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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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A UF

 

Frottola filologica

 

— Mi rallegro; Ella è molto operoso; articoli a tutti i Giornali! Oh certo si farà dei buoni guadagni, con questi direttori di Opere che vengono periodicamente a seccare il prossimo! — E l’altro fissa chi l’interroga, dimena un po’ il capo, scuote le spalle, fa la bocca brincia, e sporge la mano come chi cerca la carità. — Ah, ah! qua due soldi, e cedo i miei proventi... Qual meraviglia! ella non conosce il secolo; generosità e grande: noje coreddatori, cogli stampatori, colle dogane, col pubblico, e tutto a uf.

[138] Una signora sorride ad un novellatore, a un poeta. — Invero ella è prolifico quanto me che ho dodici figli! fa novelle e odi per strenne ed almanacchi: almeno le frutteranno pei piccoli vizj — E il romanziere, il poeta, apre il palmo della mano sinistra, vi scorre sopra colla destra e sorride: — Quanto ce ne è su questo palmo: «me le raccomando pel racconto; le ricordo la poesia; sarà un fiore per la mia raccolta; saprò il mio obbligo;» e poi canta storie, volgi il rimario, imita Manzoni, Lamartine e Walter-Scott, e si fa tutto a uf. Basta la gloria, capisce? e anche questa spesso viene colle fischiate. —

Una cameriera, è domenica, appunta una compagna fra mezzo giorno e un’ora sull’angolo d’una strada.

— Addio come stai? — Bene e tu? — Oh miga male. — Pensava a te. — Di che? — Gran mani le tue per far belle cose! Vidi or ora la tua padrona tutta elegante come una primavera, con arricciati i manichini, i collaretti che li pajon stati impressi a un stampo di Francia; e la guardavano tutti ve’, e certo un po’ più per l’acconciatura che per la sua faccia, perchè a dirtela in quattro occhi, sì la tua che la mia cominciano a passare, e non ci fu mai molto di buono.

— Dunque vuoi dire a nostro merito, se tocca loro qualche occhiatina di più? —

— Non ce n’è dubbio; ma credo che madama ti ungerà ben bene la mano, e infin del mese ti darà la buona misura del salario. —

[139] L’altra si caccia a ridere a boccasgangherata, che se le potrebbero trarre i denti. — Oh sei ben pazza! le mancie le intasca Pietro che porta i biglietti di visita, e non le ha da chi li manda. E sì che sudo sangue per quella benedetta tavoletta! e non vi sono le sole ricciature, ma sai bene, quei cuscinetti nelle fascette per addrizzare la schiena; e tutte quelle acque e quella poca pezzuola che semina il rosso tra carne e pelle; e ci vuol maestria nel toccarla, e non se n’è ancora accorto nessuno: eppure, con tanta premura, la è tutt’una.

— Ma dici da vero? non buschi nulla per tanto lavoro! — E l’altra presenta la mano chiusa alla bocca, vi soffia sopra e l’apre, indi la scuote in aria e soggiunge: — Lavora, lavora e sempre a uf. —

Alla mattina, sul mercato, due uomini s’incontrano, e hanno una lista d’oro intorno alla cappellina verso la tesa, e una nappa nera al cucuzzolo.

— Addio, come la ti va? —  bene male. — Oh ti lamenti di gamba sana! — Ma in che modo? — Diavolo, tu sei fortunato! il tuo padrone la spaccia alla grande; casa aperta in città e in campagna, la signora, con quegli occhi da basilisco, tira gente, e pranzi, e conversazioni, e rinfreschi. Sempre va e vieni, e mangia e godi, ne cadranno di belle mancie da coloro che se ne partono a pancia tesa e a cuore contento.

[140] — Oh sei pur matto! l’andava meglio quando serviva da cameriere alla trattoria; in fin del pranzo sul rovescio del piatto, levava il conto di quanto aveva imbandito all’avventore, ed ei pagava: qualche quattrinello al padrone, quattro o cinque soldi per ogni commensale, non mancavano mai. Adesso con tutta quella gente che mena tanta spuzza, non ne casca. Corri, prendi il cappello, chiudi un occhio quando sono in gabinetto, aggiungi micche e micche a tavola, e cambia bottiglie che sono sempre vuote, e poi se ne vanno. «Illustrissima, felice sera. Em! schiavo Giovanni» e fuori. —

— Burli eh! non ti danno proprio niente? — e l’altro colla mano aperta e volta di profilo verso la faccia, la scorre rapidamente innanzi alla bocca, soffia, e aggiunge:

— Oh, mio caro, tempi calamitosi, sospirano, bevono, mangiano e tutto a uf. —

Mutate città e provincia, qualunque sia il dialetto che il parlare del sì pigli lungo l’onorato stivale, v’accadrà d’udire lo stesso proposito.

