo restò colla palma aperta, su cui gli numerava il denaro, immobile, fiso, guardando lontano dietro il Signore senza rispondere o proferire parola: questi se ne accorse e tosto si rivolse, osservò come era di consueto verso terra, nulla vidde e si ricompose. Passarono alcuni giorni e di nuovo s’incontrarono, e di nuovo fatto compra di minuterie, mentre pure scambiavansi le monete, il merciajo fe’ quell’atto di prima con sorpresa e paura, esclamando: — Ah! un’ombra... una donna bianca! —
L’ignoto si scosse, si volse addietro, nulla vide, ma pur incerto gli fe’ domandare che avesse, e l’altro tutto vergognoso:
— Oh pazzie, fanciullaggini! è già la seconda volta che parmi vedere in lontananza una signora tutta vestita di bianco che piange, e scompare sprofondandosi in terra: fantasie; credo mi accada quando incontro il vostro padrone nel pensiero di guadagnar denaro; mi pare di vedere la fortuna.
[123] Il feudatario aveva con attenzione raccolte quelle parole e si turbò non poco: tornò a guardarsi addietro, disse — Maledizione! — e scomparve.
Il mercante parve rassicurarsi; quel timore, quel gesto, quella imprecazione che sapeva in lui consueta, lo confermarono meglio intorno ne’ proprj sospetti: ma pur volle maggiore prova.
Dopo quell’avvenimento lo sconosciuto era più timido, incerto; ad ogni momento ripetea quell’atto di guardarsi addietro e parea tremare: non dilungava molto dalla rocca, e passeggiava solo nel bosco. Una mattina correva solo a gran passi fra quelle macchie, tratto tratto rivolgeasi a fare quel suo atto di paura: allorchè una volta appunto nel momento che rivolgeasi udì di lontano una voce fioca che chiamava — Marino — Costui trepidò, impallidì, spinto da impeto improvviso esclamò: — Chi mi chiama? — poi si ricompose, si fece animo, cavò un pugnale, mosse verso il lato ov’era uscita quella voce e nulla vide: crollò il capo come chi biasima un’illusione e ritornò nel castello, ad ogni passo guardandosi sempre alle spalle.
Passarono parecchi giorni e il feudatario non uscì dalla rocca; poi ritornò a fare pochi passi nel bosco in compagnia del servo, e nulla accadendogli, in capo ad un mese riprese a diportarvisi solo nelle ore che non prendeva con Minello più lunghi passeggi.
Intanto il merciajo allargava la mano sul prezzo [124] nel vendere le proprie derrate, partiva sovente e ritornava portandone delle nuove. In questo mezzo apparivano a Varsi alcuni montanari che da Voghera si rendevano a Bobbio, a Genova: si trattenevano qualche dì nel paese per far compera di grani e vendere castagne, andavano, ritornavano col carico; alloggiavano sempre nell’osteria ove albergava il giovine mercante, facevano con lui continuo mercato, e spesso desinavano assieme. Capitava tra loro sovente Minello, e mettevasi mezzano nella vendita che il merciajo faceva loro, e ridendo diceva di volerne il compenso, e questi mostravasi tutto beato della sua protezione, e rispondeva — ve lo darò. — Un dì incontratisi nella valle, il bravo gli dimandò se avesse un vezzo di bottoni d’oro; rispose di tenerli all’osteria, e che alla mattina appresso glieli avrebbe portati: Minello rispose che sarebbe andato a pigliarli a Varsi e gli divisò l’ora perchè vi si trovasse.
Era l’ora che di solito il feudatario soleva passeggiare solo nel bosco. Infatti camminava a gran passi a capo chino, e lo ferì un subito stormire, uno scuotersi delle frondi e de’ cespugli: si arresta, guarda; quattro uomini mascherati gli sono addosso, lo pigliano, gli bendano gli occhi, lo legano; ei grida — Mosca, Minello! — nessuno l’ode, e gli è chiusa la bocca — Non sei più in tempo — Lo trascinano nel folto del bosco, salgono il monte, scendono verso l’altra valle, e giunti a un [125] viottolo ov’erano pronti dei cavalli, lo cacciano in groppa di uno, lo legano agli arcioni, svoltano, gli tolgono le bende, gli indicano a dito appiccato ad un albero Minello, già Mosca, il bravo torcimanno delle sue scelleraggini; indi lo imbavagliano con un sacco di lana nera, e toltogli ogni veduta lo mettono in via.