— Eh malora! quindici giorni e sempre deserto san Carlo, e jeri sera, san Gennaro, era zeppo perchè ci si entrava a uf: che pigli tanti accidenti quante sono le formiche che vanno sulla piccola soma a costoro, che vogliono a uf teatri e maccheroni. — Quanta calca a piazza san Pietro per vedere la girandola! e neppure un cane a sentire l’improvvisatore, e sì che è Pastor [141] d’Arcadia. — Ah l’era piena l’arena per vedere la corsa dopo pranzo, e dubitai vi venissero fino le statue degli Scaligeri, e niuno vuole dare occhio al bel Panorama, e sì vi si vedono le nozze di Giulietta e Romeo. — Ma badate che fenonemo? vuota sempre la Scala, e ci son dei virtuosi a peso d’oro, e al Filodrammatico, venerdì non si poteva muovere un dito!

A tutti questi atti di meraviglia, state in orecchie e udrete rispondere nelle case, in piazza, alla taverna, dalle signore, fra gente accostumata e civile, dal volgo, sempre collo stesso gergo. — Ah l’è bell’andare, l’è bel correre quando si gode a uf! — cioè senza frustare lo sparo al borsellino.

Ora come l’è questa storia? donde venne questo simbolo usato in tutta Italia, a indicare quel caro per niente che tanto piace a ogni generazione d’uomini, simbolo consacrato dal Lippi nel Malmantile ove dice: — Chi dal compagno a ufo il dente sbatte.

Umana curiosità! non l’è mica pane per tutti i denti sciferare questo problema, e forse ne sciolse de’ meno ardui il gran Bordoni: ci vorrebbe un’accademia, con ellenisti, archeologhi, filologi, linguomani e linguofagi, e tutti gl’investigatori delle origini e delle scoperte. io sì piccino oserò provarmici, che non voandarmene sbertato come i mille che pretesero trovare la quadratura del circolo, e non aveano ancora trovata quella del loro cervello. A ogni modo se vi è entrato [142] desiderio di sapere questo indovinello, amabili mie donne, converrà dirvene qualche cosa, per non lasciarvi in gravi pensieri, come vi accade quando non giungete a pescare la parola della sciarada: allora se vi capitano i galanti, guai! accigliate, pensose, non udite neppure i loro affanni; ed io non votormi le maledizioni che essi scagliano al Corriere delle dame e all’Eco. M’ingegnerò alla meglio sulla scorta altrui di cavarvi questo desiderio, e senza chiedervene compenso, perchè non vi fo la corte, ma vocompiacervi a uf: già sapete ch’io sono tutto vostro, anima e lingua, perchè tengo troppo soavi ricordanze col vostro sesso per non esservi amico; e se talora vi pizzico un pochetto, è solo per isfogare con alcuno una rabbietta che mi rosica a certi quarti di luna, ma il fo senza mal animo ed alla libera, mentre so che non ve la pigliate a sangue, e non offese mi pagate d’un sorriso.

Ora qua adunque assise in gabinetto, sur un semplice tamburetto, innanzi alla tavoletta, avvolte in un pulito accappatojo di bucato tutto a frappe ed a merletti: ivi alberelli con mantecche, ampollini con essenze, calamistri, forcelle, pettini, specchi e mille galanterie. Abbandonate il bel capo ai vostri Colbert, ai vostri Pitt, sia pure il Moriggia, il Bressanino, o il Migliavacca che or ora sulla Senna temperò il pettine lombardo all’officina delle mode e delle grazie: siete in ottime mani, essi ve lo acconcieranno meglio che non era quando usciste dal letto, almeno [143] per parere avvenevoli, mentre sanno che un bel capo non importa se sia giusto, purchè sia bene acconciato. Intanto che il vostro ministro col pettine spicciatojo sviluppa il garbuglio della capellatura, la divide, la intreccia, ve la ravvolge a’ bei trasfori sulla testa, vi fa ricci e cincinni a’ polsi; pigliate questo libro fra le mani, ponetevi l’indice fra pagina e pagina, gittate un motto, una dimanda al confidente artista per udire qualche novella delle rivali. Mentre ei vi risponde con parole tronche, con alcun proposito dubbioso, voi per non mostrare di curarvene, aprite il libro, scorretene qualche linea, ma badate bene a non leggere, perchè vi sfuggirebbe quanto ei vi dice, e sarebbe un mancare alla femminile curiosità; ah! non vorrei essere io il profano che osasse togliervi da sì grave cura.

Cade il momento, anche per me: è quando ei pone mano alle treccie, alle ricciaje posticcie le accotona, le racconcia per accrescere il volume de’ vostri capelli e farvi la testa meno leggiera; quando giunge la cameriera con un piatto nero che pare il serbatojo dell’unguento, onde le streghe s’apparecchiavano per andare a cavallo d’una granata a fare congrega al noce di Benevento; quando ei col palmo dalla mano attinge di quel nero e ve ne spalma il liscio de’ capelli divisi sulla fronte dall’addirizzatojo, e vi sparge una fuliggine che vela la nascente vergogna del trentesimanno. Allora per non arrossire innanzi a chi è conscio [144] della vostra debolezza, ed è strumento della vostra più innocente bugia, aprite il libro, ponetevi a leggere con intenzione e raccorrete le notizie ch’io unii per darvi sollievo in questo momento fatale al vostro orgoglio. Finita quella faccenda date in uno scoppio di risa, riprendete più garrulo il cicalìo, e rimiratevi nello specchio come siete rabbellite e ringiovanite, e persuadete prima a voi stesse, che quanto appare è tutto vero, per persuaderlo poi ai vostri adoratori.