Dopo quel momento il Marino più non seppe nulla, nè dove fosse, nè in quali mani, solo una gran voce contraffatta che non gli pareva ignota, gli diceva fremendo — Ricordati de’ tuoi delitti — e lo scuoteva la mano d’un uomo furente che appena teneasi dal rovesciarlo di sella.
Dopo alcune ore di cammino è levato dalla cavalcatura, condotto in una stanza; da que’ mascherati gli è dato solo a cibo poco pane, formaggio ed acqua, ma prima di lasciarlo, con una lamina di ferro gli grattano le palme e sotto le piante dei piedi: ai lamenti sempre quella voce tremenda ripeteva — Ricordati de’ tuoi delitti. —
Sentì il malvagio la vendetta che gli pendeva sul capo, talora bestemmiava e talora domandava pietà, ma tutto era nulla: sempre bendati gli occhi viaggiò molti giorni su per monti, giù per valli, ora a cavallo, ora a piedi, spesso in lettiga; e alla notte sempre nella stanza cieca, quel cibo, quel supplizio e quel ricordo. Finalmente fu adagiato sur un tavolato, e sentì che si moveva senza scuotersi; dall’oscillare s’accorse di viaggiare sur un’acqua. Dopo non molto la barca parve approdare; fu [126] levato, serratagli la bocca, e trasportato in una piccola stanza; e ivi sbendatigli gli occhi, e lasciato allo scuro.
Passarono alcuni giorni, e più non era condotto a nuovo viaggio: non udiva fragore, non un sospiro: solo il suono d’alcune campane lo posero in sospetto d’essere in una città: una volta al giorno due uomini mascherati, gli portavano la solita vivanda, gli davano il solito martorio, ed uscivano.
Finalmente ode aprire ad ora inusitata la porta: entrò un uomo lento, studiando il passo, come se temesse di far rumore o d’essere scoperto. Il Marino si scosse, lo guardò e l’altro se gli accostò, e dato lume a una lanterna che portava:
— Signor Conte, mi conosce? sono il merciajo di Varsi.
Il Marino sentì tutto racconsolarsi come lo smarrito che incontra un conoscente:
— Oh tu qui, amico? ma dimmi dove sono, in quali mani? che si vuol fare di me, che si pensa? Oh quella maledetta donna!
— Signore, io non dimentico i benefizj. A Varsi colla sua generosità feci de’ buoni guadagni e mi dolse la sua disgrazia. Sulle prime non si meravigliò di vederla scomparso con Minello: dicevano — come venne l’andò — ma dopo un giorno si trovò nel folto del bosco appiccato quel fido servo, e tosto si sospettò un tradimento: cerca, domanda, niuno ne sapeva nulla; io mi posi alla ventura per iscoprire qualche cosa.
[127] — Ma come potesti venir fin qui?...
— È lunga storia e inutile: ella è a Milano. Il Marino parve riconfortarsi — Temeva di peggio; avrò un processo: prove per mostrare l’infedeltà d’Ara non ne mancheranno, e poi ho ancora una speranza.
— Intende Andreaccio, neh Conte? oh gran diavolo colui per servirla fino nelle intenzioni! gli ordini che gli diede quando venne l’ultima volta a Cecima sono eseguiti.
— Ma che! Sai tutto? Ebbene?... Tornò da Venezia? Lo hai veduto?...
— Sarei qui senza di lui? Ella sa se col suo nome colui possa in Milano.
— Dunque fu dal governatore! aveva lettere del ministro di Spagna a Venezia? Perchè non venne ei stesso...
— Oh sì! sarebbe stata bella prudenza per iscoprire tutto. I Veneziani vedono lontano, e un sol momento disperde lunghe cure: son qua io... allegri, tutto va bene.
— Dunque Andreaccio non dormì? Che fece?
— Tutto; ne ha dette tante che non saprei ricapitolare. Sa signor Conte la fine? a suo utile, e fuori di qui.
— Son contento: non inutilmente ho sudato tanto; finalmente è poco perdonare d’avere ammazzata una donna, quando si ficca uno spino nel piede ad un nemico, e Filippo Secondo che tacitamente si rode della prosperità de’ Veneziani, deve esserne contento.
[128] — Eh sicuramente! lo proverà ella e subito, perchè i pochi dì che resterà qua entro non avrà più molestie... gran denari per far miracoli!