Sappiate adunque che un gran dotto il quale conosce le lettere greche e latine non solo, ma quelle di tutte le lingue orientali antiche e moderne dell’India e dell’America, perchè ha veduto il pater noster di Bodoni, che è versato nei costumi di tutti i secoli e di tutti i popoli, perchè da un librajo osservò le tavole miniate del costume antico e moderno del dottor Ferrario; che conosce i classici di tutte le nazioni perchè scosse la polvere alla biblioteca d’un suo amico; che studia la storia razionale dell’incivilimento perchè vide da un amico i volumi di Vico; sta scrivendo sull’origine della a uf. È un’opera di tanta profondità ed estensione, che la invidieranno all’Italia fino i sapienti di Francia, e sarà la prima volta che confesseranno, che altri li vincesse in dottrina o in ciarlatanismo.

Siccome io tengo qualche entratura coll’autore, mi fece comodità di studiarvi entro un pochino, tanto che posso darvene il disegno e qualche [145] saggio, sicchè ne sappiate qualche cosa, e vi inanimiate a prenderne l’associazione.

Il titolo è modesto perchè imitato da Bacone, — nuovo organo del sapere per ispiegare un problema di linguistica — parola fusa sul conio di Adriano Balbi. — Tre gran volumi in foglio, quante sono le tre lettere che compongono il problema, divisi in libri e capitoli, stampati a tre colonne per ogni pagina; e questa sarà novità tipografica non ancora trovata da Bettoni; corredati di tre grandi tavole disegnate da Minardi, Sabatelli e Camuccini, incise da Toschi e dai due Anderloni; in ciascuna delle quali si darà una lettera della portentosa parola a uf. Vi sarà infine il ritratto dell’autore, disegnato da Diotti, e per ora inciso da Toschi; ma a suo tempo verrà scolpito da Marchesi e sarà collocato in qualche piazza su una colonna alta venti braccia come quello di Volta, sicchè non si possa vederlo in viso da chi passa: sarà vestito cogli abiti del nostro secolo, però avrà in capo una grande parrucca, giacchè è quella che fa gli archeologi, e molti fiorenti del nostro tempo valgono poco appunto perchè non ne portano, sebbene la maggior parte s’ingegnino di mostrare nel loro modo di svolgere le quistioni, che sono alquanto imparruccati.

Ora al buono: nel primo volume il chiarissimo autore (gli autori si devono sempre chiamare chiarissimi dai Giornalisti e da chi notizie delle loro opere, altrimenti non le mandono in dono), [146] l’autore adunque parla della potenza attribuita ai numeri da Pitagora dalla scuola d’Alessandria, fino ai Cabalisti e ad Agrippa; dai filosofi-poeti antichi fino a Chateaubriand, che ha fatte tante belle induzioni sul numero 14 che il disse fatale, e in quell’occasione il fu infatti anco allo spirito dello scrittore. Dirà del 2 di cattivo augurio, del 6 simbolo dell’euritmia presso i Caldei, del 7 tenuto eccellentissimo in Asia; e dopo mostrerà come innanzi tutti il 3 sia tenuto in grande considerazione nelle tradizioni de’ popoli più remoti, fino all’a uf parola di tre lettere; e quindi sia questa a cui bisogna fare di cappello.

Nel secondo, armi in resta contro il Lippi e i suoi commentatori. e guerra lunga quanto quelle del medio evo. Mostra prima, profanazione l’avere aggiunta una lettera a detto a ufo, invece di a uf, e con trecento trentatrè esempi cavati dagli scrittori del trecento, prova che il Lippi volendo fare un zibaldone di motti popolari, osò sovente falsarne alcuni, e coniarli a suo modo: quindi gli errori di chi gli fece la chiosa, il quale spiegò l’a uf in questa maniera.

«A ufo. Senza spendere. È detto plebeo. Si scrivono da’ magistrati di Firenze lettere di commissioni a ministri forensi, le quali da coloro che le chieggono, e le presentano, si pagano a’ magistrati che le fanno ed a’ ministri che le ricevono: e quando non sono chieste, ma sono fatte, e mandate per proprio interesse di quel magistrato che [147] le fa, non vi è spesa alcuna: e però affinchè tali lettere, le quali non si pagano, si possano distinguere da quelle che si pagano, scrivono nella soprascritta ex ufficio, ma l’abbreviano scrivendo ex uff.o: ed i tavolaccini o donzelli, che le consegnano, non leggono se non ex ufo: e distinguono queste due specie di lettere dando a quelle che ci pagano il nome di lettere col diritto cioè colla dovuta spesa; ed all’altre il nome dell’ufo cioè senza spesa. E di qui è nato questo detto a ufo che vuol dire senza spesa, e serve in ogni occasione.