— Ma li hanno fatti?
— E gli Uscocchi...
— Mossero la guerra a Venezia, e la repubblica le pagherà loro i debiti.
— Bravo Andreaccio; non mancava a’ pirati che quell’ultimo tesoretto, e non fu che l’economia di stare fra i monti: ma di’, il mio bravo aveva le lettere del Ministro di Spagna pel governatore di Milano? le diede? le hanno sciferate?
— Altro che lettere; ma chi le intende? ella solo ne ha la chiave: venni anche per quest’imbroglio; forse portano l’ultima testimonianza dei suoi servigi.
Maledizione! il riscontro è a Cecima... ma puoi rimediare: prendi un foglio di carta riquadro grande quattr’once; segnavi per dritto e per traverso delle linee parallele distanti l’una dall’altra un quarto d’oncia; ma diligenza sai; un punto nè più nè meno; ove le linee s’intersecano, fa’ un piccolo foro, apponi la carta alla lettera di Venezia, le parole che si vedranno pel Foro danno la risposta.
Il merciajo parve contento — Vado subito. — Il Marino gli ricordò la propria carcere — Non la dubiti che sarà rimeritato. — Uscì e l’altro restò pieno di speranze.
Alla dimane nel palazzo ducale di Venezia erano [129] uniti i tre inquisitori di stato: avevano sul tavolino parecchie carte spiegate ed una bucherellata che adattavano or sopra l’una, ora sopra l’altra; leggevano, si guardavano e non proferivano accento; solo il più vecchio aggiungeva un barbaro sorriso di compiacenza. Poco dopo entrava il Cancelliere Grande e poneva loro innanzi un fascio di scritture.
— Ha tutto confessato: era duro, ma il vedersi scoperto, quattro strette, un po’ di solletico a mani e piedi, e la verità venne fuori: non mancherebbero però anche testimonj; è molto tempo che quel viso lombardo non mi piaceva a Venezia, e gli posi addosso due ricordandi; le sue pratiche cogli Uscocchi sono provate. —
Allora uno de’ tre più ardenti batteva la mano sul tavolo.
— È incompatibile che si ajutino i ribelli: io propongo di far pigliare questa notte l’ambasciatore di Spagna, e domani si denunzi tutto al Doge e al gran consiglio. —
Il capitano stava col capo chino e pensoso, il più vecchio degl’inquisitori pareva incerto, ma l’altro poneva l’indice alla bocca:
— Silenzio e prudenza; dissimulare: nettiamoci dai complici, e tutto sia qui sepolto: la pubblicità darebbe agli Uscocchi indizio che li temiamo; Filippo II è potente, e potrebbe trovare un appiglio a romperla con noi, o sostenere anche l’imprudenza d’un suo ministro. Per l’ambasciatore... [130] o il nostro di Madrid riesce a farlo richiamare, o ce ne libereremo.
— Assento, disse il vecchio, purchè pera il reo — e tutti chinarono il capo.
Il Cancellier grande si pose a scrivere, indi sospese, levò la penna, domandò — Dove? in piazzetta? — Tutti risposero mettendo il dito alla bocca — Al canal orfano. — L’altro appose poche linee allo scritto, e si divisero senza aggiungere una parola.
Intanto il Marino sognava prossima libertà, ed avendo più lauto cibo senza altra molestia, riprendeva la sua baldanza. Passò un dì: alla prossima mattina si apre la porta della prigione, entra il merciajo, ma vestito da nobile veneziano; appena il Marino il vide e il conobbe, meravigliò:
— Che avvenne? quali notizie? Perchè quest’abito? Hai già il premio? ed io...
Sorrise il giovane e se gli infiammò il volto su cui per tanto tempo non avevano potuto gli affetti ascosi — Il premio lo avrai presto: venni ad annunciartelo: ho faticato due anni per procurarlo: ho sofferto disagi, fatiche, ma ho vinto.
Il Marino sbalordì, e guantandolo fissamente — Ma che, sei pazzo? Io non t’intendo. —
Rise l’altro — Ora m’intenderai; sappi che io sono Marco Cornaro, il minor fratello di Ara; non ti conobbi cognato, ma venni a trovarti per la vendetta... sappi che non sei a Milano, ma nei camerotti di Venezia. —
[131] Il Marino tremò, si coprì il volto ed esclamò fra il dolore e lo sdegno:
— Ah, sono perduto!
— Ed io tripudio; ricordati di Ara; risorga la misera dal sepolcro ove l’hai spinta a suscitare le tue estreme paure — Chiuse la lanterna, lasciò la camera nell’oscurità ed uscì.
Il Conte era ancora nello sbalordimento che il vinse a quelle ultime parole, quando vide un gran chiarore annunciare nella prigione la presenza d’un uomo in toga senatoria colle calze rosse; era il Cancelliere grande. Questi guardò il Marino e in succinte parole gli annunziò, che come traditore della Repubblica Veneta, per avere data mano alla ribellione degli Uscocchi, era condannato a morte, e si disponesse indi nella prossima notte al suo fine.
Il Marino lo aveva guardato dispettoso e torvo, e rispose con oltracotanza, che era un tradimento, che Venezia n’avrebbe scontata la pena, e aggiungeva bestemmie...
Il Cancelliere non fece atto neppur d’averlo udito, e partì.
Poichè il Conte restò solo, e richiamò quanto aveva ascoltato, gli cadde quella rabbia, e preso da subito dolore domandò compassione, soccorso; nessuno l’udiva. Tra quel silenzio e quell’oscurità tosto gli sovvenne di Ara, e lo presero le solite paure ond’era agitato dopo che la precipitò nel trabocco; talchè gli pareva sempre vederla uscirgli [132] da terra alle spalle: ora s’accrebbero all’imprecazione del giovane Cornaro, fra quell’oscurità, colla morte sul capo; la sua fantasia s’accese, già vedeva Ara sorgergli innanzi tutta sanguinosa e lacera dai coltelli del pozzo immane ov’era perita, e minacciarlo; tremava il tristo, procacciava fuggire, copriva gli occhi colle mani, domandava misericordia, perdono; e dopo poco ripreso animo dannava la propria debolezza, bestemmiava la donna sgraziata; i Cornaro, Venezia o quanto vi aveva di sacro in terra e in cielo.
Durò alcune ore in questa subita vicenda d’affetti, ora timido, ora orgoglioso, ora atterrito dai fantasmi del proprio delitto, ora dai pensieri del prossimo fine; e fra quel bujo talora pur dubitava di tutto e procacciava scoprirvi una speranza. Finalmente stanco stava col capo abbandonato sulle mani rafferme pei gomiti alle ginocchia, allorchè lo scosse una nota voce che lo chiamava a nome, una voce che gli destò nell’animo antiche ricordanze e gli cercò ogni fibra. Sollevò la testa e si vide innanzi in atto di pietà e di compassione il padre Luca: sentì il Marino un misto di rimorso e di sdegno, ricordò Ara e Milano, gli insulti fatti al frate e la sua minaccia a Gaggiano: lo squadrò da capo a piedi coll’antico orgoglio:
— Uomo fatale, avete altre disgrazie d’annunziarmi? —
Il frate lo guardava con pietà — Signor Conte, quando io vi annunziai disgrazie? Se aveste atteso [133] a’ miei consigli, nè avreste dei rimorsi, nè sareste a questo momento.
— Momento!... — riprese il Marino, come si risovvenisse d’un pensiero dimenticato; e il pio guardandolo:
— Ora non v’annunzio che il Cielo.
— Che intendete?
— Conte, avete già dimenticato quanto pronunziarono i Tre? Poteste credere che non abbia esecuzione un decreto degli inquisitori di Stato a Venezia?
— Ma perchè voi lombardo e genovese impacciarvi a mandare denari a’ pirati ribelli di Venezia? sulla speranza di rendervi accetto alla corte di Spagna e riacquistare in compenso il ritorno a Milano? e credete che Venezia possa lasciare impunito l’attentato quando cadete nelle sue mani? e vostra sciagura fu che vi cadeste... ma ravvisate in questa vicenda una giustizia che ha sì grande il braccio, che raggiunge l’uomo nell’angolo più remoto della terra: Conte ricordatevi... —
Un subito fremito di rabbia cercò il Marino, lo guardò bieco e con beffardo riso:
— Dunque anche voi, Ministro di Dio, v’accordate coi Cornaro a un assassinio, a una vendetta?