Delirio, storia falsata, ragionare copiedi; pare un maestro di logica. L’autore, alla mano i calendari di tutte le nazioni, discute sull’arte di verificare le date, e ne statuisce una nuova teoria, per aprirsi la via ad investigare in qual tempo si principiasse in Firenze a scrivere sulle lettere ex ufficio. Formola di secoli recenti, dopo che la città era già in podestà dei Duchi; quasi posteriore al Lippi, di poco anteriore al comento: quello non esser solo motto fiorentino, ma di tutta Italia, e avanti le pretese lettere de’ magistrati. Quivi s’afforza con esempi del principio del cinquecento, e ove non li trova nelle opere, nelle cronache, nelle liste inedite del bucato e della taverna, evoca dalla tomba scrittori di versi e prose e di panzane popolari, li fa parlare colla frase e nel senso ch’egli intende; come usano i vedovi del conjuge estinto, perchè testimoni che visse lieto nella [148] amorevolezza e fedeltà del compagno che resta a piangerlo; e dice di volerlo seguire, e spesso per non durare fatica nel viaggio, s’accomoda a dargli un successore: è tutta verità storica.

Sviluppato da questa matassa, naviga maggior pelago la navicella dell’autore, e le sue vele prendono l’alto, e s’ajuta d’audaci venti, abili a scoprire nuove terre; tutto vale per lui, l’analisi e la sintesi, fino le formole trascendentali, e mostra a priori, e a posteriori, l’origine mirabile dell’a uf. Tocca prima degli Etruschi, dell’antica sapienza italiana, se sia nativa o importata da Temosfori, siccome disputano Vico, Micali e Romagnosi, e pare che s’attenga all’ultimo con un po’ di temperamento; poi cala all’origine di Roma sulle traccie di Neibur e Michelet, scorre tutte le vicende del popolo romano, la caduta dell’Impero, la venuta di san Pietro a Roma, la vita di tutti i Papi fino a Giulio II. Ritesse poi la storia delle arti da Prometeo e Pigmaglione, dal castoro e dall’inventore della prima capanna fino a Bramante Lazzari, ed alla basilica maggiore del mondo, san Pietro in Vaticano...

Oh ecco un critico! — che a fare la Vaticana coll’a uf? a che rivalicare tanti secoli per venire alla fine del decimo quinto? — Piano, avanti censurare un libro, attendete ch’esca in luce. Si vede poi che non sentite addentro in archeologia; conviene risalire della gallina all’uovo, fino a quel primo che fu trovato nella sabbia, e non si sa [149] d’onde cascasse. In fatti senza Troja ed Elena, senza la Lupa e Romolo, sarebbe sorta Roma? Senza Roma si sarebbe fatta sì grande la gloria d’un popolo da stendere le ali sul mondo noto? senza questa grandezza, si sarebbe levata in Italia la sede della nuova credenza? senza questa trapiantazione, sarebbero stati il Pontificato e la Basilica? si sarebbe levata la Vaticana? sarebbe sorto quel grand’uomo di Giulio II, che aveva vasti pensieri e lascerà sempre chi il desideri redivivo? e senza lui s’avrebbe pensato alla ricostruzione di san Pietro, e se ne sarebbe allogato primamente il disegno a Bramante? Ragiona bene eh l’autore o no? — Bravo. — Dunque la conclusione. — È tempo. — Oh la fanno sempre gli autori?

Or sappiate che papa Giulio per agevolare le spese di quel grande edifizio, fece immunità di ogni gabella, a legna, marmi, calce, ferri, insomma ai materiali tutti che valevano per la fabbrica; e ordinò che tutti quelli i quali prestassero gratuitamente l’opera propria al lavoro, fossero francati dai balzelli nelle masserizie d’uso domestico. Perchè poi non nascessero frodi o dispute, ordinò che a tutti i legni, i marmi, od altro che entrasse in Roma immune per questo privilegio, alcuni appositi deputati, sur una parte scrivessero con un inchiostro indelebile, pari ai cento inventati dai nostri chimici per segnare la biancheria, queste parole — ad usum fabricae; erano insegne di salvazione dal flagello dei gabellieri, che è tutto dire.

[150] Questa storia, d’onde l’autore la pigliasse, nol vodire, ne vedrete a suo tempo le citazioni; intanto vi accerto che ne corre eguale tradizione in Roma.