— V’ingannate, dopo la morte di quella infelice domandai di allontanarmi da Milano, ove mi pareva insanguinata ogni contrada. Fui mandato a Venezia, e quivi ben potete pensare se la [134] famiglia di quella sgraziata desiderasse vedermi e sentire delle sue virtù. In quel tempo scomparve il minor fratello di Ara, e per due anni nulla io ne seppi. Il vidi di ritorno or sono pochi dì: era tripudiante come chi conseguì un lungo desiderio: — Ara sarà vendicata — nè giunsi a sapere di più: oggi solo mi rivelò il vostro destino.
— Ma toglietemi una volta questo mistero. Come mai quest’essere infernale potè ordire sì iniquo tradimento?
— Colla pazienza e con ira sterminata: morta Ara questo giovane non sentì che un desiderio: raggiungervi e vendicare la sorella. Non vi conosceva, era ignoto il luogo ove vi foste ascoso; prese abito da mercante; a Milano vide e conobbe i vostri servi, apprese le vostre abitudini, i loro segreti, fino i motti, il loro gergo: corse la Lombardia, il Genovesato, non risparmiò denari e disagi finchè vi raggiunse, vi scoprì, conobbe i vostri messi e i loro viaggi, conobbe le vostre abitudini e vi prese. Pur troppo io seppi tardi questo segreto fatale. Almeno desiderai parlarvi per ricordarvi che il pentimento può ancora ridonarvi una vita migliore; e come spetta al nostr’ordine penetrare ne’ camerotti, in questi miserandi casi, chiesi d’esservi destinato. Il vecchio Cornaro negava ogni sussidio religioso, perchè la vostra morte fosse principio di punizione; ma vinse la mia persuasione: ah Conte!... —
Il Marino scrollò il capo, lo guatò fieramente — [135] Frate, non m’importa della tua pietà: se debbo morire, non voglio che tu mi molesti: esci.
Il pio non si adonta a quelle parole, e con dolcezza torna a ricordargli il pentimento. Egli non rispondea, ma trasse innanzi il Cancellier Grande e volto al Frate:
— Padre, assai fu concesso alla vostra pietà: omai costui, se non vuol salire in cielo, andrà anima e corpo ad alimentare i pesci di canal Orfano. —
Il frate non si rimosse — Lasciate pensiero al cielo: io non l’abbandono. —
Il Cancelliere fe’ cenno a due manigoldi che trassero al Marino, gli legarono le mani alla schiena, lo condussero fuori dalla prigione, e corsi alcuni angusti corridoj illuminati da una fiaccola, riuscirono a una porticella. Il Marino non aveva mai parlato; prima d’aprir la porta il padre Luca gli disse:
— Preparatevi al vostro fine: omai vi si chiude la bocca, dite una parola. —
Non rispose ed uno dei manigoldi gli pose le spranghe alla bocca: si aprì la porta, che usciva sopra il canale presso al ponte de’ sospiri: galleggiavano sulle acque due gondole brune riunite da un impalcato, e avevano una bandiera rossa. Il Marino fu preso, coricato in mezzo, ove le gondole aderivano, e legatigli i piedi con una catena cui era appesa una palla di piombo. Salirono sulle barchette, il padre Luca che si [136] inginocchiò a canto del Marino e i due manigoldi che presero i remi.
Il Cancellier grande disse: — In nome dei Tre andate.
Fendevano quelle barchette unite la laguna; le altre gondole che scorrevano sulle acque, incontrandosi in queste e riconoscendole al chiarore di luna per la bandiera, declinavano. In breve esse toccarono il largo; non si udiva che il franger de’ remi in l’acqua e una voce sommessa che orava per un’anima prossima a passare: fu veduto sovente il pio frate chinarsi e susurrare all’orecchio del Marino, cui parve che fra quel silenzio, innanzi all’aperto cielo e all’ora estrema, quella voce non scendesse in vano.
Le barche avevano attraversato la laguna al largo di san Giorgio, e giravano intorno all’isola innoltrando in un canale più angusto: allora i barcajuoli vogarono più lesti, lo passarono ed entrarono a precipizio in un altro; e il padre Luca con voce sommessa diceva — Raccomandate l’anima a Dio.
In quel momento le due barche si aprivano, s’udiva un tonfo nell’acqua, si riunivano, e volta la prora ritornavano più lievi al palazzo Ducale.
Il Cancellier grande annunziava ai Tre uniti e assisi nel loro tribunale, che era fatta la giustizia del delinquente: allora il più vecchio esclamava — Ora sento di rivivere; mia figlia è vendicata. —
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