Ora siamo alle strette, alla parte metafisica del libro; ei si leva fino all’origine delle lingue; con principii sublimi od oscuri come que’ di Bonald, mostra la tendenza innata delle gole umane alle vocali e ad isolarle. Poi si getta nell’etica, un trattato sulle passioni dell’uomo, e fra queste vi pone la fretta, sebbene esclusa da Cartesio fino ad Alibert: anzi dimostra che essa è un istinto, un prodotto dell’organismo, una formola primitiva dell’intelletto, una relazione del microcosmo sul macrocosmo; mirabile fusione encletica di tutte le filosofie del tempo! Sensualismo, cusinismo, kantismo, polarismo; e ne vengono fuori di belle novità meno il buon senso.

Sarebbe lungo ripeterne tutti i ragionamenti, valga solo la parte frenologica e perchè è la più ragionevole, e perchè spetta all’anatomia, scienza che piace al nostro tempo, che tutto va in autopsia.

Prova ei dunque col sistema di Gall, che nel cervello vi è l’organo della fretta, e ne riferisce la sezione del cervello di tutti gli animali rapidi ragni, pulci, cervi, cani levrieri, uomini che corrono. Fatta la scoperta, e dopo avere scorticati molti sgraziati morti all’ospedale, prova che da quella protuberanza che è nel cervello ove siede la fretta, si parte un nervo; esce da un forellino [151] nella base del cranio, scende lungo la carotide fino alla base del collo dove si mischia coi nervi che si diramano alle braccia, e compongono il plesso bracchiale; s’accompagna al nervo radiale, e va fino ai muscoli motori dell’indice e del pollice; e sfida Portal e Panizza a negargli tale verità. teme gli accada quanto avvenne dell’uomo fossile trovato nel lago di Costanza al principio del secolo passato, che i dotti proposero come testimonio delle antiche rivoluzioni della terra, e Cuvier mostrò nel 1811, che era lo scheletro di una grande salamandra; non teme gli avvenga quanto ora succede a Roma del Teschio di Raffaello, che da tanto tempo si mostrava all’Accademia di san Luca. Innanzi a quella reliquia i dotti sbalordivano, i pittori veneravano, vi toccavano la matita e la copiavano nell’albo; i frenologi maravigliati, trasecolati vi trovavano pronunciato, sviluppato al sommo l’organo della pittura, e quasi credevano il Sanzio nato col pennello in mano: ora ai 14 settembre 1834 si scoprono le ossa dell’Urbinate e colla testa. Ah perchè certo Raffaello non ne aveva due come alcuni altri privilegiati trapassati! vi narra il professore del Chiappa che quella già venerata era d’un canonico don Desiderio: quindi o il canonico era anche pittore, o l’organo della pittura e quello del cantare mattutino si confondono e si sviluppano insieme; o i frenologi hanno perduto la bussola.

Le indagini del nostro autore sono sicure; la [152] sua scoperta rivela un nuovo mondo nelle scienze morali, come il microscopio solare nei liquidi. La causa innata della virtù dei giuocolieri, della industria di coloro che spazzano le tasche per le strade; della fretta dei poveri fanciulli che storpiano l’aste quando apprendono a scrivere, e l’ingiustizia delle staffilate che si davano loro, e fu certo per presentimento di questa scoperta che si sono vietate, perchè sta il fatto dell’organo immobile più dei chiovi adamantini d’Orazio; la causa della scrittura a sgorbi d’alcuni sicchè si pena mezz’ora a leggerne una riga, eppure è ingiusto biasimarli; la causa delle parole storpiate, l’origine di tutti i gerolifici, di tutti i monogrammi, di tutte le abbreviature dell’universo e fino degli spropositi d’ortografia; e non vi è buon senso a condannarli; sta il fatto dell’organo: Voltaire era nato senza quello dell’ortografia.

Da ciò scende chiaro, nel modo stesso che vedendo un giovane pallido, sfinito che anela frequenti sospiri, si deduce essere innamorato, cotto; come que’ funzionari del Papa, a segnare le cose spettanti alla fabbrica di san Pietro, avendo assai sviluppato l’organo della fretta, incominciarono ad abbreviare quel ad usum fabricae: vi tolsero ora una lettera ed ora un’altra, finchè le ridussero alle sole iniziali delle tre parole A. U. F. Ecco nato dopo lungo ordine di cose il portentoso a uf. I Romani cominciarono a dirsi: — Va’ a scrivere su quel sasso l’a uf. Signori, qua a segnare l’a uf — passi, passi per l’a uf. —

[153] Non la è finita: l’autore entra in altre ricerche severe: moralità e immoralità degli uomini; teoria dei sentimenti morali più estesa di quella di Smith; se l’uomo sia naturalmente buono o cattivo. Ciò per dichiarare che molti a quei tempi in Roma, volendo scapolare il pagare le gabelle, se la intendevano con questi segnatori della fabbrica di san Pietro, e facevano mettere sui marmi, sulle travi e su altre cose le tre magiche parole, e passavano senza pagare, e gli invidi e i beffardi dicevano: oh la è andato a uf! Gli abusi moltiplicarono; e il segno era posto su mobiglie e commestibili, e trafugatili in città e in casa, si davano nel gomito, e si dicevano a vicenda. — Eh l’è passato, l’è venuto a uf; son bravo neh? —

Poi vennero le analogie, il generalizzare, forza dell’intelletto umano che si prova col sistema di Locke: si applicò questo motto prima a que’ che prestavano opera gratuita alla fabbrica della basilica, poi a tutti quelli che si godevano qualche cosa o si facevano servire senza spendere. — Lavora bestia a uf, e ci metterai la vita. — O bevevano a scrocco, o mangiavano senza pagare, e preso fiato battevano il ventre — bello empierlo ed a uf! — e con questo motto ridevano que’ che erano caduti nel laccio.

La parrebbe finita e sarebbe tempo, ma l’autore è scrupoloso e forse anche indiscreto. A un volume già ridondante di tante cognizioni, angusto a tanta mole di cose, aggiunge un’appendice [154] a martellare il cervello de’ lettori, come i comenti fatti al canzoniere di Petrarca che è chiaro come il giorno. In quella appendice, quai documenti giustificativi, per seguire l’esempio di Muratori, di Cibrario e di Troja, unisce la storia di tutte le prime applicazioni che si fecero dal popolo in Roma di questa parola, per esprimere che si faceva od otteneva una cosa gratuitamente; io ne trascelgo una, ve la trascrivo e vi esco di fastidio.

 

DOCUMENTO GIUSTIFICATIVO

tratto da una pergamena scritta in azzurro.

 

Fate largo a Messer Rufo; trista quella pietra che gli tocca il piede: l’è grande, l’è potente, l’è uno scrigno d’oro; amico ai capelli rossi, cava un uomo di castel sant’Angelo se appena apre bocca. — E tutti gli davano la diritta, gli facevano di berretto: nessuno rispondeva un zitto a quelle lodi, sebbene alcuno lo guardasse in cagnesco e tirasse innanzi.

L’era e non l’era: denari molti, prepotenze assai, superbia infinita: i primi accresceva coll’avarizia; usava le altre per la debolezza degli uomini. Voleva spacciare generosità, ma colle tanaglie non gli si sarebbe potuto trarre un soldo dalle mani; era largo parlando sempre di cortesia. Voleva tenere corte, e correva ne’ secchi a rinfresco acqua tinta; banchettava artisti e patrizj e trinciava la [155] carnesottile che molti ne avevano pieno il piatto e vuoto il ventre. Lesto di gambe e di lingua, era in ogni luogo, s’impacciava in tutto, metteva mezzo mondo in fastidio con sue incombenze: corri, va’, vieni, lavora, e a compenso una stretta di mano, una carezza, un ringraziamento ampolloso, la propria protezione; ma venne la sua ora, e suonò a stormo.

Lucio era sorto tra la poveraglia di Trastevere o de’ Minenti, ma con una piccola prebenda ottenuta dall’industria della madre, s’era fatto agio a studiare, e da vent’anni era il letterato di Ripa grande, e lo ossequiavano come il Minente dotto. Ingegno svegliato e pronto; sapeva, come richiedeva il secolo, fare dei sonetti petrarcheschi, qualche elegia sul fare del Poliziano, qualche madrigale che serrasse alla pelle del sapore di quei dell’Aretino. Il conobbe Messer Rufo, e gli pose gli occhi addosso, avvisò venirgli il destro di spacciare in casa un segretario senza disagio di borsa, perchè quel tristanzuolo aveva bisogno di pane. Trovò modo a parlargli, gli cerimoniò intorno alquanto, sicchè lo indusse ad accontarsi per suo maestro di casa. Lo rivestì tutto a nuovo con suoi panni dismessi, gli commise l’educazione dei figli, la ragione delle sue entrate, il governare la biblioteca.

Non gli dava mai tregua: a ogni freddura: — Verrà il mio segretario — Or ora vedrà il nostro maestro, il bibliotecario di mia casa — e lo [156] spacciava a ogni tratto da un capo all’altro di Roma, a Montecavallo, al Vaticano, a Campo Vacino, a sant’Onofrio, al Campidoglio; e trotta e corri, alla sera il povero Lucio aveva perdute le gambe. E poi vi erano i marmotti cui imparare a leggere e mettere a memoria la mitologia; perchè sapessero innanzi alla brigata squittire come i pappagalli chi fossero Giove e Venere; poi le lettere da scrivere ai Cardinali e Monsignori; poi dopo il pranzo leggergli le commedie dell’Ariosto, e dirgli le novità letterarie, perchè apparisse erudito. Quando non v’era alla sera molta comitiva, il poveraccio bisognava che ne stesse colle carte in mano per fargli numero in partita, e quand’era solo gli tenesse tavola allo scacco, e si lasciasse dare il matto per non vederlo iroso. E per tutti guadagni, lodi in pubblico di gran sapienza, e in privato sempre gli teneva mal umore e non si mostrava mai contento. Il povero segretario non sapeva che dirsi, e parendogli sempre di non accontentare a dovere il padrone, non osava chiedergli mercede delle sue fatiche; e se talora gliene gittava qualche lontana parola, Messer Rufo gli poneva una mano sulla spalla: — Seguita a fare meglio, e non dubitare della mia protezione. Passarono due anni e Lucio non s’aveva intascato un bezzo, e n’aveva per tara l’essere proverbiato da’ suoi, che il gridavano segretario a uf, e gli davano la baja. Ei si vedeva a questa triste condizione, e fu più volte per [157] romperla col signore e mandarlo in malora, ma pure si teneva per non gittare tante fatiche in un momento, e sempre sperando un compenso. In fine vinse la necessità. Aveva una sorella da marito, e gli fu intorno la madre perchè gli facesse un po’ di dota ed ei non aveva un soldo. Determinò rivolgersi a messer Rufo, e gli chiese due cento lire quasi per Dio. L’avaro rinnegato s’indispettì come se gli avesse tagliata la borsa, lo caricò d’ingiurie; — lui villan trasteverino, indolente, prosuntuoso; lui indiscreto, ingordo: avergli scossi i cenci di dosso, tratto dal sudiciume, non gli bastava dormire su i materassi, mettere i piedi sotto la sua tavola, vestire i suoi abiti; che osasse pure cercargli danari? Razza vituperata che mai non doveva porre piede in casa un suo pari, un patrizio romano. — Furono parole assai e il Minente non se la sentiva d’andarne a mani vuote, e il padrone di cavar denari: vennero all’ira, alle ingiurie, e messer Rufo cacciò Lucio di casa come un malfattore, e il Minente mordendosi il dito, giurò che gliela avrebbe pagata.

All’altra mattina per Roma si domandano: — Oh! che ci è di nuovo? — Pasquino ha parlato. — Una canzone? — Due soli versi, e vi è del mistero. — E tutti traggono a Pasquino e trovano che gli pende dal collo un bel cartellone con scrittovi a grandi lettere

 

Premio: serto d’ortiche a messer Ruf

Perchè inventò di spacciar grande a uf.

 

[158] Chiose e postille e tutti ripetono que’ versi, e ne ridono di cuore, perchè hanno sullo stomaco quel sordido arrogante; e sebbene tutti non ne colgono il vero senso, indovinano chi li abbia fatti. Stringono la mano a Lucio — bravo, eh! va bene. — Oh ce l’ho fatta: mal per lui; si picchi la coscienza. —

Ne corre notizia al Rufo: Pasquino l’ha posto in favola. Ei si ricorda quel dito che si morse il Minente; sbuffa, pesta i piedi, corre con gonfio il petto al Senatore di Roma, querela Lucio e ne chiede vendetta.

Il discreto Senatore dichiara che non intende ove feriscano que’ detti, volere sentenziare se non udì le parti in giudizio, e le chiama alla dimane in Campidoglio. Traggono molti signori e uomini di lettere e gente di corte, traggono molti trasteverini con in tasca certi argomenti a persuadere messer Rufo di desistere dalla querela, se vedono che la causa pieghi a danno del compagno. Suona il campanello, siede il Senatore in seggiola, e dove un s’agitavano i destini dell’universo, si piativa tra un avaro ed un poeta.

Il primo fece una lunga diceria sul rispetto che si deve ad un cittadino romano, e sul castigo che vi sancirono le leggi a chi vi manca fino dal tempo degli imperatori. Indi calò alla prova e disse che Lucio Trasteverino aveva sfregiate le leggi a , con parole d’ingiuria e di calunnia; terminò con una perorazione in cui fece [159] parlare colle lagrime agli occhi le ombre offese de’ propri antenati, che chiedevano vendetta strappandosi i capelli e la barba; e pensò di commuovere gli spettatori.

Toccò dopo a parlare al Minente: si alzò in piedi; s’acconciò i capelli, tossì, si forbì col moccichino la bocca, e acconciatala un cotal poco fra schermo e dispetto, cominciò.

— E fino a quando, o signori, dovrà l’avarizia andare impunita sui sette colli? Tu imponi, o reverendo Senatore di Roma, ch’io rinnovi l’infando dolore, ed io non rifiuterò di dire le miserie delle quali io fui.

Sì certo sono miei que’ versi, ma e perciò potrà darmene taccia d’ingiuria messer Rufo? Ingiuria chi una calunnia, non chi dice il vero; ed io nol dissi che in miti parole. A cui non è nota la sua avarizia? ne suona tutta Roma, e quindi il mondo. Non dirò ch’ei misura la minestra, adacqua il vino e taglia il pane nella sua tavola ai convitati; non ch’ei racconcia i cenci che ha soppanni, sicchè stanno insieme in virtù d’una matassa di reffe; non che porta le camicie d’un mese, perchè non si logorino al bucato: queste le son cose che spettano a lui, tibi aras, tibi ocas. Ma ei pretendeva ch’io il servissi senza pagarmi, e perchè gli chiesi un po’ di salario, mi cacciò come un cane di sua casa. Ei si arroga i privilegi della basilica vaticana, ove si lavora a uf, ed io annunziando in cospetto del [160] Senatus populusque romano il suo vizio, ho solo fatto una traduzione, ho usato il modo che già si adopera in Roma, ad indicare chi vuole passarsela senza spendere, come costumano i pari suoi

Non aveva io forse diritto a un compenso per tante fatiche, e non ne frustrò egli tutte le speranze? Io appena alzato gli ordino la casa, gli fo imbandire per colazione le reliquie della cena, mando alla piazza del Panteon a comperargli le vivande di minore mercato pel pranzo; gli razzolo le carte e robe vecchie per venderle al cenciajuolo, e tutto si vuole ch’io faccia a uf. Io gli educo i fanciulli e gli insegno la sapienza di Cicerone e il valore dei Scipioni, e sì grande fatica pretende ch’io la faccia a uf. Io correre tutto il per Roma, scrivere lettere, che ei non sa usare la penna, io portare ambasciate e sempre a uf; io tenere i conti per bilancio della sua avarizia, registrargli i pegni, leggergli i libri, cacciargli nella testa l’erudizione onde fa pompa nelle conversazioni, e tutto a uf. Basta mo? È costui la fabbrica di s. Pietro ch’io debba sacrificargli tutto me stesso a uf? e dovrò tacermi, e l’avrà fatta impunemente? a mi an? No, glielo dissi, a me non la freghi: almeno sappia Pasquino e il mondo, che costui non mi ha gabbato, non mi ha scroccato a uf. —

Un bisbiglio, un ghignare e uno sghignazzare universale s’alzò nella sala, e tutti guardavano il sordido patrizio che impallidiva, e il Senatore che [161] non poteva capire nella pelle pel ridere, e si copriva come poteva il viso col lembo della toga. Tutti fecero eco quando venne a termine il Minente, ed era un confuso ripetere di messer Ruf, a uf, a uf, che pareva un mercato di campagna, quando un somarello preso da subita paura corre fra la gente, i polli e le oche, e pone tutto in iscompiglio.

Non senza durare fatica, e colla propria autorità, giunse il Senatore a porre in calma quelle turbe; quindi dimandò al signore romano se era vero che non aveva pagato Lucio, e l’intrepido avaro rispose che lo aveva fatto degno d’aiutare il suo palazzo, e gli aveva accordata la propria protezione. Allora il Senatore accigliato, senza molto attendere, sentenziò che colla protezione non si compensano le fatiche altrui, i servigi prestati; e quindi messer Rufo non dovesse lagnarsi, se Lucio n’aveva fatta pubblica querela. Anzi aggiunse, farglisi luogo a dimandare d’essere risarcito di quanto gli doveva a giudizio di due probi uomini.

Il Minente generoso rispose tosto che vi rinunciava ed essere lieto d’avere imparato a uf a conoscere un avaro. E tutti gridarono evviva il Senatore e Lucio, e si sentì di nuovo un bisbiglio di a uf e di Ruf, che pareva il ripetersi del tuono fra gli echi dei monti e delle valli. Ma quel tuono macinava tempesta e già i trasteverini cominciavano a incitarsi, per dare con quattro busse la [162] buona misura alla sentenza del Senatore per messer Rufo; sicchè ei prese il migliore partito di sguizzare fra gente e gente, scivolare nella prima casa che gli occorse e nascondersi. —

Molte altre storie riporta l’autore a comprovare come si applicasse il motto a uf in que’ secoli ai diversi eventi della vita. Sono casi d’amore, miserie d’amanti, tradimenti di donne, abbandoni di mariti infedeli, più o meno fatti a uf! Quindi vicende dei grandi, mutamenti di stati, guerre combattute, città arse e saccheggiate, e vi entrava sempre fra le lagrime ed il compianto il popolo che vi pativa a uf. In fine, venture liete e piacenti, ove per lo meno che ci sia è il ridere a uf; cose tutte onde si avrà a farne un Iliade, quando sieno pubblicate, a conforto di quelli che amano i gravi studj e la peregrina erudizione.

Da tante ragioni e documenti, è comprovato, come due e due fanno quattro, che dopo quel secolo cominciò ad avere sanzione quel motto, e si adoperò in quel senso, prima in Trastevere, poi in tutta Roma, e tosto nell’agro romano. Indi, come i cerchi che si fanno attorno al punto ove cadde un sassolino nell’acqua, che si dilatano equabilmente intorno, l’a uf passò a Napoli, passò in Toscana, in Sicilia e in Lombardia, ed è accolto ovunque suona l’italiano, e chi sa che non valichi l’alpi e il mare, e non diventi presto il cittadino dei due mondi.

[163] Certo in tutto il globo terracqueo è simpatia dei grandi e dei piccoli di godere a uf, e conviene che s’accordino ad indicarlo con un simbolo universale: s’accorderà col secolo delle filosofie, nel quale però non tutti giunsero a fare chiacchiere e critiche sempre a uf.

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